The Woddafucka Thing, quella maledetta cosa.
Quella per cui lavori ad un film per sei anni, senza budget e senza produzione.
Che ti dice di fare l’attore anche se gli altri, invece, stanno facendo il data bootcamp perché, sai, i soldi, la casa e il brunch a Prenzlauerberg.
Quella che ti inchioda ad una città che non afferri mai perché è in continua osmosi, e che forse è solo lo spettro di quella di cui t’eri innamorato. Ma d’altronde, altrimenti, dove vai?
The Woddafucka Thing è la rivolta sorridente dei sopravvissuti metropolitani che, in qualche modo, trovano la loro strada.
Ma partiamo dalle basi: la trama. In fondo stiamo parlando (anche) di un film.
In The Woddafucka Thing ci sono: due mezzi fratelli con una scuola di karate e un affitto troppo caro, un colpo grosso, un piano che probabilmente non andrà come da piani, una dj poco dolce che si fa chiamare Dolcezza, un Boss con la “B” maiuscola in completo Armani, un boss un po’ meno boss in camicia hawaiana, e due speculatori edilizi che ti dicono chiaro e tondo che bandiera rossa non la trionferà, basta sperare.
Detta così potrebbe sembrare il classico heist movie, ma in verità non lo è, almeno per due motivi, i due grandi tropi del film:
Berlino.
Berlino, dalle prime inquadrature, è lo sfondo vivente della storia e ne muove i fili. Sweety cammina sull’ Oberbaumbrücke e Kreuzberg sfila palazzone dopo palazzone, graffito dopo graffito, fuori dai finestrini dell’auto di Boss, mentre le note della Casta Diva vestono la città di immortale. Berlino è ritratta nella sua qualità ambivalente: si muove tra musica classica e musica hip hop e viene fotografata in bianco e nero, perché così Berlino è: o bianca, o nera. Estrema.
Il film racconta anche una città che è cambiata: attraverso privatizzazioni, speculazioni edilizie, gentrificazione, è cresciuta, è diventata la sorella più grande che si ribella un po’ meno, si veste un po’ meglio e fa l’occhiolino a Londra e Parigi.
Ed è proprio il cambiamento che crea e dirige gli eventi.
Le vicende umane di chi si trova ai margini vengono travolte da una nuova conformazione socioculturale, che spazza via dal centro città chi vive ancora di pane, amore e fantasia, come alcuni anni fa era concesso fare. I protagonisti del film sono così: immigrati proletari, poveri diavoli un poco sprovveduti e un poco disperati, che rimangono attaccati ai loro sogni e che sopravvivono con l’improvvisazione e lo stratagemma, anche quello illegale.
In questa Berlino si sente il passato del regista Gianluca Vallero, che qui è stato report radiofonico e “ha vissuto la strada, ha visto e incontrato tutti questi tipi che racconta. Li ha visti tutti penare, soffrire, non riuscire a tornare a casa”.
Non pensate, però, che si tratti di un film drammatico.
Non abbiamo infatti ancora incontrato l’altro grande protagonista della storia, sarà perché è uno che ultimamente esce poco e, quando esce, viene spesso bistrattato.
L’umorismo è la forza vitale dei protagonisti di The Woddafucka Thing.
C’è una belligerante speranza nella comicità di Sweety, Gino e Ninja, poesia nelle loro azioni bislacche. Sweety è un’afroamericana, spesso indicata come rifugiata, che dice di mangiare erba elefante invece di spaghetti, Gino scappa dall’Italia per trovare un lavoro decoroso ma si ritrova invischiato con la mafia turca, Ninja osserva con spirito zen l’odissea dei compari e dei migranti che “hanno attraversato deserti e mari”, ed è quello che finisce con un gancio destro in faccia.
A rendere i personaggi più vivi c’è anche un linguaggio di strada colorito, agitato, divertente, che lascia il politically correct fuori dalla porta. L’offesa è senza conseguenza, perché, in fondo, sono tutti mezzi criminali con la scorza dura, che senso ha star qui a far le cerimonie?
La vita è una tragedia e perciò va presa con leggerezza, questo ci dicono i personaggi di The Woddafucka Thing, mentre provano a fottere un sistema che ci sta fottendo tutti quanti.
Sono quasi le 22, il bar di Neukölln dove ci siamo incontrati è uno dei pochissimi per non fumatori. Carlo (Loiudice, Gino nel film) travasa la birra da un bicchiere all’altro perché qui a Berlino non la sanno spillare, altro che a Altamura, e mi parla di cerchi che si chiudono.
Mi racconta di quel cinema a Friedrichshain che vedeva sempre dopo la sua lezione di teatro e a cui si rivolgeva, forse più con ironia che con intenzione, dicendo “Prima o poi lì proiettano un mio film”. Si ricorda di Gianluca Vallero come una delle prime persone che incontrò in città, tredici anni fa, e poi accenna al Lichtblick-Kino, uno dei luoghi che più ha a cuore, che avrà il film per un mese in programmazione.
The Woddafucka Thing era un film con poche speranze, partito senza budget, produzione e distribuzione. “Un outsider”, lo descrive Carlo. Che però, contro ogni aspettativa, ha vinto il Filmfest di Brema per il miglior film in lingua tedesca.
Andate a vedere The Woddafucka Thing se sapete ridere sulle disgrazie, se pensate che alla violenza si possa rispondere con una battuta, se siete stanchi della tensione e se riuscite a vedere i cerchi che si chiudono. Ma, perché no, anche se siete fra quelli che, alla fine, si sono adattati e hanno fatto il data bootcamp.
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