illustrazioni di Giulia Dasiari
In questa storia ci sono tanti volti e tanti nomi. Tante vittime e pochi colpevoli. E i colpevoli hanno più nomi che volti. Ci sono due uomini, che il 15 giugno del 2005 si spostano in bicicletta per la città di Monaco di Baviera. E una donna, che alle 15:22 di quello stesso giorno si trova a Zwickau, in Sassonia. Sta chiamando il numero 0162/4639557. Il cellulare squilla. Uno dei due risponde. Poche ore dopo, gli uomini entrano nel negozio di Theodoros Boulgarides, immigrato di origine greca, che di mestiere duplica chiavi. Puntano le pistole e sparano diversi colpi al suo viso, col silenziatore. Poi, montano sulle bici e scappano.
Nel frattempo, nel quartiere Marienthal di Zwickau, la donna è a casa, al civico 2 di Polenzstraße e chiacchiera con le vicine, madri single che vivono grazie all’assistenza dello Stato tedesco. La chiamano Liese, come si è presentata quando si è trasferita nell’appartamento con Gerri e Max, nel 2001. Ma nessuno di loro si chiama davvero così. I loro veri nomi sono Beate Zschäpe, Uwe Böhnhardt e Uwe Mundlos e sono nomi sepolti sotto molte altre identità dal 1998, quando inizia la loro latitanza e la storia della cellula neonazista NSU (Nationalsozialistischer Untergrund).
I tre si conoscono nei primi anni ’90 a Jena, in Turingia, un Land che prima della caduta del Muro di Berlino faceva parte della DDR. Beate, classe 1975, ha un’infanzia difficile alle spalle: cresciuta dalla nonna, non ha mai incontrato il padre e ha un rapporto complicato con la madre. Ma in quegli anni è una ragazza sicura di sé, strafottente, dai modi rozzi. Partecipa ad alcuni pestaggi, anche a spese di gruppi fascisti, prima di passare dall’altra parte e unirsi al gruppo Thuringer Heimatschutz (Sicurezza interna della Turingia), di cui fanno parte anche i suoi futuri complici. Una sera, in un club, incontra Mundlos, che ha due anni più di lei, e se ne innamora. Uwe aveva fatto parte della Libera Gioventù Tedesca (Freie Deutsche Jugend), l’organizzazione giovanile socialista della Repubblica Democratica, ma in seguito all’unificazione della Germania si era avvicinato ai gruppi di estrema destra. Durante la leva obbligatoria, a causa delle sue simpatie naziste, finisce più volte in punizione e perfino interrogato dal MAD (Militärischer Abschimdienst), il servizio di controspionaggio militare. Il suo interrogatorio verrà distrutto 15 anni dopo, per motivi burocratici. Intanto, la storia d’amore con Zschäpe è finita, ma hanno ancora un legame molto forte. E quando lui termina il periodo in caserma, nel 1995, la ventenne ha una relazione con Uwe Böhnhardt, amico dello stesso Mundlos. Partecipano a eventi e concerti di estrema destra e indossano in segreto uniformi uguali a quelle che le SS sfoggiavano a Buchenwald. Ma sono anche militanti: fondano, insieme ad altri neonazisti, il gruppo Kameradschaft Jena. Quando passano dall’ideologia all’azione, danno il via a una serie di attentati dinamitardi che rappresentano il primo atto del loro sogno eversivo. Se ne vanno in giro per la Turingia a lasciare valigie piene di espolosivo. All’esterno, quelle valigie hanno il simbolo della svastica e le impronte lasciate dalle dita di Böhnhardt. Così, la polizia di Jena inizia a sorvegliarli e, nel ´98, avvisata dal Servizio Federale d’Informazioni (Bundesnachrichtendienst – BND), perquisisce un garage che la cellula ha affittato. Vi trovano tritolo e diversi tipi di esplosivo, oltre a materiale destinato alla propaganda antisemita. Nel frattempo, viene spiccato un mandato di cattura per Böhnhardt.
I fuggitivi si nascondono in Sassonia grazie all’aiuto di organizzazioni e amici neonazisti che procurano per loro false identità, rifugi e soprattutto armi. Ma hanno anche bisogno di molti soldi, per finanziare i loro progetti terroristici. Compiono la prima rapina a Chemnitz, in un supermercato della catena Edeka, che frutta 30 mila marchi tedeschi. Il gruppo si sposta di città in città in camper, sul quale vengono caricate le bici con le quali ci si può muovere indisturbati prima e dopo gli attentati. Il primo, da quando il gruppo è diventato untergrund (clandestino), è a Norimberga, nel 1999: nel bar di un immigrato turco viene lasciata una bomba a tubo, camuffata da torcia elettrica. C’è solo un ferito, un ragazzo di 18 anni. Nella stessa città, un anno dopo, la NSU comincia ad ammazzare.
Enver Şimşek arriva in Germania dalla Turchia con la moglie e i due figli nel 1985. Dopo il primo lavoro in fabbrica, decide di mettersi in proprio e avvia la sua impresa a Schlüchtern, in Assia. Apre un negozio di fiori, che diventa la base per la distribuzione ad altri negozi e bancarelle. Il 9 settembre del 2000 si trova a Norimberga, a cira 200 chilometri da casa, per la fornitura a uno stand nel quartiere Langwasser. Ma quel giorno, invece di lasciare i fiori e andare via come al solito, Enver lavora al posto del commesso, che è in ferie.
Nel pomeriggio, alcuni passanti avvisano la polizia che c’è un chiosco abbandonato. Il tavolo pieghevole è aperto, i mazzi di fiori sono disposti sotto un ombrello e c’è un furgone Mercedes Sprinter bianco che sul lato ha dipinte le parole “Simsek Flowers”. Ma il venditore non c’è.
Il suo corpo inerme, ma ancora attaccato in modo flebile alla vita, viene trovato nel retro del furgone delle consegne. Böhnhardt e Mundlos gli hanno fatto visita tra le 12:45 e le 14:15 e hanno premuto il grilletto otto volte, a distanza ravvicinata, guardandolo in faccia. Hanno usato una Česká, la CZ 83, calibro 7,65 millimetri e un’altra arma calibro 6,35 millimetri. Poi, sono scappati in bici. Enver muore due giorni dopo, a 38 anni.
Il coinvolgimento della NSU viene alla luce solo nel 2011. Come l’esistenza stessa della cellula. La pista inizialmente seguita dagli inquirenti è quella dei presunti rapporti della vittima con la mafia turca e con i traffici di droga. E, come da manuale, i primi sospetti sono i familiari e gli amici. “Sono venuti da mia madre, che aveva appena perso il marito – racconta la figlia Semiya – e si sono rivolti a lei come se fosse una dei sospettati”. Con l’intento di estorcere una confessione o almeno di ottenere qualche indizio, i poliziotti inventano di sana pianta la storia di una doppia vita che la vittima conduceva con un’altra donna. “Le hanno mostrato la foto di una signora bionda e le hanno chiesto se la conosceva. Lei ha risposto di no. Allora, le hanno detto che mio padre aveva altri due figli con quella persona”. Gli inquirenti sono così convinti che l’indagine porti in Turchia, che per incastrare la mafia allestiscono un finto chiosco a Norimberga, in attesa che qualcuno passi a chiedere il pizzo. Non porterà ad alcun risultato, ma questo non basta per prendere in considerazione altri percorsi. Come non bastano le testimonianze dei passanti che hanno notato due uomini coi capelli rasati scappare via in bici, proprio su quella strada, proprio subito dopo la fascia oraria a cui si fa risalire il delitto. Ma il nazismo in Germania è ancora un tabù e il movente razzista non è contemplato. L’allora ispettore capo della sezione omicidi Josef Wilfling, a chi gli chiede cosa ne pensa di un coinvolgimento degli estremisti di destra, risponde: “Ha mai visto un nazista in bicicletta?”.
Il 13 giugno dell’anno successivo, muore un altro uomo. Di nuovo un immigrato turco, di nuovo a Norimberga e, di nuovo, sparato in faccia in pieno giorno. Con le stesse armi. Abdurrahim Özüdoğru, macchinista, si trova nel negozio di un sarto, a cui dava una mano saltuariamente, quando viene ucciso con due proiettili alla testa. Dalla strada, attraverso la vetrina, un passante vede il corpo insanguinato seduto nel retro del negozio e dà l’allarme. Inizia un’escalation di violenza.
Solo due settimane dopo, il 27 giugno, Mundlos e Böhnhardt sono ad Amburgo, a 500 chilometri di distanza. Un altro immigrato turco muore al loro passaggio. È Süleyman Taşköprü, 31 anni, ucciso con tre colpi nel suo negozio di frutta e verdura. Il 29 agosto tocca a Habil Kılıç, 38 anni, anche lui turco, sparato in faccia nel suo negozio ortofrutticolo, in pieno giorno. Questa volta, la scena del crimine è a Monaco. Nonostante i delitti avvengano in diverse giurisdizioni, spesso molto lontane tra loro, è evidente che il modus operandi sia identico e anche le vittime, che risulteranno scelte casualmente, hanno un background di riferimento. Ma per gli inquirenti questi indizi portano ancora alla mafia turca, tanto da dare all’indagine il nome di “Omicidi del Bosforo”. Il nome verrà cambiato successivamente dalla stampa e i crimini rimarranno impressi nell’immaginario e nella memoria collettiva come i “Delitti del Kebab” (Dönermorde).
Beate Zschäpe, nel frattempo, non sta con le mani in mano. Mentre i suoi uomini, la “sua famiglia” come dirà lei stessa, disegnano una lunga scia di sangue che si sposta in roulotte per il territorio tedesco, lei si occupa delle finanze e del sostentamento del gruppo, mantiene i contatti con la rete che permette al loro progetto di sopravvivere, gestisce le spese e rende credibile la loro vita di facciata. Ma qual è il progetto? E quanto è estesa la rete? La NSU ha un’anima eversiva, nel senso spiegato bene dal giornalista Lorenzo Monfregola su Il tascabile: “Il terrorismo di estrema destra, infatti, dimostra da sempre quale sia la differenza tra azione sovversiva e azione eversiva. La prima giunge esternamente alle istituzioni e vuole essere costituente di qualcosa di completamente altro, la seconda punta invece a far saltare gli equilibri istituzionali coinvolgendo anche posizioni interne allo Stato stesso”. Questo è il sogno della NSU, il cui motore è un background di odio e xenofobia che l’unità nazionale e le macerie del Muro hanno contribuito ad alimentare, senza che le istituzioni ci dessero troppo peso. La vergogna e le distanze prese da Hitler sono state così perentorie da renderlo per molti anni un argomento off limits, di cui si è parlato il meno possibile e di cui sono state sottovalutate le piccole, nuove scintille. Che sono così riuscite a divampare. Difatti, durante il processo alla NSU si è affacciato alla superficie un network che avvolge tutto il Paese e che riesce a operare anche grazie alla facilità con cui i neonazisti sono spesso bollati come lupi solitari e i loro crimini come casi isolati. Secondo la Amedeu Antonio Stiftung, stiamo invece parlando di un sistema che conta circa 22.300 persone, di cui almeno 5.800 attivi e 12.000 inclini alla violenza.
Nel 2001, Mundlos, Böhnhardt e Zschäpe si trasferiscono nella casa di Polenzstraße e possono contare su diverse identità, tramite cui affittano appartamenti e veicoli e che vengono usate anche per finti contratti di lavoro. Diverse identità procurate in primis da André Eminger, che vive con la moglie Susann a tre chilometri dal nuovo appartamento e che ha fondato insieme al suo gemello, Maik, alcuni movimenti estremisti. Un uomo che, con aghi e inchiostro, si è fatto imprimere sulla pancia la scritta “Die, Jew, Die” (“Muori, Ebreo, Muori”) e sul petto il volto di Horst Wessel, sottotenente delle SA.
Tra il 2001 e il 2004, la NSU prende una pausa dagli omicidi e si dedica alle rapine in banca, prediligendo le filiali della Sparkasse tra Chemnitz e Zwickau. Ma il 25 febbraio del 2004, mercoledì delle ceneri, torna a uccidere. La quinta vittima è Mehmet Turgut, che ha 27 anni e vive ad Amburgo, ma quel giorno è a Rostock, città che sorge sull’estuario del fiume Warnow, nel luogo in cui la sua acqua dolce si mescola a quella salata del Mar Baltico. Turgut ci è andato in vacanza, ma la mattina del 25 sta lavorando da “Mr. Kebap”, nel quartiere di Toitenwinckel, per sostituire temporaneamente il proprietario, suo conoscente. È nel chiosco, da solo, quando vede arrivare i due terroristi. Lo freddano con due proiettili alla testa e uno al collo, schizzati fuori dalla canna della solita semiautomatica, la CZ 83, tra le 10:10 e le 10:20 del mattino. Quando il proprietario del negozio torna, poco dopo, lo trova in una pozza di sangue.
La cellula, nel frattempo, sta lavorando anche a un obiettivo più ambizioso, che potrebbe provocare una strage di immigrati. Dopo qualche mese, i killer sono a Colonia. a Mülheim, il quartiere turco. Due telecamere di sorveglianza fuori dalla stazione televisiva Viva li riprendono per cinque volte. Alle 14:18, Böhnhardt cammina portando a mano due biciclette, che serviranno per la fuga. Alle 15:10, l’altro Uwe passa davanti alle stesse telecamere, a piedi, trasportando un’altra bici, provvista di bauletto posteriore rigido. Poi, la lascia in Keupstraße, davanti al negozio di parrucchiere Kuaför Özcan. Alle 15:57, Mundlos è ripreso di nuovo dalle telecamere. Sta pedalando a tutta velocità. E un minuto dopo, la bomba artigianale nascosta nel bauletto della bici parcheggiata esplode insieme agli 800 chiodi da dieci centimetri e i 5 chili e mezzo di polvere da sparo con cui è stata prodotta. L’innesco avviene a distanza, non troppa distanza, tramite il radiocomando di un modello di aeroplano. I feriti sono 22, di cui 4 gravi e non c’è nessun morto. Non è il risultato previsto. Allora, si gioca di nuovo sul velluto e si riprende in mano la Česká.
Per la terza volta, la scena del crimine è a Norimberga. Il 9 giugno del 2005 İsmail Yaşar muore nel suo negozio di kebab in Scharrerstraße, ucciso da cinque colpi di pistola tra le 09:50 e le 10:05. Il 15 dello stesso mese, c’è l’omicidio Boulgarides, che non è turco, ma greco. Eppure, le indagini non cambiano rotta. Si interrogano i familiari e si investiga sui contatti dei bersagli con il mondo della criminalità organizzata e della microcriminalità.
I parenti delle vittime sono guardati con sospetto anche dai loro amici più stretti. “Entravo nei bar o nelle taverne dove di solito ero di casa, dove conoscevo tutti – racconta il fratello di Boulgarides, Gavriil – e la gente si allontanava o addirittura usciva, appena mi vedeva avvicinare”.
La stessa pressione messa in scena sul set del film Oltre la notte del regista tedesco Fatih Akın, liberamente ispirato all’attentato di Colonia. A differenza di ciò che è accaduto nella realtà, nel film muoiono un uomo, immigrato, e suo figlio. La protagonista è la moglie (interpretata da Diane Kruger), la vittima morale dell’attentato, che ha perso la famiglia e cerca giustizia nella Legge. Ma trova solo domande, insinuazioni e indagini superficiali, mosse dal pregiudizio.
Dal giugno 2005, la NSU si ritira per un altro anno dalla scena. Il trio continua a vivere la sua doppia vita, fiducioso in un futuro illuminato da una ormai solida sicurezza: l’impunità. Nessuno ancora ha giudicato plausibile il movente razzista. E Liese passa le sue giornate con le vicine e altri amici, organizzano feste nel cortile, durante le quali si beve, si ride e si parla male degli immigrati. Come ogni persona comune potrebbe fare, con le solite frasi: “Ci tolgono il lavoro”, “sono venuti qui e hanno trovato tutto pronto, su un vassoio d’argento”, “sono ignoranti e scansafatiche”. Eppure, le famiglie degli immigrati uccisi hanno avuto bisogno dello Stato tedesco solo una volta che i loro padri e mariti sono morti. La compagnia di Liese, invece, è composta per lo più da tedeschi con simpatie di estrema destra, che vivono grazie ai sussidi statali. Gerri e Max, nel frattempo, se ne stanno per fatti loro. “Non li vedevamo quasi mai – ricorda Heike, una delle vicine – sembrava giocassero sempre al computer, ma Liese ci aveva spiegato che in realtà li riparavano per lavoro. Salutavano quando li incontravi, sembravano persone normali, ma parlavano molto poco. Liese non era così, quando entrava in una stanza ti faceva dimenticare dei tuoi problemi. Ma anche lei parlava poco di sé. Quando le facevamo una domanda personale non rispondeva, faceva finta di niente e rivolgeva la parola a uno dei bambini. Quindi non chiedevamo più. Non importava”.
Gli omicidi riprendono l’anno dopo. Il 4 aprile 2006, a Dortmund, muore nel suo chiosco l’immigrato Mehmet Kubaşık. Uno sparo in testa. Dopo due giorni, tocca a Halit Yozgat, 21 anni. Mundlos e Böhnahrdt entrano nel suo Internet café poco oltre le 17 e lì lo lasciano senza vita. È tutto come da copione, una storia sentita altre otto volte. Ma questa volta c’è un dettaglio. C’è qualcuno. Un uomo che si trova nell’internet café, nella stanza adiacente al banco dietro cui giace il corpo di Yozgat. L’uomo, interrogato dagli inquirenti, nega di essere un testimone, ma l’orario di navigazione del dispositivo che ha usato lo inchioda lì, proprio nei minuti in cui è stato commesso l’omicidio. Dice di non aver sentito lo sparo, di non essersi accorto dell’odore, di non aver visto il corpo. Ma non è importante tanto per quello che dice e non dice, quanto per la sua identità. Quell’uomo è Andreas Temme ed è un infiltrato dell’Ufficio per la protezione della Costituzione (Bundesamt für Verfassungsschutz, BfV, uno dei servizi di intelligence tedeschi). Da ragazzo, il suo soprannome era “Piccolo Adolf”.
Quello di Yozgat è l’ultimo omicidio di matrice xenofoba compiuto dalla NSU. La ricompensa per informazioni sui killer, intanto, è arrivata a 300 mila Euro. Tuttavia, non vengono tenuti in conto gli avvistamenti di uomini rasati, che sembrano “tossici o nazisti”, in bici vicino ai luoghi dei delitti.
L’ultima vittima, la poliziotta Michèle Kiesewetter, è tedesca. Per l’esattezza, è di Oberweißbach, Turingia. Il 25 aprile del 2007, a Heilbronn, le sparano durante una pausa dal servizio. Con lei c’è un collega, che riporta una grave ferita alla testa e sopravviverà, ma non ricorderà nulla. Michèle non ce la fa. Si ipotizzerà un movente passionale, per una presunta relazione nel suo passato con Uwe Böhnhardt, ma senza prove.
Nel 2008, Zschäpe, Böhnahrdt e Mundlos cambiano appartamento, ma restano a Zwickau. Si trasferiscono in Frühlingstraße 26, nel quartiere di Weißenbarn. Beate torna a trovare le sue ex vicine almeno una volta a settimana, senza avvisare. E loro non hanno il suo numero di telefono. La copertura nella città della Sassonia resta solida.
Ogni estate, la cellula terroristica parte alla volta dell’isola Fehmarn, nel mar Baltico. Prenota il campeggio in un villaggio da 800 Euro a settimana e vi rimane per un mese circa. Anche in vacanza, Zschäpe amministra le finanze. I tre pagano solo cash. Con i soldi rubati, nel 2011, affittano anche un jet privato per ammirare l’isola dall’alto. Mundlos ama fare windsurf, mentre Böhnhardt organizza gite in barca per bambini. Beate partecipa spesso alle lezioni di aerobica e zumba organizzate dal villaggio. E quando le chiedono il permesso di filmarla per un video promozionale durante un allenamento, lei, fuggitiva da tredici anni, accetta di buon grado.
La certezza dell’impunità, dicevamo. Ma come è stato possibile?
Alcuni agenti del Landesämter für Verfassungsschutz (Lfv) della Turingia, l’ufficio statale per la difesa della Costituzione, il 6 maggio del 2000 avvistano un uomo che somiglia a Böhnhardt nei pressi di un’abitazione che stanno sorvegliando a Chemnitz. Prima del primo attentato, prima del primo delitto. Ma ha i capelli più lunghi di qualche centimetro e gli agenti non sono sicuri che sia lui. Allora, inviano una foto al Bfv. La conferma arriva con un inspiegabile ritardo. Il latitante è di nuovo introvabile.
Il 04 novembre del 2011 è il giorno della verità. Mundlos e Böhnhardt rapinano una banca a Eisenach e filano via sulle loro bici, fino alla roulotte. Questa volta, la polizia li segue. Ormai braccati, vedono una sola via d’uscita. Le fiamme divampano all’interno del veicolo. Poi, si sentono due spari. Mundlos fredda Böhnhardt e si uccide. Questa è la versione ufficiale, confermata anche dal Bundeskriminalamt (BKA), la polizia federale. Poco dopo, Zschäpe incendia il loro covo, con l’intento di far sparire le prove. Non ci riesce, non del tutto almeno. La polizia trova nell’appartamento diverse armi, tra cui la CZ 83 con silenziatore usata per gli omicidi. La pistola di ordinanza di Michèle Kiesewetter, invece, era nel camper insieme ai corpi dei suoi assassini. Prima di scappare ancora grazie a Eminger, Beate riesce a inviare ad alcune testate giornalistiche e a un centro di cultura islamica un DVD, di cui vengono ritrovate altre copie in Frühlingstraße. Si tratta di una rivendicazione in formato video di tutti gli omicidi e gli attentati commessi dalla NSU. Il video è montato all’interno di una sequenza di immagini originali tratte dalla “Pantera rosa”. L’audio non viene modificato: musica e parole sono quelle del cartone animato degli anni ´60 amato da Mundlos. Ma le immagini sono filmati e foto rubate sulle scene del crimine dagli stessi killer o estrapolate da servizi televisivi. Ci sono le foto delle vittime turche, derise per la loro provenienza (i nove file delle immagini sono denominati “Ali” e numerati), e quella di Kiesewetter, che da questo momento viene collegata agli altri delitti. Si prendono in giro anche le forze dell’ordine, incapaci di risalire ai colpevoli. Quattro giorni dopo aver dato fuoco alla casa, Beate si costituisce.
Il processo ha inizio il 6 maggio del 2013. Il giorno dopo, il quotidiano Bild esce con una foto di Zschäpe in apertura e il titolo: “Der Teufel hat sich schick gemacht” (“Il diavolo si è vestito bene”). In giacca blu e foulard al collo, Beate appare tranquilla e sorridente a fianco degli avvocati dai cognomi simbolici: Herr (“Armata”), Steel (“Acciaio”) e Sturm (“Tempesta”). Non parlerà fino al 27 giugno del 2018, quando si dirà plagiata dagli uomini della sua vita. D’altronde, non ha mai messo piede su nessuna scena del crimine ed è stata la gioviale Liese per la maggior parte del tempo. Ma, in entrambe le sue vite parallele, Beate Zschäpe è colpevole. E l’11 luglio dello stesso anno viene condannata all’ergastolo. Insieme a lei, sono imputate altre quattro persone: Carsten Schultze, Ralph Wohlleben, André Eminger e Holger Gerlach. Il primo, ai tempi minorenne, è accusato di aver comprato la pistola usata nei delitti. Collabora, ma afferma di non aver mai saputo a cosa servisse l’arma. La corte presieduta dal giudice Manfred Götzl lo condanna a 3 anni di carcere. Poi c’è Ralf Wohlleben, una specie di rockstar nell’ambiente di estrema destra in Germania. Accusato di aver procurato le armi alla cellula e di aver organizzato raduni e concerti neonazisti in Turingia, viene condannato a 10 anni di detenzione. Durante il processo, in cui viene difeso dall’avvocata nostalgica di Hitler Nicole Schäfer, i suoi sostenitori ne chiedono la liberazione indossando magliette con il logo di una pecora e la scritta “Freiheit für Wolle”. E se Gerlach confessa di aver supportato la NSU procurando documenti falsi e armi e viene condannato a 3 anni, Eminger sta zitto. È l’unico imputato a restare in silenzio per tutta la durata dei dibattimenti, fino alla sentenza. Il giorno in cui è prevista la sua testimonianza, André indossa una t-shirt con la frase: “Brüder schweigen – bis in den Tod”. I fratelli tacciono fino alla morte. E il suo silenzio, in questo caso, paga. La condanna è di 2 anni e 6 mesi, con rilascio immediato: i giudici accettano la versione della difesa, secondo cui André è un amico della NSU, ma non un complice. Li ha aiutati, ma senza conoscerne i fini. Anche Wohlleben viene liberato, dopo una settimana, per aver già scontato 6 anni e mezzo di detenzione preventiva.
Quello che emerge durante il processo è che l’estremismo di destra in Germania è ben organizzato e collegato. Ma anche che i servizi segreti si servono di un elevato numero di informatori (V-mann) e infiltrati per conoscerlo e prevederne le mosse. Oltre a Temme, altri hanno testimoniato di aver utilizzato la paga ricevuta dallo Stato per aiutare la NSU e altri gruppi della stessa galassia. Uno di loro è Carsten Szczepanski alias “Piatto”, che ha militato nell’NPD (Nationaldemokratische Partei Deutschlands) e che ha tentato di fondare una sezione tedesca del KuKluxKlan. Prima arrestato per tentato omicidio e poi pagato dei servizi segreti. Secondo il quotidiano Die Zeit, almeno 25 informatori ruotavano intorno alla NSU. Ma allora, come è stato possibile non sapere prima dell’esistenza della cellula e dei suoi piani?
Nel 2012 Angela Merkel ha chiesto ufficialmente scusa ai familiari delle vittime, per come la polizia li ha trattati durnate le indagini. Come sospetti, come se davvero potessero essere responsabili dei delitti, mentre i veri colpevoli si nascondevano altrove, in un mondo diametralmente opposto. Dove, forse, si nascondono ancora.
Giulia Dasiari è un’illustratrice e graphic designer milanese. Laureata in Architettura ha poi approfondito la sua formazione con il Mimaster di illustrazione.
Il suo linguaggio, fatto di linee colori e texture, è deciso e vibrante.
Quando non progetta le piace leggere fumetti al parco, sulla sua amaca, e girovagare per Milano, alla ricerca di scorci nuovi e inaspettati.
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