È il 2013. Justine Sacco è la responsabile delle relazioni pubbliche per una grossa azienda, sta passeggiando in aeroporto e, prima di imbarcarsi sull’aereo diretto a Cape Town, scrive un tweet ai suoi 170 followers:
“Going to Africa. Hope I don’t get AIDS. Just kidding. I’m white!”
Dopo mezz’ora il suo aereo decolla; su Twitter per il momento nessuna reazione.
Il volo dura undici ore, durante le quali, mentre Justine ignara dorme, si scatena l’apocalisse. Il tweet fa letteralmente il giro del mondo, l’ hashtag che viene creato al riguardo, #HasJustineLandedYet, scala immediatamente la classifica dei trend, i commenti diventano in poco tempo centinaia, mentre la loro morbosità si intensifica esponenzialmente:
da
“You work in PR, you should know better”
a
“Justine Sacco should get fired….and get AIDS”,
oppure
“You racist ass bitch”
o ancora
“I’m actually kind of hoping Justine Sacco gets aids? Lol”
il passo è breve.
Intanto, anche l’attesa per il suo atterraggio diventa una sorta di rito voyeurista collettivo. La folla preme perché qualcuno la vada ad accogliere e la filmi in aeroporto; tutti vogliono vedere la faccia di chi, improvvisamente, si rende conto di essere diventato il protagonista inconsapevole di un linciaggio e la vogliono vedere live, vogliono assaporarne lo shock e il rammarico nel momento in cui si manifesta.
Una volta atterrata, Justine accende il cellulare. Legge. Va in panico e cancella il proprio account senza offrire delle scuse. Si scusa dopo qualche giorno. Dopo qualche giorno, viene anche licenziata.
Questo è uno dei primi esempi di cancellazione di cui abbiamo testimonianza che possiede tutte le caratteristiche tipiche della cancel culture.
Ma cosa significa esattamente essere cancellati? Di cancel culture se ne parla da anni, eppure manca una definizione condivisa del termine e addirittura non esiste un consenso unanime sulla sua effettiva esistenza.
C’è chi sostiene che la cancel culture sia sempre esistita sotto forma di boicottaggio o censura e che oggi sia solo un concetto vuoto inventato dai conservatori – o dalla destra, o dai reazionari, a seconda delle sfumature – che temono per i propri privilegi minacciati.
C’è invece chi crede che essa sia un fenomeno nuovo che sta creando un clima di paura e mette a repentaglio la libertà di espressione: l’esempio più rappresentativo di questa posizione è dato dalla lettera, pubblicata nel luglio 2020 da Harper’s Magazine, intitolata “A Letter on Justice and Open Debate“: una forte critica alla cancel culture firmata da 153 figure di spicco nel campo delle arti, dei media e del mondo accademico, tra cui Margaret Atwood, Wynton Marsalis, Noam Chomsky e J.K. Rowling, che denuncia una crescente ondata di illiberalismo e un indebolimento delle “nostre norme di dibattito aperto e tolleranza delle differenze a favore della conformità ideologica”.
Dalla parte opposta, c’è chi è convinto si tratti di un movimento che dà finalmente voce alle minoranze, togliendo così potere ai gruppi che storicamente si sono trovati in una posizione di privilegio. A ben vedere ci troviamo in un momento in cui la storia, o meglio le storie, il pluralismo, le prospettive zittite, vengono riscoperte e riportate a galla. Non esiste più una sola voce che racconta il passato, quella del vincente. In realtà, inoltre, porre fine alla carriera di qualcuno attraverso un’insurrezione mediatica popolare è difficile. Pochi intrattenitori o altri personaggi pubblici sono stati veramente cancellati: anche se si sono trovati di fronte a critiche gravi e sono stati forzati a prendere responsabilità nei confronti delle loro dichiarazioni e azioni, pochissimi di loro hanno visto finire la propria carriera. Ma qui stiamo parlando di personaggi famosissimi – come la Rowling. Cosa succede invece se l’obiettivo della cancel culture diventa la persona comune – come viene raccontato da questo documentario della CBNS? Cosa succede se essa si insedia nelle maglie della società e diventa un modus operandi per gestire quello che non condividiamo?
A questa vaghezza ontologica che di per sé rende la questione specialmente complessa, si deve poi aggiungere la meravigliosa tendenza di una certa stampa italiana a distorcere le notizie e a renderle, come dire… false.
Insomma, sintetizzando possiamo dire che, sì, siamo di fronte ad un grandissimo casino. Ma dato che l’articolo non può concludersi così, nelle righe che seguono proverò a fare chiarezza sul tema, analizzandolo nelle sue caratteristiche distintive e ripercorrendone la storia. Prima di iniziare voglio però rendere manifesti i presupposti teorici e, in un certo senso, ideologici, da cui mi muovo. Credo sia importante specificare che scrivo questo pezzo con la convinzione che: uno, la cancel culture esista eccome; due, essa abbia dei tratti specifici che si radicano in fenomeni recenti come la black culture, i social media e il pensiero veloce e al di fuori di questo contesto, non ha senso parlarne; tre, in questi termini, la cancel culture non è mai cosa buona.
La prima cosa da fare nel trattare un argomento complesso come questo, è definirne i contorni. Allora partiamo con una definizione, seppur approssimativa.
Con cancel culture s’identifica l’atto collettivo di ritirare il sostegno a figure – più o meno pubbliche, più o meno famose – le quali hanno esternato o rappresentano pensieri offensivi o a-morali, dove con offensivi e a-morali intendiamo discriminatori, sessisti, razzisti, anti-progressisti, o presunti tali. Questo atto di sabotaggio avviene in forma pubblica e plateale, quasi sempre attraverso un social network, che è spesso Twitter e si estende non solo a persone in carne ed ossa, ma anche ad elementi simbolici, come possono essere film, monumenti, libri. Ad esempio, alcune figure che nel corso degli ultimi anni hanno subito un tentativo di cancellazione sono: Via col Vento, i libri di Dr Seuss, il film Pearl Jam, monumenti storici dedicati a Lincoln e altri ex presidenti americani e la catena di fast food Chick-fil-A.
Ci sono vari fenomeni satellite che ruotano attorno alla cancel culture e che, in questa fase iniziale almeno, dobbiamo isolare per mantenere un discorso circoscritto. La cancel culture si deve distinguere dalla call out culture, la quale si concretizza nell’atto di denuncia di azioni o dichiarazioni offensive e discriminatorie, senza però pretendere il boicottaggio del soggetto responsabile. Mentre la call out culture ha radici online nel fandom e in Tumblr, come strumento di critica della cultura pop o di personaggi pubblici, la cancel culture è nata molto prima all’interno della black culture, emergendo dai movimenti di emancipazione degli afroamericani e dai boicottaggi dei diritti civili degli anni ’50 e ’60.
La cancel culture e la call out culture sono spesso confuse non solo tra loro, ma anche con il public shaming – di cui parlaremo tra poco – e con il politicamente corretto, che sarebbe soltanto il clima entro cui la cancel culture sviluppa i propri tratti. Tutte queste correnti fanno parte di una narrativa collettivizzata alla quale i media si sono qualche volta riferiti come “cultura dell’oltraggio”.
Da notare inoltre che, anche nei confronti di questi fenomeni – call out colture, public shaming, politicamente corretto – l’atteggiamento del pubblico è ambiguo: c’è che li sostiene, chi li combatte, chi pensa non esistano.
Ora andiamo a sviscerare la questione ancora più nel profondo e avventuriamoci un po’ nel filosofico-analitico.
Della cancel culture possiamo isolare alcuni tropi – e qui devo necessariamente citare il video dell’eccezionale Nataly Wynn di ContraPoints, che ispira questo paragrafo. Nell’analizzarli, teniamo presente la storia di Justin Sacco e del suo volo verso l’inferno.
Tropo numero 1: Presunzione di colpevolezza.
La cancellazione è una forma di giustizia vigilante e, molto spesso, le informazioni alla base dell’accusa non vengono verificate. L’accusa stessa è di per sé prova sufficiente della sua stessa verità. Nell’esempio di Justin Sacco, l’accusa è di razzismo. Come spiegherà lei stessa successivamente, la sua era invece una battuta in cui, con ironia verso se stessa, si prendeva gioco dei privilegi dei bianchi. La si può capire o no, trovare divertente o no, forse la si può trovare insensibile o bigotta, ma non si tratta di razzismo, sicuramente non nei termini intesi dagli accusatori.
Tropo numero 2: Astrazione.
L’astrazione rimpiazza le specificità e i concreti dettagli di un fatto con un’asserzione più generale. Lo specifico si perde in una vaghezza negativa e l’immaginazione corre libera, spesso conducendo a danni ed esagerazioni. Nell’esempio della Sacco passiamo da “Justin Sacco ha scritto un tweet che potrebbe sembrare razzista” a “Justin Sacco ha scritto un tweet razzista” per finire con “Justin Sacco è razzista”.
Tropo numero 3: Essenzialismo
La dialettica della cancel culture passa dal criticare una persona per le sue azioni, al criticare una persona per ciò che è. Nella asserzione iniziale “Justin Sacco ha scritto un post che potrebbe essere razzista”, il verbo che sostiene la frase è avere. Nell’asserzione finale “Justin Sacco è razzista” il verbo che sostiene la frase è essere. Siamo vicini all’area semantica della fallacia logica dell’argomentum ad hominem, dove entra in atto un movimento subdolo che mira all’essenza stessa di una persona, la colpisce nella sua identità, invece di rimanere ancorato alle sue azioni.
Tropo numero 4: Pseudo-moralismo e Pseudo-intellettualismo
Il moralismo/intellettualismo fornisce un pretesto fasullo per il calling out, quando invece i reali motivi sono rancore, invidia, disprezzo, sadismo, o una strana mescolanza di tutti questi sentimenti, e non di certo vera giustizia sociale. Soffermiamoci un attimo sulla natura dei commenti che Justine Sacco ha ricevuto: molti di essi sono di gran lunga peggiori, più cattivi e gratuiti del tweet della donna. Di qui un altro tropo collegato a quest’ultimo, chiamiamolo Tropo numero 4 e mezzo: la cancel culture è Ipocrita.
Tropo numero 5: Nessun Perdono
Le scuse della persona cancellata cadranno sempre nel vuoto perché verranno giudicate non sincere ed opportunistiche.
Tropo numero 6: Transitività
La cancellazione è contagiosa: associarsi ad una persona cancellata è considerata prova di essere degni di cancellazione, perché si avallano le sue opinioni.
A questi tropi citati da Nataly Wynn, ne aggiungo due:
Tropo numero 7: Incontrovertibilità
L’accusa “essenzialista” non cade mai in prescrizione: verrà usata anche a distanza di anni per provare l’intrinseca malvagità di una persona. Questo tropo è strettamente collegato con la natura di internet e dei social media: una volta postato, rimane in memoria per sempre.
Tropo numero 8: La Tragica Serietà della cancel culture
La cancel culture raramente ammette ironia e battute. Spesso, l’umorismo viene svuotato della sua connotazione comica e viene trasformato in qualcosa di offensivo, insensibile, oltraggioso. Pensiamo all’infelice battuta di Justin Sacco. La cancel culture è estremamente letterale nell’interpretazione del significato e fallisce nel riconoscere la linea che divide “ridere di” da “ridere con”. Questo atteggiamento sta già avendo conseguenze, ad esempio la BBC e Channel 4 stanno autocensurando la loro produzione comica perché terrorizzati dalle offese che potrebbero causare.
A questo punto, spero, abbiamo un’idea più precisa del fenomeno che ci troviamo di fronte. Perciò, senza più paura di creare confusione, vorrei tirare nuovamente in ballo i fenomeni che abbiamo nominato precedentemente: call out culture, public shaming e politicamente corretto. Infatti, se è vero che la cancel culture ha delle caratteristiche proprie ed esclusive, credo sia anche vero che le relazioni tra questi trend siano troppo strette per analizzare la situazione sociale e culturale attuale senza considerarli come una forza agente unica.
Iniziamo con un po’di storia.
Il primo riferimento alla cancellazione di una persona nella cultura pop probabilmente proviene dal film del 1991 New Jack City e più precisamente alla battuta del personaggio di Wesley Snipes, Nino Brown: “Cancella quella stronza. Ne comprerò un’altra“, riferendosi alla disapprovazione e alla disperazione della sua ragazza per i suoi modi violenti – Paradossale che il motto di un movimento per la difesa delle minoranze prenda il nome dal una battuta misogina, vero? – Nel 2010, il rapper Lil Wayne fa riferimento alla citazione nella sua canzone “I’m Single”, ma è dopo un episodio di Love & Hip-Hop: New York del 2014, quando il membro del cast Cisco Rosado liquida la sua pretendente dicendole “Sei stata cancellata”, lasciando la donna scioccata e indignata, che il termine guadagna terreno sui social media. Poco dopo, infatti, Black Twitter inizia ad usarlo, sia scherzosamente che seriamente, per esprimere il proprio disaccordo.
È in questo periodo e grazie ai social media che la black culture viene più ampiamente riconosciuta come una forza dominante dietro gran parte della cultura pop. Social network come Twitter danno una voce collettiva più forte agli afroamericani e ai membri di altre comunità tradizionalmente respinte ai margini delle conversazioni pubbliche, mentre piattaforme come YouTube e Netflix aiutano a diversificare ed espandere i tipi di media e cultura pop che consumiamo. E in una società dove la partecipazione culturale è sempre più democratizzata, anche il rifiuto di partecipare diventa più importante. Il chiamarsi fuori e l’appello al boicottaggio diventano messaggi collettivi di innalzamento di status, i quali sanciscono il nuovo potere dei gruppi prima emarginati: quello di ignorare venendo notati per questo.
Pensiamo al movimento Mee Too: è un esempio tipico di come un gruppo in una posizione di svantaggio sia riuscito a portare a galla una serie di crimini e di problematiche e abbia fatto sì che i colpevoli pagassero per le loro azioni, il tutto attraverso una sorta di rivoluzione social. Non sarebbe stato possibile attraverso canali ufficiali.
Lasciando da parte per un attimo la cultura pop e i social media, possiamo andare ben più indietro nella storia per vedere dove e com’è nato un altro degli elementi caratterizzanti della cancel culture: il public shaming.
L’umiliazione pubblica esiste fin dall’inizio della società stessa. Le scorte e la gogna erano usate dai puritani per punire i criminali nell’Europa medievale fino all’America coloniale. Nella prima età moderna, i rituali di vergogna erano parte integrante della cultura popolare in tutta Europa. Uomini e donne che agivano, in un modo o nell’altro, contro le regole non scritte della società locale venivano sottoposti a forme collettive di ammonimento. In Inghilterra, le donne che non erano rispettose verso i loro mariti erano sottoposte al cosiddetto skimmington: obbligate a sedere all’incontrario su un asino, venivano fatte sfilare mentre gli abitanti del villaggio le deridevano. Coloro il cui comportamento sessuale, sociale o politico non era in sintonia con le convenzioni popolari erano spesso costretti a partecipare al chiarivari, una sorta di parata pubblica sotto alla casa del “criminale” che durava anche giorni, fino a quando la persona abbandonava il gruppo, faceva ammenda, o, in alcuni casi, si toglieva la vita.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, furono soprattutto le donne che avevano avuto relazioni con i soldati tedeschi a subire le follie dell’umiliazione pubblica. Nell’Italia degli anni 70 le parate di protesta degli operai erano spesse accompagnate da musica, baccano e insulti rivolti ai supervisori presi di mira per la loro cattiva gestione. Nel 1971, durante i disordini dell’Irlanda del Nord, le donne cattoliche che uscivano con i soldati britannici correvano il rischio di venire legate ai lampioni, rasate e di venire coperte di catrame e piume.
Ovviamente, tali pratiche non sono mai state fini a se stesse; come ora, anche allora avevano un obiettivo positivo nelle intenzioni: rafforzare i legami sociali, assicurare il rispetto delle norme, generare quei sentimenti di disprezzo verso l’altro che, benché ignobili, forgiano il gruppo e rendono i soggetti consapevoli della loro appartenenza.
Oggi, il fenomeno dell’umiliazione pubblica assume connotazioni specifiche, dando vita a qualcosa di leggermente diverso: l’online shaming. Internet permette di distruggere la reputazione di una persona semplicemente condividendo un video, un’immagine, anche un’unica frase. Il modo in cui consumiamo informazioni è cambiato: siamo nell’era del pensiero veloce, generalmente formiamo i nostri giudizi sulla base di una frettolosa sintesi dei dati che ci vengono bombardati addosso, verifichiamo poco i fatti, consumiamo notizie brevi, semplificate, di seconda mano. Inoltre, importantissimo, facciamo tutto ciò davanti ad uno schermo. Non abbiamo la possibilità di vedere le reazioni di chi riceve i nostri messaggi, non riusciamo ad attivare le nostre capacità empatiche, i nostri neuroni specchio si appannano; a volte il destinatario non lo conosciamo neppure: è qualcuno in un’altra città, in un altro stato, che parla un’altra lingua dall’altra parte del mondo. Ma noi ci permettiamo di giudicarlo comunque, perché ce lo possiamo permettere, o perché qualcuno lo ha già fatto, o perché così sfoghiamo su di lui la nostra frustrazione repressa. Quello che voglio dire qui, è che i meccanismi dell’online shaming – di cui possiamo considerare la cancel culture una ramificazione – hanno tante sfaccettature e vanno al di là dell’idea molto naïve che i sostenitori della cancel culture propagano, ovvero che essa serve per appianare le ingiustizie e per rendere qualcuno responsabile delle proprie azioni. Certo, può servire anche a quello, ma è davvero sempre quello il motivo per cui viene usata?
C’è un altro argomento che è impossibile non toccare quando si parla di cancel culture: la libertà di parola. Lo scontro tra cancel culture e libertà di espressione pare evidente: la cancel culture mette a tacere, esercita una violenza che non solo sopprime la parola, ostruisce anche il fluire del pensiero. Se non esiste spazio per sperimentare, sbagliare, imparare, la creatività zoppica e i confini si restringono. Ma, anche in questo caso, il contesto teorico non è così scontato. Possiamo, infatti, vedere la questione secondo due prospettive.
La prima prospettiva è quella dei gruppi di potere. Stiamo parlando in questo caso di individui che partono da una posizione privilegiata, che possiedono piattaforme di grandi dimensioni, parlano da un pulpito ai loro migliaia di follower al riparo di una notorietà quasi impossibile da scalfire. L’atteggiamento di tali individui è di difesa, di arroccamento per non perdere il privilegio ottenuto, o ereditato. A ben vedere, si possono inserire in questa categoria anche i firmatari della “Letter on Justice and Open Debate”. Forse è bene precisare che questo tipo di prospettiva non dev’essere per forza dichiarata od esplicitamente sostenuta, ci troviamo di fronte ad un dato di fatto: chi possiede il potere, in questo contesto, si trova automaticamente nella posizione di un torto a-priori, perché, criticando la minoranza, non fa che riaffermare la sua propria superiorità e la sua incapacità di superare la visione parziale data dai propri privilegi.
La seconda prospettiva è quella di coloro che consapevolmente rinunciano alla propria libertà di parola e di espressione, quella dei tanti che temono le ripercussioni della cancel culture e scelgono di tacere. Questa seconda prospettiva è la più preoccupante perché implica la soppressione passiva delle credenze, delle ideologie e delle prospettive diverse, e causa una diminuzione delle voci in campo. Ha un meccanismo subdolo, perché agisce a livello psicologico e si manifesta come auto sabotaggio. Per sottolineare quanto questa conseguenza della cancel culture sia pericolosa, basta ricordare alcune considerazioni di John Stuart Mill:
“He who knows only his own side of the case knows little of that. His reasons may be good, and no one may have been able to refute them. But if he is equally unable to refute the reasons on the opposite side, if he does not so much as know what they are, he has no ground for preferring either opinion… Nor is it enough that he should hear the opinions of adversaries from his own teachers, presented as they state them, and accompanied by what they offer as refutations. He must be able to hear them from persons who actually believe them…he must know them in their most plausible and persuasive form.”
Questo perché:
Se l’opinione soppressa è vera, l’umanità viene privata dell’opportunità di scambiare l’errore con la verità.
Se l’opinione soppressa è falsa, l’umanità perde la percezione più chiara e l’impressione più vivace della verità prodotta dalla sua collisione con l’errore.
Se l’opinione ricevuta e l’opinione soppressa condividono la verità tra di loro, l’opinione di minoranza è necessaria per fornire il resto della verità di cui la dottrina ricevuta incarna solo una parte.
Se gli individui non sono autorizzati a seguire il loro intelletto a qualunque conclusione esso possa portare, allora alle persone sarà impedito di raggiungere lo sviluppo mentale di cui sono capaci.
C’è un delicato equilibrio nella difesa del diritto alla libertà di parola e nel ritenere gli individui e le società responsabili delle loro azioni. Il problema con la cancel culture è che non c’è gradazione e tutti i passi falsi hanno la stessa severità di punizione. Nella maggior parte dei casi, inoltre, la tendenza è quella di sacrificare il capro espiatorio senza possedere nemmeno la quantità minima di informazioni necessarie a giudicare ciò che si sta tentando di annullare.
D’altra parte, però, ci si deve anche guardare da chi si appella alla libertà di parola per impedire alle critiche di sortire un effetto. Sebbene questo possa essere un escamotage funzionante a breve termine per sostenere un argomento, è fallacie e non lascia spazio a compromessi. Questa tattica rende impossibile trovare l’equilibrio in una conversazione, ed è dannosa almeno quanto la cancel culture.
Ci troviamo insomma, ancora una volta, di fronte ad un’ambiguità che rende difficile un’immediata presa di posizione.
Ora, se si guarda all’insieme, questo sembra un articolo che pende contro la cancel culture e anche contro la call out culture. In effetti, lo è. Io forse soffro della prevenzione ideologica del privilegiato, e in fondo faccio parte di quelli che guardano al cielo con immensa insofferenza quando qualcuno si offende per questioni che – ad un giudizio forse superficiale – paiono un nonnulla. Mi rendo anche conto di quanto scarto ci sia tra la mia generazione dei nati negli anni Ottanta e quella successiva, quando si tratta di consapevolezza verso problematiche di genere, di linguaggio, di inclusione. Se aggiungiamo poi un’educazione anaffettiva e montanara, ci troviamo di fronte a qualcuno che giornalmente deve combattere arduamente l’intolleranza contro tutto ciò che ha solo l’aria vaga del capriccio.
Prima di chiudere vorrei però spezzare una lancia anche in favore di questi fenomeni, per restituire un quadro il più possibile equilibrato.
Esistono problemi nella nostra società che vanno alle sue radici e la rendono marcia da dentro: sono il sessismo, il razzismo strutturale, il patriarcato, l’omofobia, la transfobia. Essi si insediano nelle istituzioni e nel pensare ordinario, e per questo è impossibile combatterli con mezzi istituzionali ed ordinari: necessitano di soluzioni extra-istituzionali e straordinarie. La cultura dell’oltraggio può far parte di queste soluzioni e di certo ne ha fatto parte, basta pensare al Me Too e al Black Live Matters, ma ci sono un’infinità di altri esempi meno lampanti e che hanno fatto meno notizia. Il problema qui, a mio parere, è che un mezzo straordinario ed extra-istituzionale non può diventare parte dei meccanismi di funzionamento della società, il prezzo è perderne la carica sovversiva e svuotarlo della sua più propria e vera natura. La mia impressione è che ci troviamo di fronte a dei fenomeni distinti: ci sono il politicamente corretto e l’estremizzazione del politicamente corretto; la call out culture e l’estremizzazione della call out culture; la cancel culture e l’estremizzazione della cancel culture. (Ho delle riserve nei confronti di quest’ultimo assunto: io credo che la cancel culture sia sempre estrema e il mezzo sbagliato, ma concedo che sia un fenomeno controverso e che ci possano essere anche delle argomentazioni valide al suo sostegno in alcuni casi).
Le estremizzazioni di questi fenomeni derivano anche dall’esasperazione operata da parte degli organi di informazione, che rincorrono la notizia e la distorcono, creando una percezione erronea dei fatti. L’impressione è che la cultura sia al momento tenuta in ostaggio da una banda di pazzi egomaniaci che vogliono cancellare tutto, adducendo le argomentazioni più folli, mentre invece, spesso, ci troviamo di fronte a casi ben più complessi e sfaccettati, che fanno parte di un dialogo complicato in un momento storico di stravolgimenti socio-linguistici e socio-politici. Il risultato è che la situazione viene rappresentata dai media in modo macchiettistico, in questo modo viene anche immagazzinata dal pubblico e, di conseguenza, così riproposta. La negoziazione di significati così come sta avvenendo oggi in tanti delicati rami della vita come l’identità di genere, la discriminazione sessuale, il razzismo, non ha nemici peggiori della banalizzazione e dell’estremizzazione dei fatti.
Un punto a parte, poi, riguarda l’interpretazione soggettiva della situazione: io sto scrivendo dal punto di vista privilegiato di una persona che non ha dovuto subire particolari forme di discriminazione, se non a volte come donna e, in un certo senso, mi sento a disagio in questa posizione in questo momento: non vedo come io possa comprendere la prospettiva e i sentimenti di minoranze che per secoli sono state – letteralmente – cancellate dal colonialismo e dalla supremazia bianca. Quindi, è anche con un certo imbarazzo che scrivo queste righe, perché forse non sono la persona migliore per farlo. Ho cercato comunque di effettuare un’analisi per quanto possibile oggettiva e di motivare le mie opinioni con i fatti. Le mie riserve, le ho dichiarate onestamente.
Così, nel finale, mi astengo da proporre soluzione teoretiche complesse e onnicomprensive, e suggerisco invece delle piccole strategie che possiamo adottare tutti.
Credo di andare sul sicuro nel dire che probabilmente anche tanti di voi – come me – hanno partecipato ad un certo punto ad un linciaggio social collettivo. Io, onestamente, non mi ero mai interrogata profondamente sul perché di quel comportamento, era quasi naturale seguire l’onda di indignazione e navigarla, dando sfogo a qualche pulsione ancestrale, nella rassicurazione di star comunque agendo per una sorta di giustizia collettiva. Ed è anche normale sia così in un certo senso. Siamo nella fase di pubertà dei social media, abbiamo creato qualcosa le cui conseguenze, pericolosità e potenzialità ancora ci sfuggono. Siamo come adolescenti che si prendono le prime sbornie.
Allora, la prossima volta che ci troviamo di fronte ad una situazione simile, prima di chiamare in causa qualcuno pubblicamente o partecipare ad una forma di calling out, chiediamoci invece due cose:
E, soprattutto, ricordiamocene un’altra: quella volta, tempo fa, ma magari neanche tanto, che avevamo scritto quella cazzata abominevole ed imbarazzante a cui assurdamente credevamo, ma poi qualcuno ci aveva fatto ragionare, senza svergognarci in pubblico.
Ricordiamoci la stupidità del nostro passato e le lezioni che abbiamo imparato da persone che ci hanno trattato con empatia. Non c’è nulla di più efficace contro l’intolleranza e l’ipocrisia dell’online shaming e della cancel culture.
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