Nell’Agosto di quest’anno mi capitò di leggere che una blogger californiana, di origine indiana, accusava gli occidentali di abusare della parola curry, utilizzandola come equivalente semantico universale per qualsiasi salsa della cucina indiana. L’accusa era di becero colonialismo, la solita superficialità occidentale. Claude Lèvi Strauss racconta, in tal senso, un aneddoto significativo: nelle Grandi Antille, mentre gli Spagnoli inviavano commissioni per stabilire se i selvaggi avessero un’anima, questi ultimi si occupavano di immergere i prigionieri bianchi sott’acqua e, sorvegliandoli nel tempo, volevano scoprire se i loro corpi fossero soggetti o no a putrefazione.
La dialettica tra il “noi” e tra il “voi” è profondamente radicata nella grammatica di tutte le lingue esistenti ed esistite nella cultura umana. Benché accettabile come spot pubblicitario, la polemica della blogger (così come tante altre scaturite attraverso qualche post sui social network) deficia di una componente essenziale nella critica culturale, reale e scientifica, e cioè la diversità culturale, da non confondere con il relativismo culturale, che di per sé è profondamente paradossale. Cito letteralmente Levi Strauss: “proprio nella misura in cui pretendiamo di stabilire una discriminazione fra le culture e fra i costumi, ci identifichiamo nel modo più completo con quelle che cerchiamo di negare. Contestando l’umanità di coloro che appaiono come i più “selvaggi” o “barbari” fra i suoi rappresentanti, non facciamo altro che assumere un loro atteggiamento tipico. Il barbaro è innanzitutto l’uomo che crede nella barbarie.”
L’attore americano Johnny Depp, ospite al San Sebastian Film Festival, afferma: “It can be seen as an event in history that lasted for however long it lasted, this cancel culture, this instant rush to judgement based on what essentially amounts to polluted air. It’s so far out of hand now that I can promise you that no one is safe. Not one of you. No one out that door. No one is safe. It takes one sentence and there’s no more ground, the carpet has been pulled. It’s not just me that this has happened to, it’s happened to a lot of people. This type of thing has happened to women, men. Sadly at a certain point they begin to think that it’s normal. Or that it’s them. When it’s not.”
Non so se Depp abbia letto Lévy Strauss, ma ho l’impressione che la sintesi sia molto attinente. Però dimentica un dettaglio, non da poco: in realtà i social sono in mano a multinazionali che decidono arbitrariamente quale sia una condotta più o meno morale. Il punto è forse la violenza? Certamente sì. Il punto è allo stesso modo la barbarie? Assolutamente sì. Senza andare troppo indietro nel tempo, si può affermare che: lo stigma, utilizzato da sempre in tutte le comunità e società strutturate e complesse (greco – romana), rappresentava uno status sociale inclusivo (lo schiavo, il soldato, l’eretico) e gerarchico (la gogna nel medioevo era un istituto previsto per legge e serviva da deterrente), e in questo contesto sociale rappresenta un marchio distintivo e profondamente esclusivo (e aggiungo arbitrario); possiamo parlare di una ritribalizzazione della comunità.
Le tribù indo americane classificavano esse come uomini (intesi come civili, umani) a dispetto delle altre tribù, che classificavano invece come “altri”, in un modo indefinito, spesso inumano e che per tale ragione li considerava privi di diritti o status consoni alla comprensione e quindi all’assimilazione. La diversità diventa qui non classificabile, ma soprattutto immeritevole di qualsiasi esistenza reale. In questo la cosiddetta cancel culture è una stigmatizzazione del diverso inteso come estraneo, barbaro per l’appunto.
Parafrasando quanto scritto da Lévi Strauss la suddetta cancellazione è l’espressione più moderna e vacua di relativismo culturale, operata attraverso l’utilizzo di media sociali, gestiti da aziende private e che sono paragonabili a tribù parlanti una lingua propria (tecno – informatica), il che sottende valori morali, ma per niente etici (la differenza tra morale ed etica è radicalmente essenziale). Il dibattito sulla cultura della cancellazione è in atto tra storici, antropologi e sociologi e l’obiezione più semplice è: tutte le generazioni hanno diritto a scegliersi i propri miti. Sostanzialmente è vero, anzi, storicamente è stato sempre vero, ma con una differenza contestuale enorme: questa società, nella sua esclusività, non ha memoria, non ha una componente culturale dialettica in grado di favorire, a livello globale, un dibattito effettivo sui miti e sul passato. I tempi cambiano (altra tautologia), ma chi vive nel presente ha il dovere di capire, sapere il perché, o quantomeno provare a scoprirne la ragione. Chiunque (o quasi) ha percorso via dei Fori Imperiali a Roma, sa che quella strada fu costruita sventrando tutto il quartiere medievale della Capitale, un atto di cancellazione culturale voluto dal regime: è giusto che le generazioni nate dopo il ’30 abbiano perso per sempre la possibilità di poter conoscere un pezzo della storia di una città sedimentaria come Roma, per il giudizio arbitrario di un governo dittatoriale che non riconosceva nel “medioevo” alcuna valenza storica degna di conservazione?
È giusto dire che l’epoca della tecnocrazia non pone domande, ma fornisce soluzioni rapide e immediate? È opportuno affermare che l’algoritmo è la semplificazione estrema del nesso causale, che lascia spazio soltanto ad una critica relativistica e quindi profondamente di parte, tribale? Senza ombra di dubbio.
Pongo sullo stesso livello fenomenologico la cultura della cancellazione, la vergogna mediatica e il politicamente corretto, perché tutte rispondono al principio dell’esclusività.
Se potessimo realmente, e senza campionamento, effettuare un’inchiesta a livello mondiale, intendo ogni abitante della Terra che abbia capacità di discernere, per capire quanti credono che le razze umane esistano, sono convinto che l’assenso sarebbe maggioritario. Ma non perché gli esseri umani strutturalmente siano razzisti, il razzismo è una categoria vuota come il populismo (tutti gli esseri umani sono populisti), ma per la semplice ragione che la diversità delle razze è una evidenza empirica. Scrive Levi Strauss: “la semplice proclamazione dell’uguaglianza naturale fra tutti gli uomini e della fratellanza che deve unirli senza distinzione di razza o di cultura, ha qualcosa di deludente perché trascura una diversità di fatto, che si impone all’osservazione, e di cui non basta dire che non concerne il problema di fondo perché si sia teoricamente e praticamente autorizzati a fare come se non esistesse. Così il preambolo alla seconda dichiarazione dell’Unesco sul problema delle razze rileva saggiamente che quel che convince l’uomo della strada che le razze esistono è l’evidenza immediata dei sensi quando scorge insieme un africano, un europeo, un asiatico, un pellerossa.”
La verità vera è che l’uomo non realizza la propria identità sociale in società astratte, ma in strutture tradizionali profondamente identitarie e pratiche (parafrasando Levi Strauss). La capitale della Liberia si chiama Monrovia. Ai quanti non lo sapessero il nome proviene dal presidente americano Monroe, che attuò il piano di rientro verso l’Africa degli Africani schiavi i quali, una volta radicati, mettono su piantagioni e rendono schiavi gli africani del posto. L’aneddoto è oltremodo esplicativo: le relazioni sociali funzionano per identificazione, ma soprattutto per differenziazione.
Utilizzo la categoria razzismo poiché è la più coniugabile nel contesto moderno (tutto passa sotto l’egida razzistica) anche a testimonianza del fatto che nel linguaggio comune certe accezioni faticano a scomparire o si riadattano ai contesti. Questo è il limite del linguaggio tecnico di cui gia Pasolini aveva raccontanto tempo fa. Il punto, a mio avviso, non è tanto il politicamente corretto o il vuoto rispetto per la diversità, ma è proprio il contrario e cioè la conformazione unitaria delle categorie di senso. Questa narrazione delinea un tipo di individuo che cancella completamente ogni differenziazione culturale per adeguarsi a due principi fondamentali del capitalismo: l’omologazione e il consumo.
Rendere minoranze scarne le persone che non si conformano restando target ben definiti e quindi difficilmente raggiungibili con messaggi standardizzati universalmente recepibili è il sogno di tutte le aziende del mondo (abbatte i costi di produzione e di comunicazione), ma anche dei governi tecnocratici del ventunesimo secolo. Purtroppo, per quanto si parli (ormai nemmeno più tanto) di rispetto delle minoranze, la tendenza all’omologazione di un unico corpo sociale, che parla un linguaggio unico e risponde a dettami culturali univoci, è un’evidenza storica: il patto sociale è in pericolo, è questa la minaccia che incombe. Certo, lo stereotipo dell’individuo moderno è: rispettoso, tollerante, unisex, vegano, riconoscibile virtualmente, compulsivamente dedito allo sviluppo e alla novità, ma soprattutto isolato, taciturno, obbediente e continuamente allo specchio sulle piattaforme a stelle e strisce.
Poco importa se poi consuma tecnologia prodotta in Cina, sfruttando il lavoro di operai che guadagnano pochi dollari l’ora, se veste tessuti cuciti in Bangladesh da fanciulli magri e assetati, se sperpera acqua o viveri provenienti da chissà dove e si cura con farmaci di cui due terzi del mondo (povero) non conosce nemmeno l’esistenza. Così deve essere il nuovo individuo, può piangere a casa sul divano guardando qualche documentario girato a tremila chilometri da casa sua, ma non può denunciare, è un tacito consenso.
E chiaramente mi dichiaro colpevole, ne sono dentro fino al collo.
Costruirò una polirematica che apparirà poco conforme, ma è un’analisi dettagliata ed evidente: l’infodemia, la proliferazione di informazioni accurate e imprecise su un determinato fatto, ha depressurizzato il conflitto (il fuoco sacro del progresso sociale) rendendolo frammentato, conformista e quindi sterile. Guardate Elon Musk, ereditiero e rampollo di una famiglia ultra-milionaria. Parla di colonizzare Marte per scoprire vite aliene, dettando una politica aziendale al mondo intero quando nemmeno sappiamo come funziona il dna umano, come si struttura il mondo fisico; il suo è un vezzo da ricchi, che ne hanno sempre avuti, aggiungo, ma è “cool”.
Confondere la libertà con la possibilità di poter dire ciò che si vuole è un atteggiamento molto pericoloso, un equivoco profondamente anti-democratico: dare la libertà di parola ad una schiera di imbecilli è sinonimo di superficialità (aveva ragione Umberto Eco). Il consumismo richiede tale atteggiamento, il consumo continuo, soprattutto di informazione che deve essere breve, concisa e semplice, che deve essere pensata come una comunicazione pubblicitaria.
Abbattere le statue di Colombo forse renderà lo scopritore del continente americano meno audace, gli disconoscerà un’impresa che ha cambiato il mondo? Ho dei dubbi. Altra cosa è dire invece che i governi portoghese, spagnolo, inglese, francese, olandense, del XV e XVI e XVII secolo hanno colonizzato e sterminato popolazioni indigene e cancellato culture millenarie. La differenza sta proprio nell’individuazione del capro espiatorio. I navigatori del XV secolo erano “semplicemente” imprenditori, che vivevano un presente capitalistico in espansione, ma erano finanziati da Stati europei; la Storia è molto più complessa dei singoli personaggi famosi. Non ci resta allora che cancellare Carlo V e Shakespeare, e mettiamoci anche Kant o Rousseau, direi pure Thomas Jefferson e la lista è oltremodo lunga. Cancelliamo l’intero passato, per ridefinire una modernità nuova, con valori e patti sociali nuovi. Ci sto, ma c’è da capire il modo, il metodo e sicuramente non può una multinazionale definire cosa è giusto o cosa non è. Se si legge la Costituzione americana, si farà fatica a trovarvi la parola “democrazia”, non è mai citata e il motivo è semplice: gli Stati Uniti non nascono e non sono una democrazia così come noi la intendiamo, sono una repubblica, il che cambia completamente la percezione di controllo statale. Democrazia significa formalmente che la partecipazione del popolo indirizza e condiziona profondamente le decisioni di un Governo e tutto ciò che concerne lo Stato: non mi sembra che ciò accada e non parlo solo degli Stati Uniti.
La blogger californiana che si schierava contro la parola curry, che io definirei un dettaglio pressoché insignificante, saprà benissimo che nonostante la Repubblica indiana abbia abolito legalmente le caste, nei settori della società esse sono ancora fortemente radicate e discriminatorie (secondo un’accezione etnocentrica, beninteso). A quale casta appartiene il CEO di Google? E la sua soprattutto qual è?
Interessante, al riguardo, la lettura di questo articolo, ma soprattutto lo studio di Luis Dumont Homo Hierarchicus (Adelphi, 2004). Il sistema castale, in India, oltre a essere profondamente radicato, è anche complesso e di difficile comprensione per l’Occidente: ecco l’etnocentrismo di cui parlava Levy Strauss (identificazione e negazione), ma soprattutto la profonda ipocrisia che sottende qualsiasi tendenza innescata dai social. Mi spiace dirlo ma, e ne sono profondamente convinto, è impossibile vederci buona fede.
Il movimento Black Lives Matters (giusto e sacrosanto) si è tramutato in una sorta di genuflessione a fasi alterne, scemando nel tempo il suo vigore conflittuale e sociale. Il movimento Me too, dopo la condanna di Harvey Weinstein, sembra già un retaggio del passato, trovato il capro espiatorio tutti vissero felici e contenti. Non è certamente così, chiaro, ma il messaggio che passa ai più è proprio questo. Penso anche ad Occupy Wall Street, più datato, che ha fatto un po’ di rumore, ma nei fatti Wall Street occupa ancora il mondo e la politica.
La verità vera è che la virtualità declassa la partecipazione (che significa coscienza e conoscenza effettiva, fisica, reale) a tribalismo endogino (ricordate le Sardine?) che solletica il Potere, ma non gli fa alcuna paura. Senza entrare nel merito del controllo dei media, quando si conforma la pubblica opinione a una condotta stabilita per moda e non per conflitto, rinuncia, conquista, qualsiasi tentativo di destrutturazione antropologica dura il tempo di una lattina piena, aperta e capovolta.
Non esistono soluzioni, esistono solo i problemi e i possibili tentativi di risolverli. La ricerca vera sta nella capacità di descriverli in modo chiaro, di delinearli nitidamente.
Come insegna lo storico Alessandro Barbero, la Storia si fa coi se e coi ma.
Scrive Svetonio del divino Giulio (Cesare): […] balzò verso il fiume, diede gran fiato alla tromba in segno di guerra e si avviò verso la riva opposta. Allora Cesare: “andiamo dove ci chiamano i segni celesti e l’iniquità degli avversari.” E aggiunse: “il dado è tratto”. E se invece di pronunciarlo a voce alta ai suoi soldati avesse mandato loro un biglietto scritto?
Ricordiamoci del passato (non stupido, ma complesso) e di quello che ha prodotto, senza fretta di chiuderlo per forza in categorie morali, a mio avviso fuorvianti, di bene e male, di giusto o di sbagliato, anche perché, se è vero che la storia è, o può essere, magistra vitae, c’è bisogno che qualcuno abbia voglia di imparare.
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