La prima volta che incontro il maestro Lino Tagliapietra un freddo sole di fine novembre si riflette sulla laguna. Sono nato e cresciuto nel centro storico di Venezia ma, pur essendo Murano a dieci minuti di vaporetto, ci sono stato davvero poche volte. Questo mi regala un’occasione unica: vedere un’altra, piccola Venezia, diversa da quella che conosco, con nuove calli in cui perdermi e nuovi ponti da attraversare. Sono le 9.30, l’isola appare ancora dormiente. Ci sono pochissime persone in giro, le botteghe sono quasi tutte chiuse, un ristoratore sistema le sedie e i tavoli, pur sapendo che probabilmente resteranno vuoti. Qui questa situazione dura da oltre un anno perché, prima del Covid-19, l’acqua alta record dello scorso 12 novembre aveva già portato pesanti danni materiali e d’immagine, con un conseguente calo degli arrivi turistici. La pandemia, poi, ha assestato un altro colpo durissimo.
Lascio la fondamenta (una strada che costeggia il canale, nella toponomastica veneziana) principale e taglio dentro il cuore dell’isola per raggiungere lo studio/galleria del maestro Tagliapietra, situato su un’altra fondamenta affacciata a Sud-Ovest della laguna. Osservando i panni stesi, i fili tirati fra una casa l’altra, avverto un senso di desolazione, il silenzio di un luogo dal quale sembra gli abitanti siano scappati via all’improvviso. Poi vengo investito da un odore forte, simile a quello dei pennarelli indelebili, che annusi pur sapendo che sono tossici. Proviene da una fornace accesa e mi ricorda che qui la gente ancora ci vive e ci lavora, che Murano non sta morendo.
La galleria in cui sono esposte alcune delle opere del maestro una volta era una falegnameria, e sul marciapiede nel cortile c’era un binario del treno. Serviva per smistare nelle varie fornaci i legni che arrivavano, trasportati in laguna su gigantesche chiatte, dal Cadore, sulle Dolomiti bellunesi; rigorosamente di salice e di ontano, per alimentare i forni di fusione della miscela, rifusione e ricottura. Oggi è uno spazio moderno ed elegante, con il tocco rustico dei mattoni a vista, in cui i raggi del sole filtrano in abbondanza, per creare giochi di luce con le variopinte opere di vetro di Tagliapietra. Ad accogliermi trovo Silvano, il figlio di Lino. Ho il privilegio di vedere la galleria con chi l’ha allestita: da quando hanno acquisito questo spazio, Silvano ha iniziato prima a occuparsi dei rapporti con i collezionisti, per poi diventare curatore a tempo pieno delle esposizioni di suo padre. Anche sua sorella, Marina, ha seguito Lino per anni, aiutandolo nella parte amministrativa. Il vetro ha sempre fatto parte delle loro vite, anche se da piccoli loro due e Bruno, l’altro figlio di Lino, lo vedevano più sui cataloghi, i libri e le riviste che portava a casa il papà, che non direttamente in fornace, dove raramente entravano. “L’unica volta che mio padre mi ha portato in fornace è stato quando, da ragazzino, mi hanno beccato a Venezia una mattina in cui dovevo essere a scuola – mi racconta Silvano – nostro padre ha sempre voluto che studiassimo. Durante il giorno lo vedevamo poco, si alzava alle 4 di mattina per andare a lavorare, e tornava la sera. Ci ha trasmesso la sua infinita passione per il vetro e per l’arte attraverso i libri e i viaggi, portandoci a visitare tantissimi musei”.
La mancanza di una formazione scolastica è uno dei rimpianti del maestro Tagliapietra, che ha abbandonato presto gli studi per entrare in fornace ad appena undici anni: “Una mia scelta, che dopo avrei rimpianto, ma era ormai troppo tardi per tornare a scuola”, spiega Lino, 86 anni, seduto su una poltrona della sua galleria, mentre i suoi occhi azzurri scrutano nel vuoto, quasi come se si stesse rivedendo da bambino. Un giorno, mentre giocava con gli amici, la palla è finita davanti alla porta aperta di una fornace, dalla quale ha intravisto, tra le fiamme, degli uomini che lavoravano a un gigantesco vaso, e ne è rimasto rapito. All’insaputa di sua madre, va a bussare alla porta della vetreria Toso, dove fanno bicchieri, ed entra in fornace. I primi impieghi sono umili. Pulire le canne sporche, cambiare l’acqua per il maestro, con ritmi di lavoro estenuanti: “Dalle 7 alle 17, anche il sabato, mentre la domenica si rimaneva fino alle 13. I primi tempi alle 17 andavo in un’altra fabbrica e stavo fino alle 23, mentre alle 20 mia mamma mi portava la cena. Era tosta per un bambino, spesso andavo a letto vestito”. Nonostante la stanchezza, Lino la notte trova il tempo di leggere, perché se la scuola non gli piace, i romanzi lo attirano. “Divoravo interi libri in una notte: Jack London, gli scrittori di avventura americani, però oggi mi rendo conto di quanto sia importante la cultura di base data dalla scuola”. In fornace, Lino impara in fretta, tanto da diventare primo maestro poco dopo i vent’anni, nella vetreria Galliano.
Lino è un uomo buono e ancora brillante, contento di quanto ha costruito nella sua vita familiare e lavorativa, mai stanco di trovare nuovi stimoli. Una star internazionale del vetro, con l’umiltà e l’etica dell’artigiano legato alle sue origini, la cui vita e carriera offrono un’occasione unica di riflessione sul presente e sul futuro dell’arte vetraria muranese e della stessa Murano.
Lo scrittore e naturalista romano Plinio il Vecchio, vissuto nel primo secolo dopo Cristo, nella sua Naturalis historia fa risalire la nascita del vetro al 5.000 avanti Cristo. Secondo la leggenda, la scoperta avviene per caso, quando dei mercanti fenici accendono un falò sulle rive di un fiume e vi appoggiano sopra dei blocchi di natron; questa soda minerale, a contatto con la sabbia e a causa del calore del fuoco, avrebbe, nel racconto di Plinio, creato il vetro fuso. La prima testimonianza della lavorazione del vetro a Murano risale invece a oltre mille anni fa. In un documento del 982, un certo Domenico viene definito fiolario, da fiole, delle bottiglie di vetro soffiato dal collo lungo. Per apprendere notizie sull’arte e la storia del vetro muranese di quei tempi, sono molto utili i documenti legali, perché le liti e le zuffe all’interno delle fornaci erano all’ordine del giorno. Una costante anche ai tempi dell’infanzia di Lino, quando a Murano 7-8mila persone lavoravano il vetro, e c’erano fabbriche da oltre mille operai: “Non so se fosse per il caldo, ma i nervi saltavano facilmente e si litigava spesso. Altre volte stavamo in silenzio, ma c’erano dei momenti in cui cantavamo tutti insieme”. Soprattutto, si lavorava senza sosta, e l’unica occasione per padroneggiare le varie tecniche del vetro era osservare i maestri all’opera e cercare di carpire i loro segreti.
Nel 1295 il Maggior consiglio, il massimo organo politico veneziano, stabilisce che chiunque vada a lavorare il vetro fuori da Murano debba essere bandito dal mestiere. L’arte del vetro muranese è talmente preziosa da dover restare segreta, nelle tecniche e nelle materie prime (la cui esportazione è infatti proibita). Non stupisce che, nel 1665, il maestro Gerolamo Barbin viene condannato a morte per essere andato in Francia, chiamato dal re Luigi XVI in persona, per realizzare la maestosa galleria degli specchi nella Reggia di Versailles (tornato in laguna, verrà poi graziato, tale è il suo talento da non poter essere sprecato). Ancora oggi, pur con l’apertura di Murano al mondo e la globalizzazione, in molti sull’isola sono restii alla condivisione e giudicano con sospetto la scelta del maestro Tagliapietra di portare nel mondo la sua esperienza e la sua passione per il vetro, di non restare fedele all’isola. Qualcuno a Murano lo chiama l’americano, quasi un dispregiativo per rimarcare la sua internazionalizzazione e il suo (presunto) tradimento alla millenaria tradizione veneziana.
Lino esce insomma dall’isola e inizia il suo peregrinare tra Europa, Asia e Stati Uniti, dove sbarca nel 1979 per tenere un corso alla Pilchuck Glass School di Stanwood, nello stato di Washington, diventando presto una star (“in California c’erano giovani che pagavano e dormivano in tenda per vedermi lavorare il vetro”, ricorda). A Murano, intanto le sue fornaci e la sua arte millenaria vanno incontro a molti cambiamenti, che possiamo, senza azzardo, definire un ridimensionamento, se non proprio una crisi.
I numeri rendono nitida questa fotografia. Secondo La Repubblica, un tempo “sull’isola il vetro, grazie a 6mila fornaci, si dava da mangiare a 10mila famiglie. Sono crollate a 1500 negli anni Novanta. Ora ne restano 600. Sulla carta sono attive 150 aziende: quelle con forno proprio non arrivano a metà”. Nel 2020 poi, tra l’acqua granda e il Covid-19, il 60 per cento delle aziende ha dichiarato una diminuzione del fatturato di oltre la metà rispetto all’anno scorso, e addirittura quasi quattro su dieci hanno perso più del 70 per cento. Ne parlo con Andrea Della Valentina, il presidente del settore vetro di Confartigianato Venezia, responsabile commerciale di un’importante ditta e consigliere del Consorzio Promovetro. Sin dall’inizio della nostra call mi sembra un’ottimista, e infatti alla fine ci tiene a precisare che: “Murano non sta morendo. La situazione è molto difficile, ma siamo qui, armati per vincere”. In questo momento però sono sostanzialmente fermi i due principali canali di vendita per i produttori: i negozi di Venezia e di Murano, vuoti o chiusi per l’assenza di turisti, e il mercato internazionale, bloccato quasi ovunque, con il rinvio delle principali fiere ed eventi mondiali. Ai problemi incontrati da qualsiasi attività artigianale per la pandemia, si aggiungono dei costi di gestione altissimi: per tenere accese le fornaci servono tanti soldi, sui 5mila euro al mese solo per il gas, ma spegnerle rischia di essere un danno ancor peggiore, perché servono settimane poi per riportarle in temperatura.
Le difficoltà per Murano e il suo vetro sono tuttavia iniziate prima: la concorrenza globale e la fatica di fare impresa tra burocrazia italiana e norme ambientali più stringenti, si sono intrecciate a un probabile cambio del gusto e al complicato ricambio generazionale. Il problema principale comunque, secondo Della Valentina, rimane quello della contraffazione: “quasi l’80 per cento del vetro venduto tra Venezia e Murano è falso – mi spiega – recuperare il fatturato perso dalla contraffazione è il mezzo più immediato, insieme ai sussidi e agli sgravi statali ed europei, per dare ossigeno alle aziende”. Il dato è assurdo, perché sono gli stessi abitanti lagunari, che dovrebbero avere a cuore la salvaguardia di questa eccellenza, a perpetrare la truffa. “Non si tratta per forza di una fetta di mercato che ti viene rubata, perché spesso il fenomeno è legato a prodotti poco costosi, non confrontabili con i nostri – precisa Della Valentina -, quanto piuttosto di un danno d’immagine enorme”. Se tante persone iniziano a comprare un vetro industriale, totalmente diverso da quello di Murano, poi alcuni iniziano a dire che tale vetro non ha qualità e finisce che pure il cliente di qualità, se non ha i mezzi per distinguere, non acquisti nulla: “non manca tanto la clientela, quanto la conoscenza, la cultura – secondo il rappresentante dei vetrai – la sfida più grande è raccontare la nostra arte, far vedere come il nostro prodotto sia fatto a mano, da maestri con trent’anni di esperienza e una cultura millenaria alle spalle”. Se a livello tecnico Murano tutt’oggi ha pochi eguali nel mondo, dal punto di vista imprenditoriale e comunicativo non sta vivendo i suoi anni migliori.
Lino Tagliapietra continua a considerarsi un artigiano, un lavoratore del vetro, una materia con cui vive un rapporto simbiotico e per la cui descrizione usa verbi e sentimenti umani quali rispettare e amare, ma sono ormai cinquant’anni che la sua carriera ha superato questa dimensione. È stato uno dei pionieri della trasformazione del vetro in Arte con la A maiuscola, fine a se stessa, non creata per forza con uno scopo: “Lino fa arte con il vetro e la sua arte non potrebbe essere che di vetro”, ha scritto Giovanni Sarpellon, professore e scrittore veneziano, che nel 1994 ha curato la prima monografia dedicata interamente al lavoro del maestro. Come i grandi artisti, Lino unisce la potenza creativa all’abilità tecnica. La sua voglia di esplorare nuove idee e lavorazioni, spesso in collaborazione con degli artisti internazionali come lo sloveno Luigi Spacal, l’olandese Andres Copier o l’americano Dale Chihuly, consacrano lui e i suoi lavori con il vetro a opere degne di stare a fianco dei Picasso, dei Kandisky e dei Boccioni, come i due Tagliapietra presenti nella collezione permanente del Metropolitan Museum di New York.
Proprio la ricerca di nuovi orizzonti artistici ed economici spinge Lino, dopo le esperienze nelle storiche vetrerie Venini e la Murrina, a superare i confini della laguna prima e dell’oceano poi. All’estero, alla carriera di artista, affianca quella di insegnante. I suoi studenti e studentesse americani hanno una tecnica all’inizio quasi inesistente, ma “una grande apertura mentale”, fondamentale per l’idea di insegnamento a 360 gradi di Lino. Nelle sue lezioni non si provano solo le basi della soffiatura e delle altre lavorazioni, ma si viaggia, perché “il vetro è cultura. Ho iniziato a raccontare i luoghi del vetro con delle diapositive. We’re going to Venice, dicevamo, e guardavamo le immagini di Venezia”. La voce si sparge in fretta, nei corridoi della Pilchuck School, tanto che queste visite virtuali diventano un appuntamento fisso per molti: “sempre più studenti hanno cominciato a partecipare, e gli incontri diventavano più lunghi. Non andavamo solo a Murano, ma ovunque, in Danimarca, in Giappone, sempre seguendo le strade del vetro. È probabilmente una delle cose più belle che ho fatto”. Di recente un gruppo di suoi vecchi allievi l’ha contattato per organizzare un altro di quei “viaggi” virtuali e culturali. Come la vite che Lino ha portato sul retro della sua galleria, trapiantando una parte di quella che si arrampica sulla facciata, i cui semi, da lui sparsi nell’universo del vetro, sono sbocciati.
Di tutti gli studenti avuti nel corso della sua vita, “qualche centinaio ha fatto carriera come soffiatore, come artista”, dice Lino. Un numero importante, che potrebbe da solo risolvere ampiamente il difficile ricambio generazionale di Murano, ma sull’isola il maestro non insegna da tempo. Ha avuto quattro, cinque assistenti che sono diventati bravi maestri, pochi in confronto ai tanti vetrai internazionali formati con i suoi insegnamenti. Intuisco che questo sia un po’ un nervo scoperto. Lino non mi sembra un uomo con dei rimpianti, perché da quando aveva 11 anni e fino a oggi ha fatto quello a cui si sentiva destinato e che ama, e gli incontri e le esperienze vissuti sulla strada hanno colorato la sua vita. Ma se potesse cambiare qualcosa, forse sarebbe questo: non tanto il non essere stato del tutto profeta in patria (ché al netto delle invidie, tutti i muranesi gli riconoscono un talento e una carriera con pochi eguali), quanto il dover essere a volte emarginato o accusato di non aver contribuito a tramandare l’arte dentro i confini di Murano.
Perché allora Lino non ha trovato degli allievi a Murano dove pure, anche dopo aver aperto lo studio a Seattle, ha continuato a lavorare, come artista indipendente, dal 1989? Con una lettura semplicistica, e anche un po’ maliziosa, potremmo dire non abbia voluto, attirato da un mondo in cui poteva sentirsi un gigante, a livello professionale e finanziario, come un calciatore che passa da un top team di Champions League alla Mls. La realtà però è più complicata. Da un lato ci sono i problemi che tutti i maestri muranesi stanno avendo nel trovare ragazzi e ragazze in grado di raccoglierne l’eredità, primo fra tutti la mancanza di materiale umano, visto che Venezia e le sue isole si spopolano a ritmi sempre più sostenuti: nel 1951, nel centro storico abitavano quasi 175mila persone, settant’anni dopo si superano a fatica le 50mila, la maggior parte adulte o anziane. A questo va aggiunta una generale tendenza all’abbandono dei mestieri manuali e artigianali, l’assenza di una vera e propria scuola del vetro, oltre al ridimensionamento generale dell’arte e dell’industria muranese di cui si scriveva poco sopra.
Dall’altro lato, Lino racconta di come gli ostacoli trovati a Murano l’abbiano spinto a staccarsi un po’ dall’ambiente. “Sono andato via per tantissime ragioni: economiche, certo, ma soprattutto qui non sono riuscito a creare una fabbrica, c’è stato troppo ostracismo. Se creavo un oggetto, il giorno dopo veniva copiato e firmato con il mio nome – ricorda – Murano è un bellissimo posto, ma può essere anche molto cattivo. E poi qui insegnare vuol dire un pochino farti concorrenza, perché spesso chi impara il tuo lavoro poi se ne appropria, invece di provare a costruirsi un proprio nome, un proprio mercato”. Secondo Lino, Murano ha un deficit a livello etico e pure commerciale e di creazione del mercato, mentre ai (pochi) giovani incontrati sull’isola mancano la cultura e l’umiltà per lavorare il vetro. “Una volta ho proposto a dei ragazzi in fabbrica se al sabato volessero fare un po’ di scuola, in cui li avrei aiutati ad approfondire le varie tecniche e, se fosse venuto fuori qualche bel pezzo, se lo sarebbero potuto tenere, per rivenderlo anche. La loro risposta è stata che avrei dovuto pagarli per frequentare quelle lezioni”. Nulla in confronto agli Stati Uniti, dove le ragazze e i ragazzi, a decine, pagavano solo per assistere a una dimostrazione del maestro e “rimanevano per ore a provare e riprovare, come ho sempre fatto pure io, andando prima in fabbrica, o nei weekend, di notte”. Dopo le prime esperienze all’estero, Lino ha trovato poco spazio nell’ecosistema del vetro a Murano, tanto da doversi limitare a lavorare in proprio, senza poter sfogare il suo desiderio di condivisione grazie a cui, secondo lui, quest’arte millenaria potrebbe sopravvivere in laguna. Non per questo, però, Lino rinnega le sue origini. “Se guardo ai vetri che ho fatto negli anni, le mie radici sono ancora lì. Uscendo da Murano ho dovuto ancorarmi a quello che più sentivo mio, alla cultura muranese e veneziana”.
Pur tra mille difficoltà, c’è però ancora qualcuno disposto a dedicare, oggi, la sua vita all’arte del vetro di Murano. Agnese Tegon è un unicum per tanti motivi: ha solo 26 anni, ha deciso di avviare un’impresa nell’estate del Covid-19 e potrebbe diventare la prima maestra vetraia nella millenaria storia di quest’isola, un aspetto che la dice lunga sulla doppia anima di Murano, avanguardia artistica mondiale da un lato, luogo anacronistico e chiuso dall’altro. Nell’ultimo periodo diversi media italiani hanno parlato di lei e non vorrei caricarla di eccessive aspettative, come se le toccasse da sola rivitalizzare la soffiatura, ma la sua storia mi ha regalato una ventata di ottimismo, soprattutto pensando al periodo in cui l’ho incontrata, negli ultimi giorni dell’incredibile 2020.
Agnese lavora con Giancarlo Signoretto, fratello di Pino Signoretto, scomparso nel 2017, dopo una carriera da star mondiale del vetro. Giancarlo, 58 anni, mi accoglie nella fornace presa in gestione con Agnese la scorsa estate con modi istrionici e una parlantina che non pensavo si adissero a un artigiano obbligato a rimanere concentrato per ore sulla propria opera. Il suo modo entusiasta e colorito di parlare del vetro e di Murano mi mette subito a mio agio. Lui e Agnese lavoravano da dipendenti in un’altra fornace, ma nel luglio 2020 hanno deciso di mettersi in proprio. Anche ora che sono soci, comunque, la divisione dei ruoli è chiara. Lui è il maestro, lei l’apprendista, ed entrambi sembrano aver trovato un buon equilibrio nel bilanciare la vulcanica personalità di Signoretto e la taciturna tenacia di Tegon. Giancarlo è molto fiero di aver dato l’opportunità ad Agnese di apprendere sul campo l’arte della soffiatura, si vede da come ne parla, da come la guarda mentre lavora. L’attenzione mediatica scatenata dall’arrivo di una ragazza in fornace, da lui voluto, lo inorgoglisce. “Agnese è una pietra preziosa di quest’isola, con lei abbiamo rotto un incantesimo che durava da mille anni”. Lei mi confessa senza esitazione di dover tutto a Giancarlo: “sono stata fortunata a trovarlo, mi ha sempre protetta. Tutti rispettano lui e quindi me”.
Il vetro la affascina sin dal loro primo incontro, quando Agnese partecipa a un progetto organizzato tra l’Istituto d’arte (che frequentava) e due fornaci, ma l’idea che sarebbe stata lei un giorno a realizzare quei disegni non la sfiorava nemmeno, fino a quando cinque anni fa Giancarlo decide di prenderla in fornace. Un inizio duro, come spesso accade per questo lavoro. “Mi avevano dato una maglietta a maniche lunghe, io non avevo il coraggio di dire che stavo morendo di caldo (in estate vicino al forno la temperatura tocca tranquillamente gli ottanta gradi, ndr). C’erano solo uomini, chiaramente, e le prime due settimane sono stata a metter giù foglie d’oro tutto il giorno, facevo quello di cui c’era bisogno”. Il suo spirito di sacrificio fuori dal comune, la voglia di imparare e anche l’ambizione, pur accompagnata sempre da grande umiltà, presto convincono Giancarlo: in Agnese ci sono i germogli di una futura maestra vetraia.
Quello che mi interessa sapere di più da lei però, vedendo l’amore con cui vive la fornace, è perché pochi giovani si appassionano al vetro. “Qui provare è quasi impossibile – mi confessa – ho visto dei video in America in cui ci sono delle scuole aperte e i bambini maneggiano il vetro come un giocattolo: servirebbe diffondere di più la conoscenza e la cultura. Quando studiavo c’erano dei programmi per provare l’esperienza della fornace, ma costavano tantissimo”. Spesso sono poi gli stessi impresari del vetro a essere poco lungimiranti. “Quando eravamo dipendenti, Giancarlo mi diceva di fermarci mezz’ora in più per esercitarmi, ma i titolari non erano d’accordo, per cinque euro di vetro che avrei consumato. Gli interessava solo guadagnare, non pensavano al futuro”.
Certo, poi i giovani “devono essere disponibili. È un lavoro duro, sia fisicamente che mentalmente”, basti pensare che le canne per soffiare pesano anche dieci chili, e l’ultima opera in vetro a cui hanno lavorato è una gigantesca testa di toro che ha richiesto ben quattro ore di fatica no-stop. “Da luglio a dicembre sarò stata a casa tre, quattro giorni. Però quando alla sera vai a letto sei soddisfatta di aver creato anche una piccola cosa”. Agnese non sente la responsabilità di essere una delle poche persone da cui passerà il futuro della millenaria arte del vetro, anzi “mi piacerebbe essere uno stimolo per chi ci vorrà provare. La mia strada è ancora lunga, io mi sto impegnando tantissimo, ma chiunque può farlo”, mi dice, mentre dalla palla rovente e malleabile crea in un minuto un cavallino di vetro, un esercizio di stile che richiede tecnica e velocità, perché va plasmato tutto in una volta, prima che il vetro si raffreddi. Fino a che ci saranno giovani come lei, Murano forse resterà viva.
Nonostante il suo apparente distacco dai destini di Murano, al maestro Tagliapietra non mancano idee su come rilanciarla. Ovviamente, Lino pensa in grande. “Hai presente la Guggenheim di Bilbao? Quando entri, sei soffocato dalla bellezza delle sale, hanno costruito un museo che è già una scultura – racconta – hanno fatto un’operazione culturale e commerciale che ha rivitalizzato Bilbao. Io sogno che venga costruita qui una struttura nuova, riqualificando una parte dell’isola, in cui si uniscano un museo e una scuola. Non so se sia un’idea giusta, ma mi piacerebbe. Una volta ne ho parlato con delle persone, ma si sono arrabbiate: Se esiste già un museo, perché ne vuoi uno nuovo, mi hanno detto?”, e dalla sua voce vedo trasparire per la prima volta un misto di amarezza, rimpianto, rassegnazione. In questo immobilismo causato dalla scarsa lungimiranza dei suoi concittadini e colleghi ha germinato la sua voglia di allontanarsi dall’isola.
“Murano ha bisogno di aprirsi, incontrare la richiesta di un prodotto diverso, realizzato anche con meno virtuosismo rispetto ai vecchi maestri, che difficilmente saranno eguagliati”, mi ha detto Andrea Tosi, il vicepreside dell’Abate Zanetti, un istituto superiore tecnico-tecnologico che affianca ai classici insegnamenti (italiano, matematica, storia) delle lezioni di grafica e comunicazione, con focus particolare sul vetro. Dei quarantatré studenti dai 14 ai 18 anni che lo frequentano, “tre o quattro hanno l’ambizione di entrare in fornace come serventi o garzoni”, spiega Tosi, ma quello a cui punta soprattutto l’istituto nelle ore di indirizzo è ragionare a 360 gradi sul mondo del vetro. “Anche un distretto come Murano oggi ha bisogno di formare dei giovani con una visione più ampia. Non bisogna solo conoscere e lavorare i prodotti, ma anche saperli comunicare, vendere”. Pur essendo un istituto oggi unico nel suo genere, non è un luogo in cui possono direttamente formarsi i maestri vetrai del futuro. L’altra parte della scuola del vetro, invece, quella con corsi specifici sulla vetrofusione, la soffiatura e le altre tecniche di fornace, è passata dal 2020 sotto la gestione dei Musei civici veneziani, ma a causa del Covid-19 a inizio 2021 l’offerta formativa è ancora completamente ferma.
Non si ferma invece Lino, anche se adesso la moglie Lina e i figli gli hanno imposto di andare in fornace al massimo tre giorni a settimana. L’ho incontrato di nuovo il primo aprile 2021, una mattina in cui un’insolita coltre di nebbia primaverile fitta e bassa scesa su Venezia ne lasciava intravedere solamente i campanili, mentre Murano era calda e soleggiata. I lavori di restauro della sua fornace si stanno prolungando, mentre il Covid-19 gli impedisce ancora di tornare in America, e il Maestro si sente un po’ in gabbia, nonostante l’affetto della famiglia, con cui vive in un unico palazzo a fianco della galleria. Nel nostro ultimo incontro ci ha aperto le porte di casa, portandoci prima nella taverna, rinominata scherzosamente con un’insegna “osteria dai Lini”, dove lui e la moglie, prima della pandemia, ospitavano pranzi e cene numerosi sulla lunga tavolata in legno. Ci ha fatto vedere l’ampio open space del suo salotto, dove le suppellettili di una casa normale sono sostituiti dai suoi capolavori di vetro creati negli anni. “Alla sera, con la luce del tramonto, si creano dei riflessi che mi emozionano ancora, sono bellissimi”, ci racconta. Poi, sul mobile che circonda la televisione, mostra tutti i piccoli vetri da lui disegnati per celebrare le ricorrenze: “Questa è la bomboniera del mio matrimonio con Lina, nel ’59. Queste sono quelle dei matrimoni di Marina, Silvano e Bruno, i miei figli, mentre questa è per il prossimo matrimonio di Jacopo (un suo nipote che deve ancora sposarsi, ndr): mi sono portato avanti”. Tutti i giorni più importanti della vita dei Tagliapietra e la vita stessa di questa famiglia accogliente e gentile sono immortalati per sempre dalle sapienti mani del maestro. Le stesse, annerite dal caldo, che giganteggiano su una parete della galleria, in una delle foto, scattata da Russel Johnson, che meglio racconta il lavoro di Lino.
In attesa di riaccendere il crogiolo e riprendere a soffiare, Lino comunque si sta dando da fare: “Ho rotto dei vecchi vasi e li sto riutilizzando per creare, insieme a due ragazzi, delle vetrate. Un bel progetto”. Intanto, negli ultimi giorni di marzo, Silvano ha spedito delle opere del maestro a Milano, dove saranno esposte in occasione del ciclo di mostre Mestieri d’Arte & Design organizzato dalla Triennale.
A 86 anni, con tre quarti di secolo di lavoro in fornace alle spalle, non può ancora fare a meno di soffiare il vetro, anche se, ci tiene a precisare, “non potete dire che sono il futuro del vetro, io sono il passato, adesso tocca ad altri”. Gli chiedo se la sua non sia quasi una dipendenza. “Secondo mia moglie sicuramente sì. Il medico le ha detto: Lino morirà lavorando. In famiglia per fortuna lo accettano – sorride, per poi farsi serio -. Credo ci sia una forma di dipendenza, sì, di malattia, ma del resto se non lavoro il vetro, cosa faccio? Certo, mi piacciono i viaggi, la musica, i film, ma niente mi appaga e mi dà soddisfazione quanto il vetro, forse anche grazie alla possibilità di creare sempre qualcosa di nuovo. Io devo lavorare il vetro, non so fare altro”, mi confessa. Dalla sua voce non traspaiono la tristezza e il rimpianto per aver dedicato tutta la vita al vetro, ma solo l’amore e la devozione che lo legano a questo materiale da quando, ancora bambino, aveva visto la luce rossa del fuoco divampare da una fornace. Come molti suoi coetanei muranesi era forse destinato a entrare in fornace, ma nessuno aveva scritto che sarebbe diventato un maestro di livello mondiale, in grado di trasformare il vetro in arte.
A quello ci ha pensato lui, con la sua testa, le sue mani, il suo cuore.
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