Eccoci qui, come ogni fine anno, a rivivere il flashback giornalistico degli ultimi dodici mesi.
Questi di seguito sono i pezzi, raccolti in ordine sparso,
che hanno ricevuto più attenzione da parte dei nostri lettori nel 2021.
Altri Tondelli – di Linda Farata, con le illustrazioni di Giulia Dasiari
“I suoi personaggi giovani, queer, tossici, ribelli, libertini, innamorati, poveri, persi e perversi si stagliano benissimo nel panorama attuale, e la sua opera, letta in maniera prevenuta, si presta magistralmente a tutta una serie di bandiere politiche con cui ci fa comodo, ci da gusto quasi (e qui il rimando all’erotizzazione dei margini), considerarla. Ma in tutto ciò si cela qualcosa di profondamente ingiusto, poiché così non facciamo che un feticcio di Tondelli, un megafono per i nostri gusti e interessi, perdendo di vista ciò che ha scritto, il contenuto di ciò che ci ha lasciato, l’evoluzione che la sua opera ha attraversato.”
Essere. Umano. Omologato – di Antonello Pesce
“Purtroppo, per quanto si parli (ormai nemmeno più tanto) di rispetto delle minoranze, la tendenza all’omologazione di un unico corpo sociale, che parla un linguaggio unico e risponde a dettami culturali univoci, è un’evidenza storica: il patto sociale è in pericolo, è questa la minaccia che incombe. Certo, lo stereotipo dell’individuo moderno è: rispettoso, tollerante, unisex, vegano, riconoscibile virtualmente, compulsivamente dedito allo sviluppo e alla novità, ma soprattutto isolato, taciturno, obbediente e continuamente allo specchio sulle piattaforme a stelle e strisce.
Poco importa se poi consuma tecnologia prodotta in Cina, sfruttando il lavoro di operai che guadagnano pochi dollari l’ora, se veste tessuti cuciti in Bangladesh da fanciulli magri e assetati, se sperpera acqua o viveri provenienti da chissà dove e si cura con farmaci di cui due terzi del mondo (povero) non conosce nemmeno l’esistenza. Così deve essere il nuovo individuo, può piangere a casa sul divano guardando qualche documentario girato a tremila chilometri da casa sua, ma non può denunciare, è un tacito consenso.
E chiaramente mi dichiaro colpevole, ne sono dentro fino al collo.”
La rivoluzione degli Einstürzende Neubauten non muore – di Ambra Cavallaro
“Mi hanno detto che si chiamano Einstürzende Neubauten, che quel brano che mi capita frequentemente di ballare si intitola Haus der Lüge e che è tratto dall’omonimo album. Non ho ancora internet a casa, ma sono riuscita a risparmiare qualche euro per comprare il CD. Cammino verso via Nazionale ed entro da Melbookstore, l’enorme libreria romana che vanta anche un discreto reparto musicale. Mi compiaccio dell’edizione in digipack e dell’inquietante copertina realizzata da Fritz Brinkmann raffigurante un cavallo rosso su sfondo nero che urina con veemenza. Il suo occhio è la testa del misterioso logo.
Pago e lascio il negozio. Inserisco il CD nel player portatile Panasonic, infilo le cuffiette nelle orecchie e salgo sul bus per piazza San Silvestro. Skippo subito alla traccia 4 e mi addentro nella casa delle bugie. Vengo presa per mano dalla voce dilaniante di Blixa Bargeld e la esploro piano per piano, avanzando in un sistema di gironi danteschi. Qui, però, non è la volontà di Dio a trionfare.”
PMK: lo stato tedesco e la criminalità politica – di Lorenzo Monfregola
“PMK, Politisch motivierte Kriminalität. Sotto questo nome, dall’inizio del millennio, lo Stato tedesco cataloga la cosiddetta “criminalità con motivazioni politiche”, vale a dire tutte le indagini per reati che partono dalla semplice ispirazione politica e giungono fino alle accuse di terrorismo o altre attività contro la cosiddetta fdGO – freiheitliche demokratische Grundordnung (cioè l’ordine costituito liberale democratico della Repubblica Federale di Germania). Catalogazione senza validità legale, la PMK segue innanzitutto l’operatività e la razionalità della polizia ed è il nucleo dei report annuali che il BMI, il ministero dell’Interno tedesco, presenta a tutto il paese. L’impostazione analitica, la metodologia e i risultati della statistica sono spesso oggetto di dibattito. Il metodo con cui uno Stato organizza la catalogazione iniziale e il contrasto di quelli che considera i propri nemici interni può essere analizzato su molteplici layer di complessità. La statistica PMK è tanto indicativa e informativa quanto politicamente, ideologicamente e storicamente determinata, perché anche espressione del desiderio primario-arbitrario di uno specifico sistema-Stato di preservare-applicare-imporre se stesso nello spazio e nel tempo.”
Perdere l’amore – di Giorgia Bernardini, con le illustrazioni di Marco Amerigo Latagliata
“Di albori nella mia vita amorosa posso raccontarvene quanti volete. Sono ferrata nella fase uno: “cadere nell’amore” che è un sintagma che in italiano non esiste ma che io ricalco dall’inglese “to fall in love” o dal francese “tomber amoureux”. È interessante come nel verbo italiano “innamorarsi” non ci sia l’azione di movimento fisico che invece ci restituiscono l’inglese e il francese con il verbo “cadere”.
Non che il cadere in qualcosa sia rassicurante, anzi: è proprio l’esatto contrario. Se chiudo gli occhi e associo un’immagine al cadere in qualcosa mi viene in mente un profondissimo buco nel terreno o l’inciampo su un gradino. Non esattamente un’immagine amena. Ma è proprio in questo cadere che si annida l’essenza dell’amore: non scegliamo quando, né con chi abbandonarci all’amore; non scegliamo da quale altezza precipitare; non scegliamo nemmeno il momento. Accade prima di noi e quando ce ne accorgiamo, quando il cervello finalmente riparte e si allinea con il corpo e il cuore, ci rendiamo conto che saranno solo cazzi.”
Storia del Tropicalismo – di Paola Moretti
“Avevo vent’anni e redigevo articoli per una rivista online che ora non esiste più. Scrivevo di Neukölln, delle Kneipen e di ciò che mi colpiva a Berlino, la città in cui vivevo da un anno.
Finito il liceo mi ero trasferita nella capitale e dopo un corso intensivo di tedesco — molto intensivo, intensivo lungo diciotto mesi— potevo finalmente iscrivermi all’università. “Vorrei scrivere e fare la giornalista, mi viene facile imparare le lingue” feci come premessa alla direttrice della rivista chiedendole un consiglio sulla facoltà da scegliere prima dell’immatricolazione. “Allora scegli una lingua dei BRICS e continua a scrivere,” mi rispose.
Era il periodo in cui Brasile, Russia, India, China e Sudafrica stavano spingendo per diventare nuove potenze economiche. Dopo l’esperienza con il tedesco non avevo voglia di cimentarmi con una lingua ancora più difficile, scartai il russo per via delle sette declinazioni, scartai il cinese per gli ideogrammi e la pronuncia tonale, scartai l’India e il Sudafrica perché l’inglese lo sapevo già e Afrikaans e Hindi mi sembravano troppo “di nicchia”. Dunque andai in biblioteca e presi in prestito un libro per imparare il portoghese, non tanto per impararlo davvero, ma per capire di che lingua si trattasse, perché del portoghese a vent’anni, non avevo la minima idea. Lessi le prime pagine e mi sembrò facile, facilmente comprensibile. Poi inserii il CD per ascoltarlo e magia. Come quando senti la risata di un bambino e non puoi non ridere anche tu. Fu un contagio, una possessione, un colpo di fulmine che dura da oltre dieci anni.”
Nella terra degli invisibili – di Silvia Cegalin
“Due zaini Invicta sono appoggiati per terra mentre una sedia pieghevole blu è accostata ad una bicicletta. Poco più un là un gruppetto di uomini parla; li supero, i nostri sguardi si incrociano.
Quella è stata una delle prime volte che ho notato questo gruppo di persone che chiacchierava, le loro cose lasciate a terra. Giorno dopo giorno è stato sufficiente uno scambio di sorrisi e qualche parola pronunciata per caso perché tra me e loro si stabilisse una conoscenza e iniziassero così delle conversazioni, sorte dalla semplice coincidenza di trovarsi alla stessa ora, nello stesso luogo.
C’era però un arco di tempo, dopo le 11.00 e fino a poco prima delle 13.00, in cui non li incontravo più. Non capivo dove andassero e così glielo chiesi.
«Alla mensa dei poveri», risposero.
Quel giorno mi si aprì una finestra su un mondo che prima di allora non conoscevo: il mondo delle persone senza fissa dimora. Quella finestra non si è mai chiusa, anzi ha continuato ad aprirsi sempre di più, perché incuriosita dalle storie che mi erano state raccontate da alcuni clochard, a giugno di quest’anno ho deciso di vedere questo mondo più da vicino e visitare le associazioni che si occupano di dare assistenza alle persone in difficoltà.”
Almanacco illustrato degli animali di Scozia – di Caterina Coral, con le illustrazioni di Marta Bianchi
“C’è una minuscola isoletta tondeggiante chiamata bass rock al largo della piccola cittadina di North Berwick, nella Scozia sudorientale. Da lontano appare di un candore innaturale, se contrapposta allo scuro basalto della costa circostante. Ad un’analisi più attenta, tuttavia, ci si rende conto che quelle pennellate bianche che dipingono la roccia altro non sono che il guano delle centinaia di uccelli che ogni anno vi nidificano sopra. Tra questi, le più famose sono senza dubbio le pulcinelle di mare, talmente abbondanti da aver cambiato i connotati cromatici della roccia.
La pulcinella di mare, o Puffin come viene chiamata in Scozia, è un uccello marino dall’aspetto piuttosto paffuto. Il suo piumaggio è bianco sul ventre e nero sul dorso, in armonia con molti altri uccelli marini, quasi discreto a prima vista. Il suo becco rotondo e le grandi zampe palmate saltano però subito all’occhio, dipinte di diversi toni entusiastici di arancione, giallo, rosso e grigio, dalla forma che sembra essere stata disegnata da un bambino con molta fantasia e incredibile talento per i dettagli. Gli occhi truccati, come quelli di una diva del cinema muto, sono posti proprio al centro di due grandi macchie bianche ai lati della testa. Due cerchi perfetti che si aggiungono alla serie di contrasti cromatici alternati lungo tutti il corpo della pulcinella di mare, come quando si disegnano prima i bordi e poi si colora dentro.”
Considera il cinismo – di Piera Ghisu, con le illustrazioni di Federica Scalise
“C’è un termine che più di altri ha saputo trasformarsi e diffondersi nel lessico quotidiano, diventando assai popolare e venendo a rappresentare forse la cifra stessa di quelle che sono le dinamiche più frequenti sia nella dimensione comunitaria che in quella privata dell’età contemporanea: “cinismo”. È cinica la Merkel che gela la ragazzina palestinese che declama il suo amore per la Germania e viene invitata a non illudersi di potervi restare. È cinico il ragazzo che vuole fare carriera a ogni costo, perché il fine giustifica i mezzi e homo homini lupus, e se non sei lupo non ti salvi la pelle. È cinico il datore di lavoro che non rinnova il contratto alla donna incinta e non assume sopra i 40 quando i figli ci sono già e potrebbero dare problemi. È cinica la tipa conosciuta su Tinder, che ti ha detto senza mezzi termini che per lei è stata solo una scopata come un’altra, perché siamo tutti sostituibili. Insomma, il liquido della società di Bauman sembra essere davvero amaro, così amaro che in tempi piuttosto recenti si è diffuso un termine, buonismo, destinato a infangare l’immagine di chi non appare sufficientemente realista o pragmatico, o per meglio dire, cinico.
Il cinico insomma è rappresentatissimo in ogni classe sociale. È trasversale, è popolare, di sicuro molto più dei suoi colleghi epicurei, stoici, amanti platonici. Per questa ragione, sarà importante cercare di capire com’è nato, è mutato e si è diffuso il cinismo, termine che ha avuto un’interessante evoluzione semantica (semantic change), originata probabilmente dalla sua vocazione popolare, ateoretica e individualista, giunta purtroppo a noi svuotata di contenuti, come una conchiglia.”
Terrore tedesco – di Domenica Morabito, con le illustrazioni di Giulia Dasiari
“In questa storia ci sono tanti volti e tanti nomi. Tante vittime e pochi colpevoli. E i colpevoli hanno più nomi che volti. Ci sono due uomini, che il 15 giugno del 2005 si spostano in bicicletta per la città di Monaco di Baviera. E una donna, che alle 15:22 di quello stesso giorno si trova a Zwickau, in Sassonia. Sta chiamando il numero 0162/4639557. Il cellulare squilla. Uno dei due risponde. Poche ore dopo, gli uomini entrano nel negozio di Theodoros Boulgarides, immigrato di origine greca, che di mestiere duplica chiavi. Puntano le pistole e sparano diversi colpi al suo viso, col silenziatore. Poi, montano sulle bici e scappano.
Nel frattempo, nel quartiere Marienthal di Zwickau, la donna è a casa, al civico 2 di Polenzstraße e chiacchiera con le vicine, madri single che vivono grazie all’assistenza dello Stato tedesco. La chiamano Liese, come si è presentata quando si è trasferita nell’appartamento con Gerri e Max, nel 2001. Ma nessuno di loro si chiama davvero così. I loro veri nomi sono Beate Zschäpe, Uwe Böhnhardt e Uwe Mundlos e sono nomi sepolti sotto molte altre identità dal 1998, quando inizia la loro latitanza e la storia della cellula neonazista NSU (Nationalsozialistischer Untergrund).”
Essere cancellati – di Margherita Seppi
“C’è un delicato equilibrio nella difesa del diritto alla libertà di parola e nel ritenere gli individui e le società responsabili delle loro azioni. Il problema con la cancel culture è che non c’è gradazione e tutti i passi falsi hanno la stessa severità di punizione. Nella maggior parte dei casi, inoltre, la tendenza è quella di sacrificare il capro espiatorio senza possedere nemmeno la quantità minima di informazioni necessarie a giudicare ciò che si sta tentando di annullare.
D’altra parte, però, ci si deve anche guardare da chi si appella alla libertà di parola per impedire alle critiche di sortire un effetto. Sebbene questo possa essere un escamotage funzionante a breve termine per sostenere un argomento, è fallacie e non lascia spazio a compromessi. Questa tattica rende impossibile trovare l’equilibrio in una conversazione, ed è dannosa almeno quanto la cancel culture.
Ci troviamo insomma, ancora una volta, di fronte ad un’ambiguità che rende difficile un’immediata presa di posizione.”
Dieffenbachstrasse e il fascino discreto della gentrificazione – di Alessandro Borscia
“Nel suo percorso rettilineo di circa 1000 metri, Dieffenbachstraße si incrocia ortogonalmente con altre due strade, che possiamo utilizzare per dividere Via Dieffenbach in due parti. La prima è quella che va fino a Grimmstraße ed è occupata interamente, sul versante meridionale, da un complesso di basse palazzine di mattoni chiari che appartenevano all’originaria costruzione dell’ospedale (Krankenhaus am Urban), quella risalente al 1890. Oggi l’intera struttura, i cui edifici per un terzo andarono distrutti sotto il bombardamento aereo del 22 novembre 1943, è stata trasformata in un’oasi residenziale nel cuore di Berlino, dopo aver ospitato fino a dieci anni fa i locali del reparto di Psichiatria del Vivantes Klinikum am Urban. Sul lato nord, invece, solo palazzi e un ristorante, eritreo, indizio del variegato assortimento culturale della pletora di locali che affollano il secondo tratto di Dieffenbachstraße, cuore del cosiddetto Graefekiez. L’espressione deriva dall’unione del nome del medico oculista berlinese Albrecht von Graefe (cui è dedicata l’altra strada che incrocia Dieffenbachstraße) e la parola Kiez, che indica, soprattutto a Berlino, una circoscritta zona di un quartiere caratterizzata da specifiche connotazioni architettoniche – spesso aree risparmiate dalle bombe – ma anche sociali e soprattutto economiche. La parola deriva da Kietz, termine con cui gli storici si riferiscono ai particolari tipi di insediamenti medievali nel Nord-Est tedesco, nella Germania Slavica. Sorgevano nei pressi di castelli ed erano abitati, specialmente in origine, da popolazioni slave che prestavano al signore del castello opera di servizio e vassallaggio.”
Narciso e l’invenzione della solitudine – di Nora Cavaccini, con le illustrazioni di Ivano Talamo
“La struttura delle nostre personalità sembra regredire talvolta a modelli arcaici, dove immaturità emotiva, solitudine e vuoto la fanno da padroni, mentre, rafforzata dal contesto in cui viviamo, la nostra realtà pare raffigurarsi come un mondo fatto a specchio, in cui tutti, come Narciso, cerchiamo di conoscere noi stessi e l’altro tramite il riflesso dell’immagine che ci torna indietro.
Non è un bene che si parli così tanto di narcisismo ai giorni odierni. Non è un bene che anche la scena politica sia così dominata da ingombranti figure narcisistiche che utilizzano talento, coraggio e forza, in se stesse virtù, solo per accentrare plauso e consenso, senza mettere invece al centro l’importanza del dialogo con l’altro.
D’altronde, se come abbiamo detto il mito ha svolto l’importante funzione di dare una risposta ai problemi di conoscenza che l’uomo si poneva, spiegando il mondo e cercando di dargli senso e ordine, a conclusione si deve ricordare che in quello di Narciso sopraggiunge una punizione, che decreta la morte del protagonista e l’epilogo della storia.
Nei miti l’intervento di Nemesi si deve sempre al fatto che l’uomo ha oltrepassato in qualcosa i suoi limiti, dimostrandosi ingrato alla sorte o malvagio.
È vero, Nemesi è un’invenzione, ma pur sempre creata dall’uomo per esprimere una condanna su alcuni modi di condurre la vita. Che dire allora?
Cerchiamo di non affogare nello stagno.
Cerchiamo di non spingere troppo la corda scatenando le sue ire. “
L’isola di vetro – di Gianluca Cedolin
“Lascio la fondamenta (una strada che costeggia il canale, nella toponomastica veneziana) principale e taglio dentro il cuore dell’isola per raggiungere lo studio/galleria del maestro Tagliapietra, situato su un’altra fondamenta affacciata a Sud-Ovest della laguna. Osservando i panni stesi, i fili tirati fra una casa l’altra, avverto un senso di desolazione, il silenzio di un luogo dal quale sembra gli abitanti siano scappati via all’improvviso. Poi vengo investito da un odore forte, simile a quello dei pennarelli indelebili, che annusi pur sapendo che sono tossici. Proviene da una fornace accesa e mi ricorda che qui la gente ancora ci vive e ci lavora, che Murano non sta morendo.”
Le scope del sistema – di Stefano Boring
“Nonostante le molte caratteristiche negative della domesticità, nulla finora è riuscito a eliminarla, nemmeno la Rivoluzione d’ottobre e questo probabilmente per un motivo molto semplice: della domesticità se ne ha bisogno. Ne hanno bisogno i datori di lavoro, ne hanno bisogno i lavoratori. In definitiva si tratta di lavori essenziali, faticosissimi ma che rappresentano per alcune persone una vocazione e per molte altre l’unico modo per emanciparsi. Diverse associazioni fortunatamente stanno cercando di definire delle linee guida per rinnovare il settore una volta per tutte, garantendo a chi lavora in questa fetta di mercato condizioni di lavoro migliori. La direzione verso cui ci si sta orientando vanno dalla maggior qualificazione dei lavoratori attraverso corsi professionalizzanti all’affido del rapporto di lavoro a cooperative; per cui il datore di lavoro smette di essere la famiglia e diviene la cooperativa stessa. Questo garantirebbe un meccanismo di turnazione in cui più persone seguono una stessa famiglia e un solo lavoratore segue più famiglie.”
L’illustrazione di copertina è di Federica Scalise, per Considera il cinismo, di Piera Ghisu
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