illustrazioni di Federica Scalise*
Come in un posto di manovra sempre mediante manopole si eseguono le cose più diverse, così mediante le parole del linguaggio, paragonabili a manopole. Una manopola è quella di una manovella, che può subire uno spostamento continuo; un’altra appartiene a un interruttore e può essere solo alzata e abbassata; una terza appartiene a un interruttore che consente tre o più posizioni; una quarta è la manopola di una pompa agisce soltanto se mossa in su e giù, ecc.: ma tutte sono manopole, si afferrano tutte con la mano.
Ludwig Wittgenstein, 1929
I figli si rivoltano, debbono rivoltarsi contro i padri, e i padri non possono farci nulla, perché soggiacciono a una legge generale che regola i rapporti fra vivi: e cioè che ognuno genera il proprio nemico.
Emil Cioran, 1973
Sono svariati i termini che il linguaggio comune ha preso in prestito, spesso stravolgendone il senso, dalla filosofia. Tra i casi più eclatanti possiamo annoverare quelli di derivazione greco antica, oggetto di trasformazioni e semplificazioni piuttosto interessanti.
L’amore platonico è un amore che non si consuma e prospera tra le nuvole, l’epicureo è un essere dedito ai soli piaceri della carne, lo stoico quasi un martire: insomma, durante il suo viaggio nel tempo, il lessico filosofico è stato depredato e trasformato a uso e consumo del linguaggio ordinario, incarnando perfettamente, in questa sintesi estrema, lo spirito del tempo, tutto teso a ridurre e banalizzare. Di certo, nel senso più comune di tutti questi termini di derivazione filosofica, si può rintracciare un’eco lontana di quello che è il loro significato originario, ma si tratta di semplificazioni estreme, di una pratica assai poco speculativa.
C’è però un termine che più di altri ha saputo trasformarsi e diffondersi nel lessico quotidiano, diventando assai popolare e venendo a rappresentare forse la cifra stessa di quelle che sono le dinamiche più frequenti sia nella dimensione comunitaria che in quella privata dell’età contemporanea: “cinismo”. È cinica la Merkel che gela la ragazzina palestinese che declama il suo amore per la Germania e viene invitata a non illudersi di potervi restare. È cinico il ragazzo che vuole fare carriera a ogni costo, perché il fine giustifica i mezzi e homo homini lupus, e se non sei lupo non ti salvi la pelle. È cinico il datore di lavoro che non rinnova il contratto alla donna incinta e non assume sopra i 40 quando i figli ci sono già e potrebbero dare problemi. È cinica la tipa conosciuta su Tinder, che ti ha detto senza mezzi termini che per lei è stata solo una scopata come un’altra, perché siamo tutti sostituibili. Insomma, il liquido della società di Bauman sembra essere davvero amaro, così amaro che in tempi piuttosto recenti si è diffuso un termine, buonismo, destinato a infangare l’immagine di chi non appare sufficientemente realista o pragmatico, o per meglio dire, cinico.
Il cinico insomma è rappresentatissimo in ogni classe sociale. È trasversale, è popolare, di sicuro molto più dei suoi colleghi epicurei, stoici, amanti platonici. Per questa ragione, sarà importante cercare di capire com’è nato, è mutato e si è diffuso il cinismo, termine che ha avuto un’interessante evoluzione semantica (semantic change), originata probabilmente dalla sua vocazione popolare, ateoretica e individualista, giunta purtroppo a noi svuotata di contenuti, come una conchiglia.
Le origini del cinismo
Concedetemi,
nobile filosofo, la vostra compagnia.
Re Lear, Atto terzo, Scena quarta
Com’è noto, il termine cinismo deriva dal greco κύων/kuon (cane). Sono due le possibili origini di questo nome. Cane era l’appellativo dato a Diogene di Sinope, il cinico più celebre e discusso. Ma Cinosarge era anche il Ginnasio alle porte di Atene, sorto in un luogo consacrato a Eracle (prototipo e archetipo cinico), nel quale era solito parlare Antistene, allievo di Socrate, come attestato da Diogene Laerzio nelle sue celebri Vite e dottrine dei filosofi, nelle quali (libro VI) viene identificato come il fondatore della scuola cinica. L’ipotesi più accreditata al momento è che però Diogene di Sinope, indiscutibilmente cinico, non fu propriamente allievo di Antistene (del quale comunque seguiva le tracce) e che sia lui il vero capostipite canino. E che sebbene nel cinismo siano forti i rimandi al pensiero di Socrate, e alla sua esemplare condotta, esso si collochi sostanzialmente al di fuori di quella scia, venendo a costituire una dottrina originale a partire proprio da Diogene e non dal suo allievo diretto. Il mio modestissimo parere, è che la figura di Socrate sia così centrale nel pensiero occidentale che tutte le vie possono portare a lui. E che la gara a chi sia più socratico, se Antistene o Diogene, Platone o Zenone, non sarebbe piaciuta allo stesso Socrate che, a quanto se ne sa, era assolutamente super partes e poco incline a deliri egoici.
Diogene di Sinope fu dunque il rappresentante più carismatico del cinismo antico. Gli episodi della sua vita che ci è dato conoscere costituiscono con tutta probabilità il paradigma più compiuto della sua ricerca filosofica, che ai testi scritti e alle teorie preferiva l’azione iconoclasta, disturbante, rivoluzionaria. Sono svariati gli aneddoti della vita di Diogene giunti fino a noi, e in ognuno di essi scorgiamo la figura di un uomo estremamente sicuro di sé, non incline al dubbio, ma all’ironia, che non le manda a dire a nessuno e non è dipendente da alcunché, tranne che da se stesso e dalle proprie idee. E su di essi possiamo basarci per comprendere il cinismo delle origini, improntato sul rigorismo morale e sulla più assoluta povertà materiale. Scrive a tal proposito Hegel, nelle poche, sdegnate pagine che dedica a questa corrente filosofica nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia:
Un bastone d’olivastro, una mantello a due doppi rattoppato e senza tunica, che serviva anche da letto durante la notte, una bisaccia da mendicanti per i cibi indispensabili, e un bicchiere per attingere dell’acqua: ecco la foggia di vestire che contraddistingueva i Cinici. Essi attribuivano il massimo valore alla semplificazione dei bisogni (…) S’appartiene in generale alla cultura anche il rivolger lo spirito alla grande varietà dei bisogni e al modo di soddisfarli (…) e questo campo rientra nella sfera d’azione dell’intelletto, trovando in esso la sua applicazione il lusso.
Agli occhi dell’illustre filosofo, professore e rettore universitario geniale e potentissimo, massimo difensore dell’ordine costituito, apparivano dunque stupidamente bizzarri gli atteggiamenti cinici, contrari alla morale e al sentire comune. Lui che in Napoleone che entrava a Jena vide lo Spirito del mondo a cavallo, che si sforzò di dare una cornice teoretica e in fondo una giustificazione morale alle invasioni del piccolo corso, chissà come leggeva disgustato uno degli episodi più celebri e significativi della lunghissima (90 anni, a quanto pare) vita del filosofo di Sinope, quello dell’incontro con Alessandro Magno, riferito tra gli altri da Plutarco. Del leggendario incontro tra i due, le cui numerose versioni sono facilmente reperibili online (ispirazione per innumerevoli opere letterarie e artistiche) colpisce ancora la decisa sfrontatezza di Diogene (Spostati dal sole), la fascinazione in cui si lascia trasportare il futuro re (Se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene), la semplicità della situazione (Diogene prende il sole, immobile, quando giunge Alessandro). Non c’è alcuno sforzo, alcuna tensione se non quella, forse attesa, della sovversione al potere. Il cinico è colui che vive senza difficoltà in armonia con la natura, in maniera ecologica, si direbbe oggi, con una tale convinzione e serenità che chiunque può restarne meravigliato (o se cinico nel senso più comune, sospettare). Un’etica così elementare che spiazza, allora come oggi, oggi forse più di allora. E che soprattutto richiama la coscienza attuale alla pratica cinica della parresia, del dire il vero. Del non nascondersi, dello stare al sole. Una pratica essenziale alla quale Michel Foucault, nel suo ultimo ciclo di lezioni al Collège de France nel 1984, dedicherà le sue parole definitive.
Ridotto all’osso
Chiamate il sole, che venga e mi consoli.
Strangolate i galli! Fate dormire il boia!
Il giorno ride cattivo dietro la mia finestra.
La prigione per morire è una scuola senza sale.
J.Genet Il condannato a morte
Foucault muore a Parigi il 25 Giugno del 1984, dopo aver contratto l’AIDS. Dall’inizio di quell’anno inizia a star male, a sentire quello che sente chi già sa che morirà senza dare un nome alla malattia, senza una diagnosi attendibile e certa. La sua urgenza ad ogni modo non è quella di sopravvivere, ma quella di finire il lavoro già cominciato; le ultime, luminose parole (che mai riuscirà a pronunciare) relative a un nuovo ciclo di lezioni saranno le seguenti:
Ciò su cui vorrei insistere, per finire, è questo: non vi è instaurazione della verità senza una posizione essenziale dell’alterità; la verità non è mai il medesimo; non può esserci verità che nella forma dell’altro mondo e della vita altra.
Da anni Foucault indagava il tema della verità, e come accadde per Wittgenstein, il quale si occupò fino all’ultimo di certezza, si congedò nel modo più autentico e radicale per un filosofo, facendo coincidere vita e pensiero occupandosi di ciò che si può considerare vero e reale. Da questo punto di vista, potremmo pensarli entrambi come autentici parresiasti cinici. Come abbiamo infatti visto poco sopra, cinico è innanzitutto uno stile di vita integerrimo, coerente, coraggioso. Quell’essere altro di cui parla Foucault, che alla pratica cinica fa corrispondere i formalismi esteriori, al dire altro, al dire il vero: a praticare la parresia. Al Collège de France il filosofo di Poitiers si occuperà di questo, contribuendo a cambiare la sbrigativa etichetta di Cenerentola delle scuole filosofiche da sempre affibbiata alla scuola di Diogene (che ricordiamo comunque stare, nella Scuola di Atene di Raffaello, in positio princeps, appena sotto Aristotele, al centro del quadro, come una ballerina di prima fila).
Foucault spende parole assolutamente preziose nei confronti dei cinici, parole che vale la pena ricordare:
Il cinico avrà il compito di localizzare l’ubicazione sia delle armate nemiche, sia dei punti di appoggio o degli aiuti che si potranno individuare e incontrare e dei quali potremo avvalerci nella nostra lotta. Per questo il cinico, inviato come esploratore, non potrà avere né riparo, né focolare e neppure patria. È l’uomo dell’erranza. È l’uomo della fuga in avanti dell’umanità.
Il primato dell’ethos, della ragion pratica, è tutto qui: nell’esercizio del proprio diritto di essere altro e di dire pubblicamente ciò che si pensa, come l’Antigone di Sofocle; di riferire ciò che si è visto prima degli altri, senza timore alcuno di essere bandito, cacciato, esiliato dalla comunità, ma anzi esaltando, rendendo reale (incarnando quasi in senso cristico) quella che è una delle caratteristiche fondanti della democrazia: la libertà di parola. Che non viene in realtà quasi mai esercitata, allora come oggi, se non da chi si allontana dalla comunità stessa, che tende a uniformare pensiero e coscienze, in una dinamica morbosa (molto hegeliana, molto pragmatica) di bastone e carota. Il parresiasta è un battitore libero, che non prospera nella zona comfort, come Diogene insegna. Egli vive in condizioni igieniche precarie, di accattonaggio e alla giornata, perché per guardare lontano non potrà uniformarsi ai desideri e alle esigenze comuni, dovrà fare del bios un’aleturgia, una manifestazione della verità.
Foucault naturalmente chiarisce come intendere i termini alethes e aletheia (vero e verità):
Questa nozione di verità intesa come il non dissimulato, il non mescolato, il diritto, l’immobile e l’incorruttibile, è applicabile nei suoi quattro significati oppure, in ognuno di loro, a dei modi di essere, di fare, di comportarsi, o a delle forme di azione. Questa nozione di verità viene inoltre applicata al logos stesso: al logos inteso non come enunciato, ma come una maniera di parlare.
Una maniera di parlare, dunque un linguaggio. Per questa ragione al cinismo delle origini Foucault riconnette, tra gli altri, gli artisti: per allenare diversamente lo sguardo sul mondo e poi agire, fare, creare un proprio linguaggio, si dovrà necessariamente abbandonare tutto ciò che è superfluo, accessoria sovrastruttura. Lo stile di vita cinico, con tutta evidenza antropologicamente fondato (dato che figure ciniche si ritrovano anche in altre culture, come quella dei sadhu indiani) dovrà quindi da una parte essere letto come espressione del sé, ma dall’altro come la più assoluta e scandalosa manifestazione del vero, dell’universale. La vita dell’artista diventerà così una manifestazione dell’arte stessa nella sua verità:
L’arte stessa deve stabilire con la realtà un rapporto che non è più di ornamento, di imitazione, ma di messa a nudo, di smascheramento, di ripulitura, di scavo, di riduzione violenta alla dimensione elementare dell’esistenza.
Un richiamo al teatro della crudeltà, per ricordare l’abissale Artaud.
O, se preferite, un’anticipazione della geniale serie di corti di Cinico TV, nella quale rivive la vis comica del sacrilego Diogene.
Il grande inquisitore
E tutti saranno felici, milioni e milioni di esseri, fuorché quel centinaio di migliaia che saranno alla loro guida. Perché solo noi, noi che siamo depositari del segreto, saremo infelici. Vi saranno miliardi di creature felici e centomila martiri che avranno preso su di se’ la maledizione della conoscenza del bene e del male.
Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Libro V
Negli stessi anni in cui Foucault parlava al College, in Germania un altro filosofo, Peter Sloterdijk, pubblicava un libro destinato a diventare un classico del pensiero contemporaneo, Critica della ragione cinica (1984). Le riflessioni di Sloterdijk partivano dalla differenziazione linguistica tedesca tra kynismus e zynismus, che alla luce di quanto finora detto, risulta in effetti assai opportuna: che cosa è rimasto dell’antico cinismo? Con il primo termine infatti si indica il cinismo delle origini, quello buono, per così dire, che lo stesso pensatore tedesco identifica come il modo più efficace per arginare quella che egli chiama la falsa coscienza illuministica tipica del zynismus contemporaneo. Sebbene le ragioni per cui rivolgersi all’antica scuola ellenica coincidano in parte con quelle individuate da Foucault, Sloterdijk giunge a conclusioni più sistematiche, sviluppando una fenomenologia dei tipi cinici al cui interno spiccano due figure su tutte, poste in relazione dialettica: Il grande inquisitore di Dostoevskij da un lato, Martin Heidegger, il primo campione di zynismus, dall’altro. Il primo, tutto teso a giustificare lo status quo, in modo inoppugnabile, granitico, feroce, e il secondo a farne, a detta di Sloterdijk, la tappa finale di un processo storico cominciato nel XIX secolo, quando cioè si sviluppa una prima forma della coscienza cinica moderna in cui si intrecciano il rigido cinismo dei mezzi e il non meno duro moralismo dei fini. La soluzione prospettata dal filosofo tedesco per arginare la ragione strumentale cinica, sarebbe dunque quella che lui chiama il kinismo dei fini: rinuncia al potere, rinuncia ad avere fini e obiettivi remoti, giacché l’esistenza sulla Terra non ha da cercare nulla al di fuori di sé.
L’essere è il destino della radura, scrive Heidegger nella Lettera sull’umanismo (1946). Solo il ritorno all’asprezza di questa radura (e non la morale, di qualsivoglia tipo) a detta di Sloterdijk potrebbe arginare il moderno zynismus, la falsa coscienza illuminata:
Ed ecco apparire una caratteristica figura concettuale heideggeriana: l’intensità insignificante. Al di là del bene e del male approdiamo a un lautes Schweigen, un interminabile rumoroso silenzio, una consapevolezza intensa, che non giudica e che solo si limita, vigilmente, a guardare ciò che accade.
Sono passati quasi quarant’anni da quel 1984, e molte cose dovevano accadere. Dovevano cadere muri, doveva arrivare la globalizzazione, l’antropocene, il turbocapitalismo, una nuova pandemia. Dovevano inasprirsi ulteriormente le diseguaglianze sociali e con esse la nostra esistenza, sempre più cinica e sempre più scettica: i complottisti, Qanon, i no Vax, i negazionisti del Covid19, riflettono perfettamente le ricadute epistemiche della deriva cinica, che traduce la desolazione del singolo, lasciato in balia della propria sfiducia nel prossimo, in proiezioni catastrofiche in cui è sempre più difficile distinguere il falso dal vero. Il sonno della ragion pratica, potremmo dire, genera mostri. E l’ideale heideggeriano proposto da Sloterdijk è forse ormai solo una bella utopia, o una roba per pochi, dato che è piuttosto evidente che non tutti abbiano la forza d’animo per vivere la propria esistenza di singoli serenamente, senza cercare nulla al di fuori di sé. Soprattutto se caduti in uno stato di clinica depressione, non più etichettabile come produttiva melanconia saturnina.
Nuovi cinici
Proprio così, così senza speranza e pieno di speranza il nostro popolo vede l’imperatore. Non sa quale imperatore stia regnando e anche sul nome della dinastia vi sono dei dubbi. A scuola si imparano per ordine molte cose di questo genere, ma l’incertezza generale è tanto grande che anche lo scolaro migliore non può sfuggirvi.
Franz Kafka, La costruzione della muraglia cinese
A occuparsi dei temi che vedono intrecciarsi capitalismo, cinismo e depressione, è stato in questi anni recenti Mark Fisher, docente del Department of Visual Cultures alla Goldsmiths University di Londra, suicidatosi il 17 Gennaio del 2017. Fisher è conosciuto in Italia soprattutto per il suo Realismo capitalista (NOT Nero editions) nel quale, con una capacità di analisi limpida e rara, descrive le condizioni in cui versa l’umanità post-tatcheriana governata dai mercati finanziari, e non solo partendo dalle numerose fonti a sua disposizione (Jameson, Bourdieu, Žižek, solo per citarne alcuni) ma diventando testimone, mettendo la sua esperienza di depresso e la sua stessa vita al centro, come testimonianza di ciò che è vero. Ancora una volta, il cinismo di Diogene di Sinope si palesa in tutta la sua potenza, ci guida con tutta la forza che era stato capace di rinvenirvi anche Foucault: Fisher, svestendo i panni del professore per indossare quelli di comunissimo uomo del Terzo millennio, malato, braccato, ma lucido, è il nuovo parresiasta. Perché, come scrive in Realismo capitalista (2009):
La libertà può essere conquistata solo nel momento in cui apprendiamo le cause reali delle nostre azioni, solo cioè quando siamo in grado di accantonare le “passioni tristi” che intossicano e ci ipnotizzano.
La lanterna di Fisher si è spenta troppo presto, schiacciata dal peso della sua depressione. Si è spenta senza assistere a un ulteriore inasprimento del regime capitalistico, senza assistere alla crisi pandemica, ma ha fatto in tempo ad avvisarci, a indicarci una strada che dobbiamo cercare di seguire e, cosa più importante, che non necessariamente dobbiamo percorrere da soli. Una strada lungo la quale potremmo addirittura trovare come compagni di viaggio proprio i più cinici e disincantati, malinconici inappagati dalla disumana richiesta di perfezione in ogni campo, categoria paradossale, di recente emersa nel tramonto dell’Occidente, tutto teso alla lotta e perennemente insoddisfatto della vittoria. Uno dei risultati della dittatura neoliberista, che uniforma tutto e cancella il pluralismo, costruendo nel frattempo il suo unico, grande Golem antagonista, l’unico possibile, l’umano mercificato, reificato, pietrificato:
Per come lo concepisco, il realismo capitalista non può restare confinato alle arti o ai meccanismi semipropagandistici della pubblicità. È più un’atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale ma anche il modo in cui vengono regolati il lavoro e l’educazione, e che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione.
Un Golem che dobbiamo trovare il modo di animare, facendolo rientrare in quello che Franco Berardi nel suo Futurabilità (2019), indica come la sfera del possibile.
Επιμέλεια/Epimeleia
E venne il giorno in cui il sole di nuovo apparì dietro le rocce, dardeggiando i suoi raggi per svelare la bellezza della valle così a lungo nascosta e priva di sole. Germogliavano i primi delicati fiori di primavera, la luce era brillante. Stavo in piedi accanto a un cespuglio dove si trovava la trappola, fra le ultime chiazze di neve quasi sciolta. Un piccolo pettirosso era caduto nella trappola di fil di ferro arrugginito, dalla molla troppo debole: era vivo e illeso. Liberandolo, lo tenni nell’incavo delle mani. Mi guardò come un bambino risentito e emise un trillo prolungato in direzione della mia faccia. Poi, saltando sul cespuglio più vicino, si voltò verso di me, ripete’ il suo rimprovero canoro e sparì in un arcobaleno di luce primaverile. Fu l’ultima volta che piazzai una trappola per uccelli.
C. Nivola, Memorie di Orani
Ai primi di marzo del 2021 nell’Upper West Side di NYC è successo un fatto interessante. Dal playground delle Wise Tower sono stati rimossi, in modo alquanto sgraziato, i diciotto cavallini pensati e scolpiti da Costantino Nivola negli anni Sessanta per animare i giardinetti sottostanti. I cavallini in questione presentavano tratti buffi, puerili, teneramente arcaici: zampe corte, testa tonda, forme morbide e organiche. Erano disposti casualmente sulla superficie della piazza, senza alcun ordine gerarchico, senza pose militaresche. Per ragioni ancora poco chiare nel momento in cui scrivo, i cavallini non potranno più allietare i frequentatori della piazza, cinicamente privati delle opere. Possiamo provare ad analizzare la cosa dal nostro punto di vista, magari un po’ azzardando, e far rientrare il caso in quella serie di studi atti a spiegare la relazione tra cinismo e deficit neurologici. Già Konrad Lorenz, nel 1943, individuò quelli che battezzò babyschema: una serie di caratteristiche formali comuni a tutti i cuccioli (nonché ai cavallini dello scultore di Orani), in grado di attivare i circuiti neuronali che accendono il naturale e sano impulso epimeletico, tenerezza e protezione. Agli studi di Lorenz si sono aggiunti in seguito gli scritti di James Serpell, Jean Pierre Digard, Hubert Montagner e Paul Shepard, che hanno evidenziato come la relazione uomo-animale (basata sul cosiddetto reciprocal mind reading) possa curare numerose patologie psichiatriche. Un essere umano perfettamente sano, in poche parole, è un essere capace di provare tenerezza, in particolare davanti a determinate forme; un essere che probabilmente non sarebbe in grado di abbattere 15 buffi cavallini (seppur di cemento, e la Gestaltpsycholgie spiegherebbe perché), ma ne farebbe un’ottima palestra per la produzione di endorfine.
A conti fatti, anche gli animali (o soprattutto loro) anche se raffigurati, scolpiti, evocati, possono mostrarci la misura delle nostre possibilità e dei nostri limiti. Come quel cagnaccio di Diogene, l’osceno parresiasta, il randagio della filosofia.
*Federica Scalise è un’architetto e illustratrice.
Nata in Calabria, laureata a Venezia, ora vive ad Atene.
I suoi collage digitali rappresentano ambienti utopici e surreali, spazi domestici e paesaggi mediterranei.
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