Illustrazioni di Ivano Talamo*
Anche chi è a digiuno di filosofia avrà sentito almeno una volta rammentare l’esortazione di Socrate conosci te stesso.
La teniamo presente perché, per il protagonista della storia che mi accingo a ripercorrere, questo detto risuona da subito come una condanna a morte.
Siamo nel libro terzo delle Metamorfosi di Ovidio (1).
Vittima di uno stupro, La ninfa Liriope mette al mondo un figlio e si preoccupa immediatamente delle sue sorti.
Si rivolge dunque al vate cieco Tiresia, per chiedergli se quel bimbo – che già appena nato ispirava amore – vivrà a lungo, e Tiresia risponde così: si se non noverit.
Che vale come un “sì, a patto che non conosca se stesso”.
Quel bambino si chiama Narciso.
Il nome è ben noto a tutti.
Nella società odierna, per congiunte ragioni, si è affermato un culto della propria persona talvolta spinto al limite del patologico che, grazie anche al contributo della psicoanalisi, definiamo oggi come narcisismo.
Il dibattito sul tema è ampio e interessante ma prima di partecipare con qualche riflessione, vorrei subito fare un passo indietro. A grandi linee non solo il nome di Narciso, ma anche la sua storia è conosciuta. E tuttavia il mito – greco o latino che sia – è un patrimonio troppo importante per essere ridotto a una favola stilizzata, di cui nella memoria collettiva si ricordino solo pochi tratti essenziali.
Per lungo tempo, nella storia della nostra civiltà, il Mythos ha contribuito ad aiutare l’uomo a dare risposte ai problemi di conoscenza che si poneva, alla sua esigenza di spiegare il mondo, di dare ad esso un ordine e un significato e, per questa via, a depositare un contenuto di verità.
Prima di parlare di narcisismo, allora, è proprio al mito e alla storia di Narciso che vorrei tornare. Per prendermi il tempo necessario per recuperare quei dettagli che nella storia sono preziosi e forse a noi meno noti.
La citata profezia di Tiresia (Narciso vivrà a lungo a patto che non conosca se stesso) apre dunque il racconto. Pesando come una spada di Damocle e come uno spoiler.
Ci viene poi detto che Narciso era un giovane che già all’età di sedici anni, in virtù della sua bellezza, “era l’oggetto del desiderio di molti ragazzi e di molte fanciulle”.
L’effetto di Narciso su chi lo circonda non conosce genere: è amato e desiderato da tutti e da tutte, ma ci viene anche detto subito che il ragazzo aveva in sé una tale superbia, “che nessuno poteva toccarlo”. (N.d.R: Ti pareva).
Come in molte storie, anche in questa c’è poi una protagonista femminile, con un nome altrettanto noto: Eco. Conoscere la sua vicenda, forse vi farà provare malinconia la prossima volta che urlerete in una grotta.
Ninfa dei boschi e soave chiacchierona, Eco era stata incaricata da Giove di intrattenere la moglie Giunone quando lui la tradiva in qualche scappatella amorosa. Scoperta nell’inganno, Eco era stata dunque vittima di una ritorsione di Giunone, colpita dalla dea in ciò che aveva di più caro: l’uso della parola. Ma non in assoluto, no. Giunone aveva invece condannato Eco a ripetere solo l’ultima delle parole che le venivano rivolte o che lei ascoltava.
Così, quando questa sventurata vede per la prima volta Narciso nei boschi e, come tutti, si accende di desiderio al punto di bruciare “come lo zolfo”, la sua natura non le permette di prendere l’iniziativa. Come in una nota app di incontri, in cui la mossa spetta solo a uno, mentre all’altro non resta che aspettare che arrivi un messaggio al quale rispondere, così Eco.
Per farsi notare si mette a seguire Narciso, in attesa che lui dica qualcosa. Quando questo accade, il dialogo che ne segue è monco in partenza.
– Chi c’è?, chiede Narciso.
– C’è, risponde Eco.
– Vieni!
– Vieni.
– Qui, incontriamoci.
– Incontriamoci.
Romano Luperini ha dedicato all’incontro un libro molto bello, che consiglio (2).
Me ne torna in mente la premessa. In una storia, dice, l’incontro è insieme un tema e una modalità dell’intreccio. Vale a dire che l’incontro è sia ciò di cui la storia parla e cui è affidato il suo messaggio ultimo, sia il motore dell’azione, ovvero l’evento a seguito del quale la storia stessa può svilupparsi.
Avviene anche qui.
Incontriamoci, dice Narciso. Incontriamoci, rimanda Eco, e da questo momento, la storia può svilupparsi e al tempo stesso, come vedremo, veicolarci i suoi messaggi.
Eco al cospetto di Narciso gli butta le braccia addosso e cerca di abbracciarlo. Narciso invece… fugge via.
Anzi, fugge via gridando: “toglimi le mani di dosso. Preferirei morire che darmi a te”.
“Darmi a te”, ripete Eco. Queste sono le sue ultime parole. Poi la ninfa, afflitta dal sentimento, va incontro al suo destino:
L’amore le restò confitto nel cuore, […] l’affanno non le permetteva di dormire, dimagriva, la pelle le si raggrinziva e tutto l’umore del suo corpo si disperdeva nell’aria, lasciando solo la voce e le ossa.
Per la ferita inflitta dall’amore per Narciso, Eco si consuma, e “da allora resta nascosta nelle selve senza che la si possa vedere allo scoperto. Ma tutti la sentono: è il suono quello che sopravvive in lei”.
Si potrebbero già avanzare delle riflessioni.
Sulla fragilità di Eco, ad esempio, e di quanto ci suoni tristemente familiare la dipendenza emotiva che matura nei confronti dell’altro, senza il quale lei addirittura non può esprimersi né essere riconosciuta. E anche sull’annientamento repentino del corpo come unica via di uscita al dramma di essere abbandonati…
Invece prima vediamo che fine fa Narciso.
Mentre Eco si dissolve nel dolore, lui, diremmo oggi, se la tira, senza guardare in faccia nessuno.
Continuava a prendersi gioco delle ninfe come aveva fatto con lei; ne aveva deluse alcune nate dal mare, altre sui monti. E prima la stessa sorte era toccata ai compagni di sesso maschile.
Un giorno, però, una vittima del suo amore leva le mani al cielo ed esprime un desiderio: “Possa egli [Narciso] amare con altrettanta intensità e non possedere l’amato!”.
Così implora e alle sue preghiera assentisce Nemesi.
Fa caldo.
Narciso, stanco per aver cacciato, trova ristoro presso un bosco incontaminato dove è una fonte con acqua talmente pura, da splendere come “argento liquido”. Lui si avvicina all’acqua per bere e mentre beve “vede il riflesso della sua bella persona”.
E ora immaginiamoci questa “bella persona”, per come ci viene descritta.
I suoi occhi? Due stelle. Il collo? Color dell’avorio.
L’incarnato puro e rosa, i capelli degni di Bacco e “perfino di Apollo”. Al cospetto di cotanta persona nell’acqua, Narciso
stupito e attratto da se stesso […] resta immobile senza battere ciglio come una statua di marmo. […] Ammira tutti quei particolari che rendono lui stesso degno di ammirazione. Senza saperlo si innamora di sé e si applaude; è contemporaneamente soggetto e oggetto del desiderio, accende il fuoco e ne è arso.
Così, finalmente eccitato, cerca di baciare l’acqua.
E nell’acqua affonda a vuoto le braccia per abbracciare l’immagine riflessa. E come pare corrisposto! Ogni volta che si avvicina, l’altro si avvicina, con la bocca anche lui protesa in un bacio ma… si frappone sempre l’acqua e Narciso non riesce ad afferrarsi. Così si strugge d’amore, e lo fa proprio come lo fanno tutti gli altri: si lamenta, piange, dubita, m’ama, non m’ama… Si fa costanti domande sulla natura dell’altro e in questo modo straziante e goffo, come è quello di tutti gli innamorati, alla fine si riconosce.
– Ma allora è chiaro! Quello che amo sono io stesso! Non mi inganna più la mia immagine! Brucio d‘amore per me stesso e sono io ad accendere il fuoco che mi divora.
Preda dell’impossibilità di possedersi, di staccarsi dal suo corpo per ricongiungersi all’amato, Narciso si colpisce ripetutamente il petto e, nella versione di Ovidio, alla fine morirà per le percosse che lui stesso si infligge, con il corpo una volta bellissimo e ora martoriato.
Così lo vede infine anche Eco e mentre lui dice “Addio”, lei ripete “Addio”. Nel luogo dove muore nascerà quindi un fiore. Quello con il nome che tutti conoscete.
Giunti alla fine, torniamo all’inizio.
Ricordiamoci della profezia di Tiresia e del detto socratico “conosci te stesso”.
Per Socrate scopo ultimo della filosofia è conoscere la verità, la quale però non è per lui il frutto di un’indagine naturalistica, ma interiore.
Fare filosofia, per Socrate significa dialogare con se stessi e con gli altri, perché la verità può giungere solo al termine di questo dialogo, usato come mezzo per esplorare dentro l’uomo. Ora, per Narciso, la conoscenza di se stesso passa invece tutta in superficie, scorre su quello specchio di acqua in cui si riflette.
Conoscersi è riconoscersi in un’immagine.
Nell’incipit delle Metamorfosi, Ovidio rende chiaro l’intento del suo libro: si tratta di un poema cosmogonico che narra “della prima origine del mondo e fino ai miei tempi”.
Ma i tempi cui la sua narrazione giunge, si potrebbe dire, sono anche i nostri.
Quando oggi parliamo di narcisismo, lo facciamo anche tenendo in mente il mondo in cui viviamo, dove la logica del “sono visto quindi sono” si è sempre più sostituita a quella del “cogito ergo sum”.
Il senso, il significato ultimo, si invera sempre di più nell’atto del guardare. Conoscere l’altro passa per il consumo dell’immagine dell’altro, e sempre meno attraverso forme di intimità emotiva.
Per questo i legami tra le persone ci appaiono di frequente sempre più deboli, e per questo siamo spesso destinati a non incontrarci mai veramente, cosa che accresce in noi il senso di solitudine e di vuoto interiore.
Nel mito di Narciso, quell’incontriamoci ripetuto da Eco è un suono vuoto, come un significante privo di significato, perché comunicazione e dialogo sono gli aspetti che fanno più difetto nella storia. Tra Narciso ed Eco non può esserci amore, benché di amore si parli.
Tutto rimane chiuso, serrato dentro i personaggi, che rappresentano due opposti: l’uno, Narciso, non conosce l’altro al di fuori di se stesso; l’altra, Eco, non conosce identità senza la presenza dell’altro. In ogni caso tra i due è assente la comunicazione e anche i loro corpi non si incontrano mai: Eco che cerca di abbracciare Narciso e quello fugge, Narciso che cerca di abbracciare se stesso e affonda nell’acqua. Entrambi sono sempre soli.
Anche questo schema della relazione non ci suona poi così nuovo. Pensiamo solo alla cultura degli appuntamenti tramite le app online. Le relazioni che si stabiliscono su Tinder sono nella maggior parte dei casi prive di intimità; spesso neppure i corpi arrivano ad incontrarsi e se lo fanno è in un sistema veloce, che rende intercambiabili i rapporti.
Predomina la gratificazione immediata, che accende le nostre fragilità narcisistiche, invece che contenerle. Giochiamo e ripetiamo gli stessi ruoli: da un lato come identità concentrate su noi stesse, incapaci di stabilire relazioni profonde ma bisognose piuttosto di trovare negli altri conferme a suon di match. Dall’altro come stereotipi codipendenti, che all’altro spesso si legano senza neppure sapere chi sia, sacrificando desideri più reali e con essi la propria “voce”.
La struttura delle nostre personalità sembra regredire talvolta a modelli arcaici, dove immaturità emotiva, solitudine e vuoto la fanno da padroni, mentre, rafforzata dal contesto in cui viviamo, la nostra realtà pare raffigurarsi come un mondo fatto a specchio, in cui tutti, come Narciso, cerchiamo di conoscere noi stessi e l’altro tramite il riflesso dell’immagine che ci torna indietro.
Non è un bene che si parli così tanto di narcisismo ai giorni odierni. Non è un bene che anche la scena politica sia così dominata da ingombranti figure narcisistiche che utilizzano talento, coraggio e forza, in se stesse virtù, solo per accentrare plauso e consenso, senza mettere invece al centro l’importanza del dialogo con l’altro.
D’altronde, se come abbiamo detto il mito ha svolto l’importante funzione di dare una risposta ai problemi di conoscenza che l’uomo si poneva, spiegando il mondo e cercando di dargli senso e ordine, a conclusione si deve ricordare che in quello di Narciso sopraggiunge una punizione, che decreta la morte del protagonista e l’epilogo della storia.
Nei miti l’intervento di Nemesi si deve sempre al fatto che l’uomo ha oltrepassato in qualcosa i suoi limiti, dimostrandosi ingrato alla sorte o malvagio.
È vero, Nemesi è un’invenzione, ma pur sempre creata dall’uomo per esprimere una condanna su alcuni modi di condurre la vita. Che dire allora?
Cerchiamo di non affogare nello stagno.
Cerchiamo di non spingere troppo la corda scatenando le sue ire.
*Ivano Talamo è un artista e illustratore italiano che vive a Zurigo.
Usa l’illustrazione e il fumetto per osservare e interpretare la realtà e ama raccontare le sue storie attraverso il filtro delle scienze sociali e naturali.
Quando disegna sogna spesso il mare.
Sito
Instagram
Facebook
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin