Avevo vent’anni e redigevo articoli per una rivista online che ora non esiste più. Scrivevo di Neukölln, delle Kneipen e di ciò che mi colpiva a Berlino, la città in cui vivevo da un anno.
Finito il liceo mi ero trasferita nella capitale e dopo un corso intensivo di tedesco — molto intensivo, intensivo lungo diciotto mesi— potevo finalmente iscrivermi all’università. “Vorrei scrivere e fare la giornalista, mi viene facile imparare le lingue” feci come premessa alla direttrice della rivista chiedendole un consiglio sulla facoltà da scegliere prima dell’immatricolazione. “Allora scegli una lingua dei BRICS e continua a scrivere,” mi rispose.
Era il periodo in cui Brasile, Russia, India, China e Sudafrica stavano spingendo per diventare nuove potenze economiche. Dopo l’esperienza con il tedesco non avevo voglia di cimentarmi con una lingua ancora più difficile, scartai il russo per via delle sette declinazioni, scartai il cinese per gli ideogrammi e la pronuncia tonale, scartai l’India e il Sudafrica perché l’inglese lo sapevo già e Afrikaans e Hindi mi sembravano troppo “di nicchia”. Dunque andai in biblioteca e presi in prestito un libro per imparare il portoghese, non tanto per impararlo davvero, ma per capire di che lingua si trattasse, perché del portoghese a vent’anni, non avevo la minima idea. Lessi le prime pagine e mi sembrò facile, facilmente comprensibile. Poi inserii il CD per ascoltarlo e magia. Come quando senti la risata di un bambino e non puoi non ridere anche tu. Fu un contagio, una possessione, un colpo di fulmine che dura da oltre dieci anni.
L’iter con la lingua poi è stato abbastanza classico: la scelsi da studiare all’università, feci l’erasmus a Lisbona e lessi Clarice Lispector in lingua originale. Fu già il secondo racconto della raccolta “Legami familiari” a colpirmi, “Amore”, il flusso di coscienza di una donna che vede un cieco alla fermata dell’autobus. All’epoca ciò che scrivevo e non confluiva negli articoli online era un grumo di teenage angst, a volte sotto forma di episodi, a volte sotto forma di poesie, a volte informe. Ricordo di aver pensato, quando lessi quel racconto, che la scrittrice riusciva a rendere la sua angoscia esistenziale leggibile e comprensibile anche per gli altri: “allora si può fare!” pensai. Io, che ho spesso avuto bisogno di darmi (o farmi dare) il permesso per tentare certe cose, scrissi una storia, un po’ cercando di imitare Lispector, un po’ cercando di sfogare la connaturata frustrazione di non riuscire a esprimere esteriormente il mio di dentro. La feci leggere al suo protagonista. Lo vidi arrossire, guardarmi confuso, lo sentii darmi della tremenda, domandarmi come facessi a saperlo, osservavo la storia che avevo scritto procurargli agitazione mentre la leggeva, sdraiato sul letto, nel sottotetto dove abitavamo. A lettura finita mi disse greve che avrei dovuto provarci sul serio, a fare la scrittrice. Fu lui poi a introdurmi alla musica brasiliana facendomi ascoltare le poesie di Paulo Cesar Pinheiro musicate da Baden Powell, Adoniran Barbosa e Elis Regina, fu lui a dirmi che Tom Zé era il più grande.
Il periodo lisboeta è stato per me un punto di svolta sotto innumerevoli aspetti, ma questi due, la scrittura e la musica, hanno una connessione speciale tra loro. Più avanti nel tempo sono incappata in una citazione di Francis Scott Fitzgerald che mi ossessiona da allora: the test of a first-rate intelligence is the ability to hold two opposed ideas in the mind at the same time, and still retain the ability to function (1). Posto che mi paia un punto imprescindibile per qualsiasi tipo di scrittura, non è tanto la prova di un’intelligenza di prim’ordine a interessarmi quanto l’abilità di una mente di convivere con due idee opposte e riuscire comunque a funzionare. La questione per me si sviluppa in maniera concreta nella mia passione per la musica brasiliana. I miei generi musicali di elezione non si avvicinano a niente di allegro, quelli con cui sono cresciuta e che hanno accompagnato più fasi della mia vita —e tutt’ora mi accompagnano— non hanno niente di confortante, non si avvicinano minimamente al “todo beleza” con cui si associano i ritmi del paese verde-oro. Post-Rock, Punk, Hardcore, Industrial, Einstürzende Neubauten, Swans, Nine Inch Nails, Coil, Melvins, Battles, Tortoise, Placebo, PJ Harvey, Brainiac, Neon Blonde —per dare con i nomi suoni più concreti a queste etichette vaghe — hanno tutte sonorità cupe e spigolose, molti bassi, percussioni incalzanti, urla, suoni metallici, a volte strumenti non canonici, voci viscerali. Anche quando ho aggiunto la sofisticazione della musica elettronica era sempre della fazione sperimentale e cavernosa. Musica gioiosa mai.
Ora: è impossibile fare un discorso esaustivo sulla musica brasiliana perché il Brasile ospita una varietà sonora che è qualcosa al di fuori della mia portata, ma vorrei portarvi con me in un viaggio di scoperta musicale e oltre. In questa esplorazione ci accompagnerà Caetano Veloso con “Verità tropicale. Musica e rivoluzione nel mio Brasile” (SUR) che come lui stesso la definisce è: “la testimonianza di una “pop star intellettuale” di un paese del Terzo mondo”, ma soprattutto Pietro Scaramuzzo con la biografia “Tom Zé. L’ultimo tropicalista” (ADD Editore), senza cui la mia conoscenza lacunosa della storia della musica brasiliana sarebbe rimasta tale.
Iniziamo subito con le dovute chiarificazioni, in questa sede ci occuperemo solo del genere-movimento che prende il nome di “tropicalismo”, il più noto fuori dai confini del suo luogo di nascita e non a caso probabilmente il più facile da capire per un gusto europeo e nord americano. Ma lascio che siano gli autori sopra-citati a darvi le coordinate di partenza a cominciare dal grande contenitore MPB per poi passare alla corrente tropicalista.
La música popolar brasileira, o MPB, è una nuova categoria del frammentato universo musicale brasiliano. In un Paese grande quasi quanto l’Europa e, soprattutto, terra di conquista da parte di coloni europei, non solo portoghesi, il panorama musicale riflette tante differenza culturali. Così da nord a sud è possibile imbattersi in un incredibile ventaglio di sonorità: da quelle indigene del carimbó, una danza tipica dello stato settentrionale di Pará, a quelle nord europee dello xote, alle africane del maracatu e del lundo. E poi lo choro, il samba, la musica caipira, il forró. Le canzoni d MPB, invece, contengono elementi di samba, ma non sono samba, nella stessa misura in cui molto spesso imitano la cadenza della bossa nova, senza potersi definire tale, avendo inserito elementi strumentali e compositivi che rimandano al rock e al pop. (2)
Dopo la rivoluzione della bossa nova, e in gran parte a causa sua, è sorto questo movimento che si proponeva di formulare un’equazione tra le tensioni del Brasile-Universo Parallelo e il paese periferico rispetto all’Impero americano. Paese che si trovava sotto una dittatura militare ritenuta in parte frutto delle manovre anticomuniste della CIA. Un movimento che si proponeva di superare il conflitto tra la consapevolezza del potenziale liberatorio della cultura di massa e del modello culturale proposto dagli Stati Uniti — riconoscendo i sintomi di salute sociale anche nelle dimostrazioni più ingenue di attrazione per questo potenziale — e l’orrore dell’umiliazione rappresentata dalla resa agli interessi particolaristici di gruppi dominanti, all’interno o nei rapporti internazionali. Era anche un tentativo di affrontare la —mera?— coincidenza, in questo paese tropicale, dell’onda della controcultura con quella dei regimi autoritari. La musica popolare si pone come catalizzatore delle energie profuse nella creazione di questo movimento, riaffermando così la forza di quella tradizione da cui è nata la bossa nova: la nostra musica continua a essere, di fatto, per noi come per gli stranieri, il suono del Brasile della scoperta sognata. […] Allo stesso tempo, questa musica è il più potente veicolo di diffusione della lingua portoghese che, attraverso la magia sonora della canzone brasiliana, conquista sempre nuovi appassionati in tutto il mondo. Il movimento che negli anni Sessanta ha ribaltato la tradizione della musica popolare brasiliana (e la sua più perfetta traduzione, la bossa nova) è stato definito ‘tropicalismo.’ (3)
Il nome del movimento si deve a un’intuizione di Luís Carlos Barreto, un direttore della fotografia che si trovava in compagnia di Veloso quando fece ascoltare i brani che stava incidendo, e per uno di questi suggerì il titolo tropicália, mutuato dall’opera di un artista visivo Hélio Oiticica che aveva costruito un labirinto a spirale con pareti di legno, pavimento di sabbia, piante tropicali e, alla fine, un televisore acceso. Vivamente supportato da Glauber Rocha, regista di Terra em Transe, film feticcio dei tropicalisti e pietra miliare della cinematografia brasiliana e del cinema novo, il nuovo conio venne in seguito consacrato tramite un articolo della stampa ad opera di Nelson Motta che vi aggiunse il suffisso -ismo. Nel 1967 oltre a Terra em Transe, uscì, ad altre latitudini, Stg. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles queste sono, come scrive Scaramuzzo, “le diverse declinazioni d’arte che pulsano alle tempie di quella gioventù che inizia a sentire la necessità di universalizzare il linguaggio musicale brasiliano. Lo faranno attraverso l’incorporamento, o meglio la cannibalizzazione, come suggeriva già Oswald de Andrade nel suo Manifesto Antropofago del 1928 […].” Nel Manifesto di de Andrade riecheggiava infatti il verso “Tupi or not Tupi, that is the question” —dove Tupi è il nome della prima tribù autoctona brasiliana scacciata dai conquistatori— per poi incitare a non fuggire la novità quanto più a divorare la cultura altrui e assimilarne i tratti salienti. Insieme a Oswald de Andrade, un altro poeta del passato che fu fonte di ispirazione per i Tropiscalisti era Carlos Drummond de Andrade, padre del modernismo brasiliano, mentre tra i contemporanei a cui facevano riferimento c’erano Torquato Neto, paroliere del gruppo, e José Agrippino che, pur non interessandosi direttamente al movimento, con il suo romanzo Pànamerica aveva colpito i giovani musicisti.
È da questa mistura fina che nel 1968 esce l’album che presentò al mondo il nuovo movimento musicale a cui collaborarono Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa, Nara Leão, Tom Zé, Os Mutantes e Rogério Duprat agli arrangiamenti: Tropicália ou Panis et Circensis.
A seguito del disco che porta in auge il gruppo baiano nella capitale paulista ( Veloso, Gil, Costa e Zé sono tutti originari dello stato di Bahia nel nord del Brasile, ma abitavano tutti a São Paulo) succedono varie cose: Tom Zé pubblica il suo primo album, Grande Liquidação, con cui non otterrà lo stesso successo avuto dai colleghi, ma lancerà la sua carriera. Il 13 dicembre del 1968 viene istituita la censura preventiva per musica, teatro, cinema e televisione, vengono sospesi i diritti civili dei cittadini brasiliani e abolita la garanzia di habeas corpus (il diritto di conoscere il motivo per cui si viene arrestati). Da quel momento l’escalation è breve. Il 23 dicembre Veloso canta Boas Festas con una pistola puntata alla testa, quattro giorni più tardi viene arrestato insieme a Gilberto Gil e tenuto in carcere per quasi due mesi.
E qui la storia del tropicalismo, per quanto mi riguarda, si biforca: da una parte c’é quella più propriamente legata alla politica e a figure di spicco come Veloso e Gil esiliati dal regime; dall’altra c’è quella intrisa di sperimentalismo, oblio e riscoperta che caratterizza il percorso artistico di Tom Zé che è anche quella che si è imposta nella mia formazione e dunque quella che andrò a trattare.
A guardare le vecchie foto Tom Zé sembra uno scappato di casa, basso, magrolino, con la faccia di chi non riesce a dire mai niente di serio. Originario di un paesino dell’entroterra, Irarà, tra i tropicalisti baiani era l’unico del sertão (‘deserto’ per indicare la regione semi-desertica del nord est del paese tra la costa e la foresta amazzonica) al contrario degli altri che invece venivano da Salvador e dalla zona costiera circostante. Fu Veloso, non senza sforzo, a convincerlo a trasferirsi a São Paulo. Ma malgrado aspetto e provenienza Zé non era uno sprovveduto, anzi, agli inizi degli anni ’60 era stato ammesso con borsa di studio alla Escola de Música da Universidade Federal da Bahia, diretta dal compositore tedesco Hans-Joachim Koellreutter che, come scrive Scaramuzzo, contribuì a introdurre in Brasile le teorie sulla dodecafonia di Arnold Schönberg e le opere di John Cage.
Per capire appieno l’antropofagismo brasiliano a cui istiga Oswald de Andrade e il cannibalismo dei tropicalisti, così come per farsi un’idea del portato innovativo della musica di Zé, non c’é esempio migliore del brano Jimi Renda-se e della spiegazione che fornisce Pietro Scaramuzzo nella biografia dell’artista.
Al tipico ricorso alle frequenze acute del cavaquinho, del tamborim o del bandolin, Tom Zé contrappone il riff sincopato della chitarra suonato interamente sulle corde gravi, dando sostegno a un mantra costituito in parte da una lingua inventata che scimmiotta l’inglese.
Guta me look mi look love me
Tac sutaque destaque tac she
Tique butique qui tique te gamou
Toque-se rock se rock rock me
La tecnica poetica è ispirata a un vecchio cantante di Irará, Zé Vermelho che, senza alcuna nozione di inglese, cantava riproducendo i suoni delle canzoni trasmesse alla radio. Il lavoro di Tom Zè, però, è più minuzioso. La lingua inventata viene costruita sulla base di assonanze con i nomi di alcuni personaggi che direttamente o indirettamente hanno contribuito all’esperienza tropicalista. Il risultato è incredibile a partire dal titolo: Jimi Renda-se, con la pronuncia del portoghese brasiliano, suona quasi come Jimi Hendrix. Secondo lo stesso principio, nella strofa principale sono citati in sequenza Bob Dylan, Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa, Billie Holiday e Janis Joplin.
Bob Dica, diga,
Jimi renda-se!
Cai cigano, cai, camóni bói
Jarrangil century fox
Galve me a cigarette
Billy Halley Roleiflex
Jâni chope chope chope chope
Dal primo album del 1968 fino al 1973 la produzione di Tom Zé é inarrestabile, fa uscire quattro dischi e in ognuno di essi porta avanti la sua personale sperimentazione. Nel terzo album, intitolato Tom Zé e uscito nel 1972, l’autore si propone di rivisitare i generi più folcloristici che fanno parte della tradizione musicale del paese. A Babá riprende la poesia provenzale che ha influenzato la cultura popolare nordestina. Il brano Frevo si rifà al genere eponimo originario dello stato del Pernambuco. Menina amanhã de manhã fa sua la lezione della poesia concreta (contemporanei e amici dei tropicalisti i maggiori esponenti della poesia concreta brasiliana sono: Augusto de Campos, Haroldo de Campos e Decio Pignatari) con un testo che perde sillabe ad ogni giro di accordi e finisce in un gorgheggio orgasmico. L’inventiva dei testi non è solo un tratto distintivo e imprescindibile della produzione di Tom Zé, ma anche una condizione necessaria per sfuggire alle cesoie della censura. Ci informa infatti Scaramuzzo che non è passato il “belo Antônio” del brano A briga do edifício Itália com o Hotel Hilton in quanto riferimento all’universo omosessuale e al film di Bolognini con Mastroianni, ma in precedenza era riuscito a contrabbandare la descrizione di un atto d’amore scritto con i nomi delle note pronunciate tutte d’un fiato.
Nel 1973 esce Todos Os Olhos, secondo Zé il suo capolavoro. La copertina è già un’opera d’arte: la foto ravvicinata di un ano con al centro una biglia, l’idea è del poeta concreto Decio Pignatari e sebbene non trovi l’approvazione di Tom sarà approvata con entusiasmo da tutte le altre figure coinvolte nella realizzazione. Nonostante le grandi aspettative il disco non scatena alcuna reazione, nessuna. È l’inizio della caduta nell’oblio. A posteriori compositori, critici musicali e intellettuali attribuiranno le colpe della marginalizzazione di Zé a due motivi principali: la sua continua ricerca verso lo sperimentalismo e conseguente radicalizzazione, il mancato posizionamento nel mercato discografico e una sorta di isolamento dagli altri membri del movimento tropicalista in seguito all’esilio di Gil e Veloso.
Tre anni più tardi, dopo un periodo senza quasi concerti e apparizioni pubbliche, Zé fa uscire Estudando o samba che come suggerisce il titolo è una sperimentazione sul genere più conosciuto e amato del Brasile. Ancora una volta Scaramuzzo descrive con grande efficacia il contenuto dell’album:
In Mã, ad esempio, su un tappeto persuasivo standard, si appoggiano perentori alcuni riff di chitarra elettrica. I bandolins, strumenti classici della MPB, sono accordati con un intervallo di mezzo tono l’uno dall’altro per proiettarli in un ostinato dissonante indigesto ai puristi del genere. La rilettura di un grande classico come A Felicidade di Tom Jobim e Vinícius de Moraes genera una sofisticata poliritmia in sei ottavi, con una chitarra a battere sul secondo tempo di ogni terzina. Ma è Toc il brano destinato a far saltare le cervella ai sambisti conservativi. Una chitarra dodici corde mantiene un ostinato per l’intera durata del brano. Su questo entrano le repentine incursioni dei fiati, alcune voci registrate, dei contrappunti di macchina da scrivere il frastuono finale del frullatore dietro al quale la composizione si spegna. A Tom Zé Toc piace davvero. […] Anni più tardi arriverà fino alle orecchie di Koellreutter, che decreterà: “Non mi ha fatto dormire. Il brano offre un nuovo concetto di tempo che io definisco quadrimensionale.”
Il lato B dell’album è meno sperimentale, ma comunque, nell’unica recensione dedicatagli, viene bollato con sovrífel (sopportabile).
La copertina non è meno inusuale del contenuto e decreterà la fortuita riscoperta dell’autore. È bianca, il titolo ha una font con contorni neri e vuota dentro, nella parte più bassa della copertina ci sono delle corde di chitarra intrecciate a del filo spinato. Sarà proprio questo aspetto austero, rispetto agli standard grafici brasiliani, a incuriosire David Byrne che acquisterà l’album di Zé durante un suo viaggio in Brasile. Ma prima di tornare in auge, quantomeno fuori dai confini nazionali, Tom Zé passerà un periodo di angoscia e depressione da cui uscirà con l’introduzione di due nuove pratiche nella sua vita: il giardinaggio e l’invenzione di apparecchiatura sonora.
In quello stesso periodo aveva trovato lavoro come compositore di jingle pubblicitari grazie a Washington Olivetto, giovane genio della pubblicità brasiliana, e gli viene chiesto di comporre le musiche per una trasmissione che intervista gli immigrati del sertão nella metropoli paulista. Zé raccoglie poi le tracce usate per il programma televisivo in un nuovo album Correio da Estação do Bras che riceve nuovamente l’attenzione della critica, ricominciano i concerti e lì ha l’occasione per portare sul palco i suoi nuovi strumenti, gli instronzementos.
Negli anni ’80 Zé costruisce gli enceroscópios, (ricavati dalle lucidatrici), lo sapateiro Laerte (una smerigliatrice che fa vibrare gli agogô) il buzinório (una struttura di plastica sovrastata da nove clacson) e con loro la sua ricerca si fa sempre più estrema, tanto che, mettendo vari dischi a diverse velocità di riproduzione inizia a interessarsi alle frequenze, nello specifico alle frequenze alte, che superano i quattromila herz e che nessuno nella musica brasiliana sembra usare. A partire da quell’intuizione, Tom Zé e l’amico e tecnico del suono Roberto Maia costruiscono l’herzé, una specie di controller da cui può gestire gli instronzementos e far partire tracce a diverse frequenze.
A seguito di questo periodo nasce Nave Maria l’album che forse raggiunge il picco di sperimentalismo più alto nella produzione di Tom Zé, ma anche lui passa quasi inosservato.
Non si sente più parlare di Tom Zé, né sui media, né negli ambienti legati alla musica, i giorni in cui vinceva festival di canzoni e si esibiva per il paese sono orami lontani. Questo finché, nel 1988, viene a sapere da un articolo di giornale che David Byrne lo sta cercando. Di quel famoso disco dalla copertina inconsueta che aveva attirato la sua attenzione l’ex Talking Heads dice che lo aveva colpito tutto: “Mi aspettavo di ascoltare samba e invece ho trovato l’avanguardia di New York, di Parigi, di Berlino. Qualcuno a São Paulo stava facendo una musica di ricerca maledettamente bene.” In quegli anni Byrne aveva appena fondato la Luaka Bop Records, l’etichetta con cui avrebbe prodotto e distribuito negli U.S.A. il meglio della world music, tra cui, naturalmente, anche Tom Zé.
Ed è qui che per me i pezzi cominciano a mettersi insieme. I Talking Heads, sebbene non siano mai rientrati tra i miei gruppi preferiti, sono stati un modello per molti di quelli che invece ho amato durante l’adolescenza; la musica che tutt’ora ascolto è una evoluzione del gusto ancora acerbo che stavo sviluppando in quegli anni, questo per dire che le mie preferenze, in quindici anni, non sono cambiate radicalmente, ma si sono per un verso specializzate, se così si può dire, e per l’altro aperte a generi e tipologie che da più giovane non contemplavo. L’apertura, che prima o poi sarebbe arrivata comunque immagino, è stata anticipata dall’incontro con la musica brasiliana incarnata dalla figura di Tom Zé, perfetto anello di congiunzione della scissione nord-sud che accompagna ogni aspetto della mia vita.
Nel 1990 Tom Zé esordisce negli Stati Uniti e una recensione del New York Times suggella il suo lancio internazionale:
Suonare la musica che proveniva dalla radici del samba era il sogno della bossa nova, e Tom Zé l’ha inseguito con più passione e precisione di ogni suo compagno cospiratore del tropicalismo. Ma dove la bossa nova ha dispensato sospiri e sussurri, il più bel lavoro di Tom Zé degli ultimi due decenni —compilato dal sempre più acuto etnomusicologo David Byrne — piazza ronzii, urla e calcolata eccentricità nel suo meticoloso equilibrio tra dissonante e lirico. Le chitarre solleticano e tagliano, i clacson ansimano e minacciano, mentre i vecchi standard di bossa sono sincopati fino al collasso. E al pubblico americano non è mai stato offerto uno spettacolo più entusiasmante dell’intelligenza vigorosa che si nasconde sotto la bella superficie del pop brasiliano. (4)
Byrne e Zé nel 1992 collaborano al loro secondo album insieme, The Hips of Tradition, avvalendosi della partecipazione di Arto Lindsay, compositore inglese cresciuto nel Pernambuco, e Roberto Lazzarine. Seguirà un altro album registrato tra São Paulo e New York, Com Difeito de Fabricação, di cui alcuni brani saranno remixati poi, tra gli altri, da Amon Tobin e Sean Lennon per l’album Postmodern Platos del 1999.
Siamo entrati nel nuovo millennio quando Tom Zé, sessantacinquenne, comincia una tournée americana con i Tortoise, di cui dice: “Sono incredibili. Non si limitano a comporre canzoni che seguono la classica struttura A-B-A, ma divagano come se stessero fluttuando tra le nuvole. È una specie di ricerca musicale basata su una matematica capace di capovolgere le regole dell’algebra. E poi ci sono molte piccole cose, piccoli colpi di scena ritmici che ti fanno pensare: ma come hanno fatto?” (5)
Il mio compositore brasiliano preferito è un fan del mio gruppo post rock preferito, il puzzle è completo.
Nel 2001 si conclude il tour con la band di Chicago al Barbican Centre di Londra, qui termina anche la collaborazione di Tom Zé con David Byrne e il mio viaggio con voi, che spero continuate in mia assenza perché le declinazioni della musica brasiliana sono infinite e non saprete mai dove vi porteranno.
Note:
(1) Il banco di prova di un’intelligenza di prim’ordine è la capacità di tenere due idee opposte in mente nello stesso tempo e, insieme, di conservare la capacità di funzionare (L’età del Jazz e altri scritti. Il Saggiatore (1966) Milano.)
(2) Scaramuzzo, Pietro, Tom Zé. L’ultimo tropicalista. Add editore (2019) Torino
(3) Veloso, Caetano, Verità tropicale. Musica e rivoluzione nel mio Brasile. SUR (2019) Roma
(4) Scaramuzzo, Pietro, Tom Zé. L’ultimo tropicalista. Add editore (2019) Torino
(5) Scaramuzzo, Pietro, Tom Zé. L’ultimo tropicalista. Add editore (2019) Torino
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