illustrazioni di Giulia Dasiari
“E a Roma mi sento quindi come questa bacchetta di pianta appena recisa dal suo tronco, ancora gocciolante di umori e scintillante di quelle rugiade bevute nel ceppo, ma non so, non so se il mio destino sarà rifiorire e trapiantarmi come sempre su altre storie e altri incroci e di là di nuovo ripartire e splendere e mischiarmi e intrecciarmi, oppure seccarmi e morire e dio mio finire e non conoscere più quelle riproduzioni e quei riciclaggi di me che mi facevano star bene e dirmi son contento, in fondo basta che abbia qualcuno da amare, basta un territorio di diffusione d’affetto e sarò per sempre salvo.” (1)
In una sola decade, Pier Vittorio Tondelli ha reso testimonianza con i suoi romanzi, i suoi racconti e i suoi articoli, delle varie sfaccettature della società italiana, muovendosi agilmente tra le controculture degli anni Settanta e la cultura di massa disimpegnata degli anni Ottanta. Dalla pubblicazione, a venticinque anni, della raccolta di racconti Altri libertini (1980), a quella de Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta nel 1990, testo frammentario e sperimentale che viene concluso con la pubblicazione postuma de L’abbandono. Racconti degli anni Ottanta, nel 1993, Tondelli sperimenta con stili diversi, rompendo i canoni e giocando tra i confini dei generi letterari, senza però mai perdere il suo tono indistinguibile, la sua autenticità sfacciata, libera e difesa. Se c’è una cosa che fanno invariabilmente i libri di Tondelli, infatti, questa è quella di lasciare addosso una strana voglia di vivere. Può essere che ci si ritrovi in un periodo di clausura, stanchezza, voglia di niente. In certi casi, leggere Tondelli è un po’ come apprestarsi a uno schiaffo in faccia: il tempo che resta è poco, la vita fuori è troppa. Esci, viaggia, guardati intorno, sembra dire. Ama, sii spontanea, intrecciati. È una forza distillata che sprigiona sia dal suo stile che, soprattutto, dai suoi contenuti: l’umanità che popola il mondo tondelliano ha la qualità rara e invidiabile della spontaneità, dell’affetto senza riserve per le persone e per il mondo. A leggere i suoi libri, s’impara di nuovo a voler bene, a volersi bene.
Figlio di padre socialista e madre cattolica, Tondelli nasce a Correggio nel 1950. Cresce in una provincia italiana intrisa di cattolicesimo e borghesia, provincia che abbandona fisicamente quando si trasferisce a Bologna per studiare, ma che resta vividamente presente nel suo panorama letterario, fin negli ultimi scritti. All’università Tondelli inizia a scrivere e a viaggiare, ma soprattutto a osservare. Gira per l’Europa, s’interessa dei più svariati fenomeni culturali, conosce la solitudine. Si muove per il mondo come sospinto da un tarlo metafisico, una metaphysical bug che lo spinge a cercare l’assoluto dell’esistenza. Torna nella città natale solo nel 1991, per appartarsi, quando l’AIDS interrompe il suo percorso personale e letterario, alla giovane età di trentasei anni.
La scrittura di Tondelli prende avvio dai giovani. Al DAMS di Bologna, sul finire degli anni Settanta, lo scrittore è circondato da attivisti politici, creative avanguardiste, ultimi rimasugli dei figli dei fiori. Lui non partecipa mai all’attività politica organizzata, disprezza gli estremismi che hanno divelto una generazione, la foga auto-distruttiva che ha trovato quiete solo nell’eroina. Professa la sue “aspirazioni terzomondiste e comunarde” privatamente, individualmente, senza legarsi ad alcun movimento preciso. Gli piacciono il teatro performativo, le osterie del reggiano, la musica e il cinema d’Oltreoceano. Si guarda intorno, osserva, non perde una parola, una moda, un tic. È a caccia di storie: s’infila in situazioni scomode, pericolose, per il solo gusto d’inseguire un racconto. Riporta tutto fedelmente su carta – un manoscritto confuso e prolisso e ripieno che manda alla Feltrinelli senza troppe aspettative. La casa editrice lo contatta: c’è del potenziale, gli dicono, ma va riscritto, limato. Tondelli impara a scrivere, impara che scrivere vuol dire rompersi le palle a riscrivere, sistemare, spaccarsi la testa su passaggi che non vengono e non vogliono venire. L’ammasso di pagine viene ridotto a sei racconti brevi, è la celebre raccolta Altri libertini, pubblicata nel 1980. Celebre soprattutto perché processata, poco dopo, per “atti d’oscenità” in quanto “opera luridamente blasfema,” trasformando il libro in un caso letterario. L’oscenità presunta si riferisce alla presenza nel testo di bestemmie, droghe e scene di sesso esplicite nonché omosessuali. È l’inizio del mito tondelliano e in qualche senso anche la fine di Pier Vittorio Tondelli: invano si sbraccerà per tutta la sua breve vita nel tentativo di rivendicare autonomia rispetto ai personaggi descritti nei racconti, ma il pubblico italiano continua imperterrito a identificarlo con i libertini del libro. Come fa notare Claudio Piersanti:
“I racconti di Altri libertini avevano […] una forte voce, una grande personalità. Tanto che tutti lo identificarono con i suoi personaggi, e questo equivoco favorì l’incontro con il pubblico. Che era un po’ assetato di linguaggi giovanili: anche Boccalone di Palandri era stato letto allo stesso modo. […]. Ma la cifra di Tondelli non era quella del cantore dei nuovi emarginati (i drogati) ma piuttosto la curiosità. Cosa si dipingeva in giro per il mondo, cosa si fotografava, cosa si suonava, cosa si scriveva… Tutto ciò che gli era contemporaneo lo riguardava.” (2)
Di questi giovani dispersi, scapestrati, innamorati, lui ne ha bisogno. Di questi giovani libertini anarchici e fricchettoni, finocchi puttane e drogati, di questo Lumpenproletariat della provincia reggiana, lo scrittore ne ha un disperato bisogno. Ha un progetto letterario preciso in mente, ed è la letteratura emotiva, scritta con il sound del linguaggio parlato, in forma di racconto. Ha bisogno di ascoltarli, di starci in mezzo, di osservare come vivono e come parlano e in cosa credono. Non perché sia un registratore (parafrasando James Baldwin), ma perché vuole scrivere qualcosa di vivo. È in “Colpo d’oppio” (3) che l’autore spiega al meglio tutto questo, un testo che potremmo definire manifesto del suo esordio narrativo. Nel saggio, Tondelli spiega come a coinvolgerlo, nella scrittura, sia l’interiorità, la struttura emotiva della realtà che si riverbera all’interno come specchio di una transizione sempre in atto. Lui fa letteratura emotiva (of power), che è l’opposto della letteratura edificante (of knowledge). Non vuole istruire nessuno, vuole solo rapire: acchiappare la lettrice dopo due parole e non lasciarla andare fino alla fine del testo. Catturare il sound del linguaggio parlato e seguirne il ritmo, il suono, la cadenza. E la forma letteraria migliore per rispettare i dettami del ritmo è quella del racconto, dice Tondelli: il testo finisce quando deve finire, quando il suono trova la sua conclusione e l’emozione esaurisce naturalmente il suo corso.
“Colpo d’oppio” viene scritto nel 1980, all’inizio della produzione artistica dell’autore. Il suo stile e la sua idea di letteratura poi si evolvono, com’è giusto e naturale che sia. Se il secondo romanzo, Pao Pao, non si discosta troppo dallo stile del primo – anche se lo scenario della caserma militare è lontano dagli scenari provinciali e periferici del primo libro – è con il terzo romanzo, Rimini, che il salto è abbacinante. Rimini non è più una raccolta di racconti o un racconto lungo che è un’unica spatafiata, non parla più il linguaggio sgrammaticato e gergale e ritmico dei primi testi, non inventa nuove regole sintattiche per lasciare ai personaggi il tempo di pensare, di esprimersi, di gridare, di calmarsi, prendere fiato. Rimini è un romanzo nel senso più convenzionale del termine, con una struttura a intreccio, dove diversi personaggi, con le loro particolari e private storie, confluiscono tutti per un’estate sulla riviera romagnola. L’idea di Tondelli con Rimini è, da un lato, rendere la riviera romagnola una sorta di Hollywood italiana, superare lo snobismo intellettuale che la condanna e cercare di indagarne il potenziale culturale. Dall’altro, Tondelli vuole dimostrare al pubblico che è in grado di scrivere romanzi in senso convenzionale. La letteratura scanzonata, spontanea e onesta del primo Tondelli si ritrova infatti solo in alcuni passaggi del libro, dove i personaggi perdono la costrizione della trama articolata in cui sono inseriti e si danno il tempo di sforare i confini. Quasi rammarica vedere come Rimini sembri una sorta di resa dell’autore di fronte alle critiche del pubblico: a chi lo crede solo l’autore giovane, beat e scandaloso, vuole dimostrare che invece è un autore compiuto, in grado di maneggiare stili molto diversi. E ci riesce, ma ad un costo molto alto: sporcando l’immagine sporca che in tanti avevano, e amavano, di lui.
È con un respiro di sollievo che si passa invece a Camere separate, dove Tondelli sembra essersi ritrovato. Non è lo stesso di Altri libertini (e menomale, che non c’è niente di più triste di un autore che non fa altro che ripetere se stesso), ma è lo stesso spirito, la stessa persona, la stessa letteratura. Tra il terzo romanzo e l’ultimo c’è un passaggio lieve, emotivo e importantissimo al tempo stesso: Biglietti agli amici – nato sull’onda dei Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes e dall’incontro con la letteratura di Ingeborg Bachmann. Il testo è una serie di brevi componimenti in prosa sulla vita, l’amore e il dolore. Biglietti agli amici Tondelli decide appositamente di pubblicarlo con una casa editrice piccola, indipendente – la Baskerville di Bologna – a tiratura limitata, perché vuole che sia qualcosa di intimo. Non ha più voglia di sentire cos’ha da dire la gente sulla sua scrittura, sui suoi libri. Sta cercando salvezza, la vuole trovare nella scrittura, e lo vuole fare in silenzio, da solo, per i fatti suoi. Viaggiando, perdendosi, amando sempre. Curandosi. Ha perso il Dio cattolico durante l’adolescenza e ora torna a sentirne il bisogno, una metaphysical bug che gli buca il cervello. Ripiega sul misticismo orientale, seguendo le tracce di due tra i suoi scrittori preferiti, Jack Kerouac e Carlo Coccioli. Il suo è un lavoro di scavo e di ricerca e sembra di sentirlo ancora nel mezzo del turbine mentre scrive Camere separate, un romanzo che è un lungo assolo sulla morte, sull’abbandono, la solitudine, un viaggio temporale e spaziale tra ricordi, sensazioni e frammenti. A tenere insieme il tutto è la voce ferita di Leo, scrittore in lutto d’amore, che cerca di trovare il suo posto in un mondo che non vede di buon occhio la solitudine che si è scelto. Le camere separate del titolo sono l’unica forma che è riuscito a immaginarsi per il compimento dell’amore: vivere in camere separate, metaforicamente e letteralmente, perché “abbiamo bisogno di molto tempo per accettare la brutalità del fatto di non essere più soli.”(4) Camere separate è uno scavo dentro se stessi che rima con la ricerca di un senso, un motivo per continuare a fare ciò che si sta facendo: vivere. Di fronte alla violenza del lutto, della separazione e dell’abbandono, le cose si spogliano di significato e l’abisso dell’insensatezza si apre sotto ai piedi. Un passo falso e si cade dall’altra parte. Cercare l’assoluto, cercare un senso e una ragione, vuol dire fare un passo indietro, sdraiarsi a terra, affacciarsi sull’abisso per guardarlo in faccia, con la certezza, però, che non ci cadremo dentro. Scrivere diviene allora un tentativo di fare i conti con la brutalità dello stare al mondo. Di accettarlo. Di amarlo, persino.
Un weekend postmoderno e L’abbandono fanno in qualche modo da contraltare ai romanzi, alle opere teatrali e ai racconti pubblicati nella decade di attività dello scrittore. “Cronache dagli anni Ottanta,” recita il sottotitolo di questo enorme romanzo sperimentale. Sono articoli, saggi, reportage, racconti, interviste, estratti di diario. Sono frammenti, è la contemplazione della “realtà, o lo stato presente di questo sogno.”(5) È qui che si condensa l’essenza stessa dell’osservatore, del viaggiatore, dello scrittore. Un decennio sviscerato nelle sue manifestazioni artistiche, letterarie, popolari, musicali, nelle sue vetrine, città, tecnologie, nei suoi ricordi, nei personaggi che lo attraversano. E c’è soprattutto quel suo sguardo, sì curioso, ma anche innamorato: è difficile trovare qualcuno che parli con lo stesso affetto di fenomeni culturali così distanti, pescando il meglio e il peggio, scivolando in malinconie nostalgiche o ironizzando, scherzando, prendendo in giro il mondo in cui vive e se stesso, che malgrado tutto continua a crederci, e a viverci.
Quattro romanzi, dunque, con registri, stili e generi diversi. Una raccolta sperimentale di osservazioni su un intero decennio. Opere teatrali, racconti, saggi. E un’infinità di articoli, reportage, frammenti in prosa. Eppure, nonostante il corpus tondelliano sia tanto vasto e poliedrico, il pubblico italiano – così come la critica – non riesce a staccarsi dall’idea di Tondelli come autore giovane, scapestrato, maledetto. Non importa quanto si sia sbracciato in seguito per rivendicare il suo statuto di osservatore, di scrittore, quanto si sia dannato per la solitudine che ne consegue: per gli italiani sembra destinato a restare sempre il venticinquenne alto, timido e occhialuto che è stato processato per oscenità con la sua prima, scandalosa raccolta di racconti.
È interessante notare come Tondelli non sia stato mal interpretato solo in Italia, ma anche all’estero, seppur in maniere molto diverse. Come ha fatto notare Olga Campofreda in occasione del lancio del suo libro Dalla generazione all’individuo (6) all’Istituto Italiano di Cultura di Londra, Tondelli è stato intrappolato nei suoi primi libri in Italia, negli ultimi all’estero. Nel mondo in lingua inglese, per esempio, l’unico libro a essere stato tradotto di Tondelli è Camere separate, e la lettura che ne è stata fatta è quella di un testo di letteratura omosessuale. Lo stesso discorso vale per il mondo in lingua tedesca, nonostante siano stati tradotti tutti i suoi quattro romanzi. Christoph Klimke, il traduttore tedesco dei primi due, mi spiega infatti in una mail che Tondelli in Germania è stato pressoché dimenticato, e che gli unici che lo ricordano sono quelli che appartengono alla ristretta nicchia degli appassionati di letteratura omosessuale.
Quello che viene fatto a livello di critica con Tondelli ricorda in parte quel “turismo dell’abietto” da cui ci aveva messo in guardia Francine Masiello in un saggio omonimo del 2006 (7). Nel saggio, la studiosa statunitense ragiona sulla tendenza dei critici letterari a lei contemporanei a muoversi quasi esclusivamente in direzione della novità, cercando di soddisfare una sorta di perverso “gusto per l’esotico” attraverso la ricerca e lo studio di soggetti periferici, marginali, freak. L’unico soggetto interessante per la critica letteraria, dice Masiello, parrebbe essere quello che incorpora una rottura rispetto alla norma. Eppure, nella sua ricerca ossessiva, la critica finisce per oggettivare i soggetti insurrezionali, sottomettendo la loro esistenza a un ideale estetico e strumentalizzando le loro azioni affinché si convertano in istanze politiche aliene dalla loro origine. Il risultato è una sorta di erotizzazione dei margini, dove il corpo del subalterno diviene un feticcio e la sua esistenza viene spolpata in nome di una sete di esotismo. A fronte di queste riflessioni, Masiello si chiede se “non sarà questo tipo di critica che ci riporta, proprio come il neoliberalismo, a una passione per lo spettacolo senza la riflessione, a una brama per la struttura del racconto a scapito del contenuto?” (8)
C’è qualcosa di tremendamente attuale nel saggio di Masiello, e anche qualcosa di tremendamente appropriato quando si prende in esame l’opera – e il successo – di Tondelli. In un’epoca in cui il “marginale” è divenuto protagonista dei discorsi – perdendo di fatto il suo statuto di “marginale” e prestandosi anzi alle stesse logiche di mercato a cui si prestava, prima di lui, il “normale” – è scontato che Tondelli sia tornato di moda. I suoi personaggi giovani, queer, tossici, ribelli, libertini, innamorati, poveri, persi e perversi si stagliano benissimo nel panorama attuale, e la sua opera, letta in maniera prevenuta, si presta magistralmente a tutta una serie di bandiere politiche con cui ci fa comodo, ci da gusto quasi (e qui il rimando all’erotizzazione dei margini), considerarla. Ma in tutto ciò si cela qualcosa di profondamente ingiusto, poiché così non facciamo che un feticcio di Tondelli, un megafono per i nostri gusti e interessi, perdendo di vista ciò che ha scritto, il contenuto di ciò che ci ha lasciato, l’evoluzione che la sua opera ha attraversato.
Olga Campofreda ha fatto un lavoro encomiabile nel tentare di liberare Tondelli dai barattoli – italiani e stranieri – in cui è stato incastrato. Nel saggio sopracitato, la studiosa prende in esame l’intero corpus dell’opera tondelliana, considerando anche due opere teatrali inedite che risalgono a prima di Altri libertini, per osservare come ci sia un’evoluzione intrinseca al suo lavoro, evoluzione che viene dimenticata o volutamente ignorata da chi pretende di considerarlo meramente quale autore beat o autore queer. La scrittura emotiva dei primi testi si trasforma difatti nello stile quieto, meditativo e minimale degli ultimi. L’evoluzione dell’autore è costante, e si riflette sul piano personale così come su quello stilistico: è necessario occuparsene, se si vuole considerare seriamente, sinceramente, il suo lascito culturale. Piuttosto, dice Campofreda, se c’è un fil rouge da rintracciare nell’opera tondelliana, questo è quello dell’autenticità. Che si tratti di giovani outsider o di osservazioni giornalistiche sulla società contemporanea, la ricerca e lo sguardo di Tondelli si dirigono sempre verso ciò che esiste di autentico nelle persone e nel mondo. Se la gioventù è protagonista assoluta della sua opera, ciò avviene perché essa rappresenta una rottura rispetto al mondo borghese, codificato e oppresso degli adulti. Tondelli rompe diverse norme, non solo identitarie ma anche letterarie, sperimentando coi canoni. Combatte contro una letteratura massificata, uno stile massificato. Parla della vita di tutti i giorni, perché e lì che si trova l’autenticità. Nell’individuare la gioventù e l’autenticità quali elementi fondanti dell’opera tondelliana, Campofreda ha cercato di trovare un posto per l’autore che lo liberasse sia dalla sua generazione, che dalla lettura queer che troppo spesso si riduce alla mera omosessualità e non, com’era invece ben più importante per Tondelli, alla rottura dei codici. Nelle parole di una protagonista di uno dei racconti di Altri libertini:
“abbiamo pagato troppo caro il prezzo per la ricerca di una nostra autenticità, che tutto quanto abbiamo fatto era giusto e lecito e sacrosanto perché lo si è voluto e questo basta a giustificare ogni azione, ma i tempi son duri e la realtà del quotidiano anche e ci si ritrova sempre a far i conti con qualche superego malamente digerito; che è stata tutta un’illusione, che non siamo mai state tanto libere come ora che conosciamo il peso effettivo dei condizionamenti.” (9)
La ricerca dell’autenticità ha un prezzo, e questo si è tradotto nel caso di Tondelli in solitudine durante la vita e mal interpretazione postuma. Il dolore, o senso d’isolamento, connaturato allo stato di perenne osservatore ha però il suo rovescio, rovescio che si palesa nella curiosità insaziabile dell’autore, nel suo sguardo aperto, sagace e onesto, in grado di trovare materiale fertile anche laddove non ci si aspetterebbe che uno scrittore, un intellettuale, andasse a cercare. Il risultato è un’opera senza precedenti, né eguali: è una voce singolare che, per qualche strana ragione, continua a risuonarci dentro.
Su Tondelli si è detto e si è scritto di tutto. Ha fatto scandalo con il suo esordio letterario, ha teorizzato una letteratura emotiva, si è mosso come sospinto da un tarlo metafisico per il quale non ha mai smesso di cercare l’assoluto nel mondo. Ha cantato gli anni Ottanta, la riviera romagnola, una gioventù raminga e innamorata e selvaggia. Sperava di trovare salvezza nella letteratura. È un Tondelli devastato dall’AIDS, dalla paura della morte, isolato dagli amici e i compagni d’un tempo, quello che scrive dal suo letto d’ospedale:
“È vero. Io ho sempre pensato che la scrittura avrebbe potuto, magari in anni e col lavoro, “salvare” la storia miserrima […] (la mia) in un canto epico [l’espressione «canto epico» è sottolineata]…(un epos). E forse ci sarei riuscito […]. Ma non sarà così. La letteratura non salva, mai.” (10)
Poco dopo, il 16 dicembre del 1991, Pier Vittorio Tondelli muore. Sono passati quasi trent’anni dalla sua scomparsa, quasi quaranta da Altri libertini, e in questo tempo le teorie e le congetture sulla sua opera sono impazzate: è l’autore queer, l’autore maledetto, l’autore giovane dei giovani, l’autore beat, postmoderno, postpostmoderno, tossico, spericolato, è la voce di una generazione. Tanti bei barattoli allineati dove abbiamo tentato di infilare trentasei anni di vita, quattro romanzi, qualche opera teatrale, un’abbondanza di racconti, saggi, articoli e lettere. In mezzo a tutte queste etichette e cappellini e gridi di battaglia, c’è forse una sola cosa che ci resta da fare: tornare ai suoi testi, uccidere l’autore, tirarlo giù dal piedistallo. Leggere ciò che ha scritto da vicino, con foga filologica, cercando le tracce, i fili di un’opera che in poco più che dieci anni di lasso temporale ha influenzato un’enormità di scrittrici, artisti e lettori, lasciando un’impronta indelebile sul panorama letterario contemporaneo. Ma, soprattutto, ricercando quella qualità rara e unica delle sue parole, quella materia appiccicosa per cui non si riesce a leggerle senza aver voglia di vivere di più, meglio di così, con più affetto e più foga.
Giulia Dasiari è un’illustratrice e graphic designer milanese. Laureata in Architettura ha poi approfondito la sua formazione con il Mimaster di illustrazione.
Il suo linguaggio, fatto di linee colori e texture, è deciso e vibrante.
Quando non progetta le piace leggere fumetti al parco, sulla sua amaca, e girovagare per Milano, alla ricerca di scorci nuovi e inaspettati.
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Note
1 -Pier Vittorio Tondelli, Pao Pao, Feltrinelli 1982, pp. 95-96
2 – “Leggere Tondelli, oggi”, articolo di Claudio Piersanti, pubblicato su Doppiozero, 13/12/18
3 – Pier Vittorio Tondelli, L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, Bompiani 2016
4 – Pier Vittorio Tondelli, Camere separate, Bompiani 1989, p. 63
5 – Pier Vittorio Tondelli, Camere separate, p. 14
6 – Olga Campofreda, Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli, Mimesis 2020
7 – Francine Masiello, “Turistas de lo abyecto”, en Ignacio Sánchez Prado, América Latina: giro óptico, Editorial Universidad de las Américas, Puebla 2006
8 – Francine Masiello, “Turistas de lo abyecto”, p. 236
9 – Pier Vittorio Tondelli, Altri libertini, Feltrinelli 2013, p. 65
10 – Antonio Spadaro, Lontano dentro se stessi. L’attesa di salvezza in Pier Vittorio Tondelli, Jaca Book, Milano 2002, p. 246.
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