Primordi è un rubrica aperiodica, curata da Mattia Grigolo.
Ci piacciono degli esordi narrativi e ne scriviamo. Ma solo esordi.
«Cos’è la nascita? È una nave che parte per la guerra». Così scriveva Paolo Cognetti in Sofia si veste sempre di nero ormai più di dieci anni fa. Di per sé venire al mondo è un atto di grande coraggio, e come diceva Martin Heidegger l’essere è un oggetto, o meglio un ob-jecta, gettato dalla nascita nel vuoto e messo in moto come ingranaggio della macchina esistenziale per esperire, come ci ha insegnato Samuel Beckett, un viaggio dal ventre alla tomba in cui non ci sarà nessuna salvezza né liberazione.
Sembra aver capito questa lezione Giulia Della Cioppa, autrice che ha all’attivo racconti pubblicati per «Il primo amore» e che lo scorso novembre ha pubblicato il suo romanzo d’esordio Ventre per i tipi di Alter Ego. Il romanzo inizia con un suicidio: «Mi sono uccisa il giorno del mio compleanno». A pronunciare queste parole Margherita, una ventiseienne che ha tentato il suicidio ingoiando dei farmaci, un po’ come la protagonista di Veronika decide di morire di Paulo Coelho. Margherita, «come i fiori di campo. Quelli che strappano via o si soffocano sotto i passi disattenti», che come Veronika non voleva essere vittima del tempo e voleva farla finita per sempre, e ora che poteva farlo è ridotta in coma vegetativo. Attorno a lei si muovono i personaggi più disparati: una madre premurosa – pure troppo – e maniaca del controllo; Bianca, un’infermiera che oltre a curare la protagonista le parla, fino al Dottor Bottai, a infermieri di dubbia reputazione e pazienti come Cintia, anche lei in coma come la protagonista. Il tutto è osservato dal lettore attraverso gli occhi e i pensieri di Margherita, incapace di muovere tutto il proprio corpo fuorché le palpebre, ma capace di svelare il lato nascosto del suo rapporto con gli altri.
Oltre a Veronika decide di morire, si potrebbero riconoscere e individuare altri modelli letterari che sottendono a Ventre. Come ricorda Daniele Scalese nella sua recensione su «CriticaLetteraria» questa narrazione attorno a un personaggio in coma ricorda romanzi già pubblicati come Lei che non tocca mai terra di Andrea Donaera e Chiedi se vive o se muore di Gaia Giovagnoli, con l’unica differenza che, se nel primo caso la narrazione è prevalentemente in terza persona e nell’altro è in prima persona, ma chi è in coma è l’oggetto della narrazione, nel caso di Della Cioppa Margherita è soggetto e al tempo stesso oggetto della narrazione e dell’azione narrativa. Sempre Scalese definisce questa narrazione una narrazione da «prima persona fantasma»: il punto di vista narrativo è intradiegetico ed extradiegetico allo stesso tempo. La protagonista difatti racconta cioè se stessa e gli altri rivelandone i difetti e i non detti come fosse appunto un fantasma che sa la storia di chiunque e di qualsiasi luogo e ne approfitta della sua presenza/non-presenza per raccontarla.
Non a caso è stato nominato Samuel Beckett all’inizio dell’articolo. Non solo perché sulla quarta di copertina viene riportato lo strillo di Veronica Raimo che fa riferimento all’esistenzialismo, di cui drammaturgicamente parlando Beckett è degno rappresentante, ma anche perché il libro di Della Cioppa nasconde dietro di sé echi della letteratura beckettiana. La vicenda di Margherita, il suo rapporto con gli altri – in particolare la madre – e il modo in cui visivamente e spazialmente la narrazione è posta ricorda a grandi linee Finale di partita, dove a Margherita spetta il ruolo dei personaggi di Nag, Nelly e Clov, mentre alla madre, a Bianca, a Bottai e agli altri quello congiunto di Hamm. La protagonista, infatti, è quella che subisce le vessazioni, i tormenti e le parole degli altri, ma allo stesso tempo è quella che, ridotta a solo corpo, infligge dolore agli altri senza comunicare loro quanto pensa, che resta nella sua testa e viene comunicato al solo lettore quasi fossero delle note a piè di pagina destinate a essere ignorate da chi ruota attorno a lei. Tutti loro, inoltre, non hanno una vera e propria possibilità di fuga, in quanto la loro azione è relegata principalmente nella sala d’ospedale in cui è ricoverata Margherita. Anche i dialoghi, infatti, sono intesi in senso beckettiano, con parole e frasi che sembrano recitate al vento, mentre le parole di Margherita, contrassegnate a livello grafico con il corsivo – un espediente, questo, che ricorda quello usato da Donaera per il personaggio di Miriam – e scritte in modo ironico e sarcastico, acuiscono ancora di più la distanza e l’incomunicabilità con gli altri personaggi. Questa costellazione di relazioni fra personaggi trova un precedente in La vegetariana di Han Kang, dove la protagonista Yeong-hye si ribella al fatto di mangiare carne chiudendosi sempre più in se stessa e
riducendosi a uno stato vegetativo che la fa diventare attrice attiva e passiva delle sue vicende, ovvero colei che subisce ma che allo stesso tempo tiene in scacco le persone che ruotano attorno a lei.
L’aspetto più beckettiano di tutti in questo romanzo è quello dei legami personali, soprattutto il rapporto fra Margherita e la madre, una relazione costellata da «scontri fra mannare» dove qualsiasi cosa, da un viaggio in auto a una semplice cena di famiglia, si trasformava in una «santa inquisizione» e una «macchina delle torture». Questo legame famigliare portato all’estremo come nei migliori romanzi di Thomas Bernhard, un rapporto logorante definito «placenta e tragedia» dove Margherita è «il legno, lei [la madre] il tarlo», è evidente pure nel personaggio di Cintia, specie nel momento in cui l’amica della ragazza dice ai genitori di quest’ultima le seguenti frasi:
«Siete degli egoisti, come tutti i genitori. […] figliate per abbellire le vostre vite striminzite scacciare la solitudine trovare eredi tempo da riempire volete il senso trovare il vostro senso sulla pelle di un altro e no, non adottate, figliate».
Queste frasi riecheggiano soprattutto nelle considerazioni sarcastiche di Margherita nei confronti di quello che le dice la madre mentre l’assiste al capezzale: se la madre dice che avrebbe voluto la figlia felice, quest’ultima dice che «È arrogante pensare di avere potere sulla felicità di qualcun altro», continuando dicendo che la madre «voleva uno specchio»; se la madre ricorda alla figlia le poesie che le piacevano e quello che diceva a riguardo, la protagonista commenta sardonicamente il fatto che sia stata costretta a studiarle a memoria e che non ha mai detto certe cose sulle poesie lette assieme alla madre. In questo, il rapporto madre-figlia ricorda molto quello di Erika Kohut e la madre in La pianista di Elfriede Jelinek, oppure di Teresa e sua madre in Centomilioni di Marta Cai. Le protagoniste di questi due romanzi, infatti, hanno in comune con Margherita il sentirsi represse emotivamente dalle proprie madri, personaggi che anche nella loro premura si dimostrano dispotiche e ossessive del controllo, specie perché invidiose dei piccoli successi quotidiani che ottengono le loro figlie. La madre di Margherita, dunque, è una madre che riversa tutte le sue frustrazioni sulla figlia, tutto quello che dalla vita non ha mai avuto, e la manipola spingendola a ottenerlo:
«Nella poesia, mia madre, ci trovava tutta la riserva del mondo. I desideri più feroci. Non aveva un amore e si era ammalata. Ma non si arrendeva, non si arrendeva mai. Era irrequieta, non indolente, io lo vedevo. Una parte di lei si costringeva a tenere i piedi a contatto con le cose. Si ripeteva che a cinquantacinque anni non sono queste le priorità, aveva già avuto molto dalla vita. Eppure le mancava sempre qualcosa. Non riusciva a non rivolgere lo sguardo verso un varco di luce, un po’ di gioia. Era una bambina prepotente. Voleva un amore, con tutti i denti. Questo mi faceva arrabbiare. Quanti anni impiegherà per invecchiare davvero? Temevo per i sogni di lei bambina, e per la cattiveria del mondo; temevo della mia, di cattiveria».
La cattiveria di Margherita, però, arriva in due modi: attraverso i suoi pensieri da un lato, che la madre mai conoscerà, ma dall’altro paradossalmente tramite quel corpo che non riesce più a muovere e che qualcuno controlla al posto suo, ovvero Bianca, quell’infermiera il cui nome dovrebbe portare purezza, ma che in realtà porta Margherita a trasgredire alle aspettative della madre. La trasgressione di Margherita arriva per il corpo, che Bianca incide con il bisturi, che bacia e lecca venerandolo come un feticcio. L’infermiera la recide come una margherita di campo dal terreno strappando i suoi petali e lo stelo, l’unico modo per far rinascere Margherita:
«Voglio vedere la carne aprirsi, i nervi disconnettersi, le reti neurali. Voglio smettere di pensare, per un attimo. Sento i brividi sotto la nuca, il ghiaccio che cola dai nervi, si allungano e si spezzano, si snodano e annegano. Voglio. Voglio che metta la lama nella pelle, che mi infligga una pena, provare un’emozione nei tempi più secchi. Voglio che mi creda il suo fiore, che lo tagli via, mi strappi e mi sottragga alla terra, la sua bambola, il pesce catturato all’amo senza alcun impegno. Mette un dito nella ferita, poi lo guarda. L’unghia sporca, la sua faccia animale, il tic dei suoi occhi,
gli spasmi delle spalle propri di chi è preda del piacere. Tiene i lembi del fianco con le mani, li spinge dalle estremità. Sono repellente e mi desidera, mi rifiuta e mi desidera. Sento caldo nel ventre, il mio sesso vivo. La sua lingua stretta nella bocca, due spighe nere in mezzo alle sopracciglia, la fronte increspata. Il mio ventre si accende, si accende e s’infuoca. Il mio corpo sarà rovente, lei sentirà quanto brucia. Il mio sesso vivo, sento caldo nel ventre. Cade una lama dalla pancia al sesso tutte le volte che costringe gli occhi nel sangue della ferita. Sento in ogni cellula una nausea dolce. Nelle tette le scorre il sudore. Pulsa, mi pulsa il ventre. Il mio bacino un’onda, si alza e sbatte sul letto. Si solleva e s’infrange contro gli scogli, si muove. Mi vedo a nuotare, nel costume giallo, l’unico che amavo, a soffiare dal boccaglio e nessuna maschera. Gli occhi rossi, sbarrati, bruciavano di sale».
Il viaggio dal ventre alla tomba per Margherita si conclude, dunque, nel ventre stesso: cercare di morire è il modo per la protagonista di rispondere alla domanda «ho un corpo o sono un corpo?». La protagonista comprende di essere in realtà entrambe le cose, non solo di possedere un corpo, ma anche di esserlo. Paradossalmente, però, se il rapporto con Bianca sembra liberatorio, in realtà accentua ancora di più lo stallo a cui Margherita è condannata, in quanto la protagonista non riesce a raggiungere una vera e propria libertà e autonomia. Alla fine, il fatto di essere corpo e provare sentimenti è sempre legato a qualcun altro, che sia l’ansia ossessivo-compulsiva della madre oppure la mania feticista di Bianca. L’unica cosa che possiede autonomamente Margherita è il pensiero, l’unica cosa che non può controllare nessuno, ma che nessuno può ascoltare, rendendo Margherita ancora di più prigioniera e sola, ma allo stesso tempo diventando paradossalmente libera di denunciare il fallimento delle relazioni umane e di mostrare come anche il concetto di corpo sia sempre qualcosa definito dallo sguardo e dal contatto degli altri, mai dai singoli individui.
In un momento della nostra editoria in cui il problema del corpo sta prendendo sempre più piede, Ventre di Giulia Della Cioppa si inserisce bene nel dibattito attingendo alla tradizione esistenzialista. L’autrice casertana ben ci svela attraverso uno stile teatrale tendente al grottesco e al sarcastico quanto in realtà il corpo sia mero feticcio di cui non abbiamo mai pienamente il controllo. Le nostre emozioni sono, alla fine, dettate dal nostro legame con gli altri, rapporti fatti di silenzi e non detti che restano nella mente degli altri e ci mostrano quanto impossibile sia essere veramente liberi e consapevoli di se stessi e dei propri sentimenti.
Alberto Paolo Palumbo
Dal 1995 tira avanti per non tirare indietro con un pizzico di pragmatismo milanese e impulsività calabrese. Se tutto va come dovrebbe, continuerebbe a insegnare lingua straniera nelle scuole e a tempo perso a scrivere articoli, ma quest’ultimo non per soldi, perché come diceva un vecchio saggio: “ma che contratti? Passione ce vuole!”
Giulia Della Cioppa
Cresciuta nella campagna Casertana, non a raccogliere margherite ma a catturare gatti, scrive e legge da quando può ricordare. Ha studiato scienze cognitive perché le domande sono meglio delle risposte. Si vede cambiata, ma si incastra sempre negli stessi ganci.
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