Illustrazioni di Marco Amerigo Latagliata*
Mi sembra che ci sia un errore metodologico, un vizio di forma irrecuperabile nel fatto stesso che io mi ritrovi nella situazione di scrivere un pezzo sull’amore. Non si dovrebbe aprire bocca su ciò che non si sa, e se ci dovessimo basare sulla conoscenza autoptica dell’argomento sarei la persona meno indicata per riflettere su questo sentimento.
Infatti sento di non poter fare uno scatto di pensiero se non dico subito quello che mi preme sul cuore: una donna come me non sa cos’è l’amore.
Una donna come me è una donna di trentacinque anni che vive isolata in una città europea qualsiasi e si trova bloccata in casa da sola nella più totale solitudine in mezzo ad una pandemia mondiale. Una donna come me è una donna che deve davvero aver sbagliato i calcoli con gli anni che passavano, deve aver mis-interpretato ripetutamente i suoi sentimenti, deve aver fatto diversi errori di valutazione sulle persone e sulle situazioni che stagione dopo stagione le sono passate accanto se poi è arrivata questa situazione e la donna in questione non ha nemmeno un’anima con cui scazzare in casa perché il tubetto del dentifricio è stato strizzato a metà e non da sopra.
Eppure è da gennaio che ci penso. E da gennaio ad oggi sono accadute così tante cose su un piano sentimentale che spesso mi sono rifatta la domanda sull’impianto su cui basare questa riflessione. Avrei dovuto ragionare sull’amore come declinazione di un sentimento che intercorre fra madre e figlia? Oppure fra cane e padrone? Oppure fra amica ed amico? E dopo un lungo soppesare, ponderare, ripensare, scrivere e ricancellare tutto quello che avevo scritto mi sono resa conto che per quanto mi riguarda l’amore che in questo momento della mia vita ho voglia di indagare è quello che intercorre fra persone che per nascita sono sconosciute e che per qualche motivo decidono di avvicinarsi, di amarsi fisicamente, di farsi bene, di farsi male, di tenersi compagnia per poi scomparire e ricomparire sulla base delle voglie o dei desideri. Fra persone che si piacciono fisicamente e vogliono toccarsi, fra quelle che hanno la necessità di dare un nome al proprio sentimento e che a volte si confrontano con quelle che hanno invece il terrore di dare un nome al proprio sentimento.
Va da sé che questo pezzo, per sua propria natura insita, non potrà mai essere completo o esauriente, perché non c’è sentimento più cangiante, variabile e bastardo dell’amore.
Mi sembra utile iniziare dalla classica distinzione fra innamoramento e amore, dove per innamoramento intendo la serie di momenti dinamici che messi in fila conducono al fenomeno dell’amore. Quindi movimento vs. stasi. Sconosciuto vs. noto.
L’innamoramento è una danza di cui non si conosce il tempo e di cui non si conosce il compagno. È un atto di fede e come tale avviene nella più totale e cieca incoscienza di ciò che può accadere.
Di albori nella mia vita amorosa posso raccontarvene quanti volete. Sono ferrata nella fase uno: “cadere nell’amore” che è un sintagma che in italiano non esiste ma che io ricalco dall’inglese “to fall in love” o dal francese “tomber amoureux”. È interessante come nel verbo italiano “innamorarsi” non ci sia l’azione di movimento fisico che invece ci restituiscono l’inglese e il francese con il verbo “cadere”.
Non che il cadere in qualcosa sia rassicurante, anzi: è proprio l’esatto contrario. Se chiudo gli occhi e associo un’immagine al cadere in qualcosa mi viene in mente un profondissimo buco nel terreno o l’inciampo su un gradino. Non esattamente un’immagine amena. Ma è proprio in questo cadere che si annida l’essenza dell’amore: non scegliamo quando, né con chi abbandonarci all’amore; non scegliamo da quale altezza precipitare; non scegliamo nemmeno il momento. Accade prima di noi e quando ce ne accorgiamo, quando il cervello finalmente riparte e si allinea con il corpo e il cuore, ci rendiamo conto che saranno solo cazzi.
Leggevo un articolo che analizzava un’evoluzione nell’impiego la app di incontri Tinder da quando esiste la pandemia. Da un anno a questa parte ciò che gli utenti cercano e desiderano dalla piattaforma di online dating più nota al mondo è un supporto morale, la condivisione con l’altro delle emozioni complicate che ci attraversano mille volte al giorno da quando ci siamo ritirati nelle nostre stanze e abbiamo compresso la vita di prima tutta dentro un appartamento. Certo, altri tempi rispetto a quando un tizio che ho conosciuto su Tinder una notte mi ha chiesto di registrargli un audio di un mio orgasmo affinché lui potesse riprodurlo in qualsiasi momento da lui desiderato su una cassa bluetooth appositamente sistemata sul suo comodino. Questo tizio io non l’ho mai visto di persona, perché ogni volta che spingevo per incontrarlo veniva fuori un problema con i suoi denti. Però mi ricordo che a forza di scambiare messaggi ironici e a volte anche sessualmente violenti un po’ di lui mi ero presa. E quando poi è ovviamente scomparso mi è servito del tempo per dimenticarmelo.
Distesa a letto pensavo e mi domandavo se avessi voglia adesso di parlare con uno sconosciuto di come mi sento sempre sull’orlo di un baratro, di quanto odio non sapere se una decisione che ho preso la sera sarà valida anche la mattina dopo. Per dire, nell’ultimo mese ho smesso di fumare e ho ricominciato almeno tre volte.
In sostanza mi stavo domandando se avessi avuto voglia di iniziare il processo di innamoramento nei confronti di una persona che non ho mai visto. Mi stavo domandando se in questo momento sarei disposta a lasciare questa stanza per uscire ad incontrare qualcuno, se sarei disposta a muovermi. Ovviamente, vedi sopra, non ho trovato una risposta univoca o duratura.
Infatti tre delle ultime quattro persone con cui sono stata implicata sentimentalmente le ho praticamente conosciute in chat. Ciò che è assurdo è che da un certo momento in poi (e non importa aver visto o meno la persona in carne ed ossa) diventa quasi inevitabile diventare in qualche forma dipendenti da questa voce muta che ci dà il buongiorno la mattina e la buonanotte la sera, che ci chiede come stiamo se magari una volta rispondiamo con un messaggio secco, meno articolato linguisticamente rispetto al solito.
Non è vero che i messaggi scritti sono atonali, credo piuttosto che se l’unica via di comunicazione per due persone sia in forma scritta, quello che accade è che i due poli di questa comunicazione sviluppino un canone linguistico con regole ben determinate. Sono permessi gli emoji? E puntini di sospensione? Quanto peso bisogna dare alla notizia che arriva per audio e non per testo, come invece accade più di frequente?
Io per esempio quando sono triste riascolto certi audio che ho mandato e in cui ero sembrata particolarmente brillante. Lo faccio per ricordare a me stessa come posso essere quando mi batte il cuore ad un’altra velocità, oppure ascolto gli audio dell’altra persona, mi concentro sulle pause in cui si mozza il respiro per pensare con precisione a cosa dire, oppure le risate.
Le risate in forma di audio mi fanno vibrare sempre perché sono così diverse dal silenzio invariabile di questa stanza.
Però l’altro aspetto che secondo me ritorna in questi rapporti amorosi che nascono per telefono è il fatto che sono fragili, che c’è sempre qualcuno dei due che non li prende sul serio. E che quindi nascono e si nutrono e finiscono per messaggio e il giorno dopo basta strusciare il dito verso sinistra e cancellare la chat per aver buttato il bimbo con l’acqua sporca.
Gli innamoramenti al telefono sono ontologicamente disequilibrati, dei due vince chi è meno dipendente dal telefono o chi ha un orgoglio più spiccato oppure chi ha una solida carriera di Risiko alle spalle e conosce diverse strategie per uscire dalle situazioni scomode.
Mi sembra pure che ormai siamo talmente terrorizzati dal bisogno che abbiamo degli altri che non ci piace nemmeno che ci avvicinino. E così, visto che siamo animali sociali e per indole non possiamo farne a meno, lasciamo che gli altri si avvicinino, ma non troppo. Lasciamo che l’altro ci sia, ma solo con la clausola che ce lo si possa togliere dalle palle ogni volta che ci va, cliccando sul tasto home del nostro telefono, fino alla prossima notifica.
Eppure, per quanto l’innamoramento ci possa spaventare, per quanto ci possa atterrire la possibilità di non avere più controllo sulla nostra persona e sul nostro tempo, dobbiamo metterci l’animo in pace e accettare che l’innamoramento non è altro che indole, non è uno stato che ci scegliamo, ma una condanna che penzola su di noi ed è destinata a tornare, a ripresentarsi, come il cattivo tempo. È infatti la nostra aspirazione atavica quella di essere in moto, in movimento, alla ricerca della parte che ci manca per tornare a essere Uno. È Platone che ce lo dice, nel Simposio, attraverso la voce del commediografo Aristofane.
Aristofane racconta che un tempo la natura umana non era come quella che conosciamo oggi. Originariamente c’erano tre diversi generi: quello maschile, quello femminile e quello androgino, composto cioè per una metà dalla natura maschile e per l’altra da quella femminile. Del genere androgino Aristofane ci dice inoltre che queste figure erano rotonde, ricollegandoci così alla forma geometrica che per definizione è perfetta e completa: la sfera.
Inoltre, a differenza degli enti maschili e di quelli femminili, quelli androgini erano per definizione completi e bastanti a loro stessi. Fortissimi, al punto da peccare di tracotanza. Inebriati della loro completezza decisero di scalare l’Olimpo e di attentare gli Dei. Per difendere la categoria, Zeus decise di reciderli a metà, di spaccare in due la forza per renderli meno pericolosi. Ed è da quel giorno, dice il mito, che le due metà androgine continuano a cercarsi e quando si trovano si gettano le braccia intorno al collo e si stringono forte l’una all’altra, desiderando così di fondersi insieme, poiché ciascuna delle due parti non vuol fare nulla separata dall’altra.
Quindi ritorna ancora una volta il movimento che l’innamoramento presuppone, e da un punto di vista linguistico e da un punto di vista fisico. Innamorarsi presuppone avvicinarsi a qualcuno, toccarlo, stringersi pazzamente fino a diventare uno, mettersi nella posizione di osservare il mondo da un’altra prospettiva, quindi spostarsi dalla propria.
Ed è interessante come l’inattività in cui si entra quando finisce un amore, quella specie di stato depressivo misto a voglia di morte subito, in tedesco prenda il nome di Liebeskoma. Si tratta dello stato simil–comatoso di immobilità che si manifesta soprattutto la notte prima di dormire o la mattina non appena si schiudono gli occhi. Sintomi comuni sono: la voglia di passare tutto il giorno a letto, il pianto ingiustificato in qualsiasi momento della giornata, il costante percorrere e ripercorrere delle cose che si sono dette o fatte alla ricerca di un dettaglio incompreso che, se compreso, avrebbe potuto cambiare gli esiti del rapporto amoroso. Quando a mancare è l’ente verso cui tendiamo, il movimento non ha più ragione d’essere e sembra naturale richiudersi in sé stessi, smettere di fare mosse. L’immobilità è il posto più sicuro per chi non ha più dove andare, per chi decide che è il momento di far rimarginare le ferite.
A questo proposito il filosofo Byung–Chul Han ha messo in evidenza un elemento che collega lo smartphone G Flex di LG, la pelle liscia e l’amore. A quanto pare la superficie di questo telefono ha la capacità di auto–curarsi, cioè se si verifica un graffio a seguito dell’uso del telefono, la superficie è capace, dopo un po’ di tempo, di eliminare il graffio. Quasi come una pelle organica, il telefono è in grado di curarsi le ferite. Ed è interessante come sia proprio la ferita ad essere il punto di contatto fra il telefono, la pelle, e l’amore. Nel suo saggio sull’amore e sul telefono Han si domanda: «e non è proprio così che nell’amore oggi si cerca in tutti i modi di non ferirsi?».
Mi viene da dire che è vero, che oggi si cerca in tutti i modi di non ferirsi. Ma mi viene da dire che la stessa affermazione doveva essere vera anche per mio padre e mia madre, e ancora per mio nonno e mia nonna.
Non ferirsi in amore è lo scopo a cui tendono tutti da quando esiste la lirica greca, il punto è che la lirica greca non sarebbe esistita se non ci fossero stati feriti per amore.
Credo allora che sarebbe più corretto riflettere su un’altra domanda: dato che le ferite sono inevitabili, perché oggi non vogliamo avere a che fare con le ferite che l’amore ci provoca?
Sicuramente una risposta è di tipo sociale ed ha a che fare con la stessa questione di quando si preme il tasto home del telefono per smettere di comunicare con l’altro polo. È proprio una certa naturale disposizione a prestare il fianco, ad aprirsi, che oggi mi sembra essere l’errore universalmente riconosciuto come più grave in cui incorrere quando ci si approccia all’innamoramento. Nei discorsi al telefono che interessano le relazioni mie e quelle dei miei amici e delle mie amiche ricorre spesso il topos del non abbassare la guardia, non aprirsi, non prestare il fianco a nessuno per evitare di farsi far male. Il che è una strategia che mi risulta nuova, mi ricordo di una lontana fase della mia vita in cui mi lanciavo di corsa verso l’altro, con le braccia spalancate e totalmente disinteressata al fatto che dall’altra parte ci potesse essere qualcuno a brandire un pugnale con cui farmi un bel lavoretto al fianco.
Ma adesso non è più così, tutto ciò che desidero e che mi sembra desiderino anche gli altri è restare interi, e forse ha a che fare con questa fase di vita in cui siamo tutti un po’ feriti, stiamo sanguinando, stiamo perdendo le energie a ripensare un futuro di cui non conosciamo le caratteristiche. Un’attività, questa, che per ovvi motivi molti di noi si ritrovano a svolgere da soli. Stiamo gradualmente tornando al piacere masochista di essere monadi e l’altro non può che essere fonte di sospetto. Non solo ci può passare un virus, ma ci può anche spaccare emotivamente in un momento in cui non ci sono alternative divertenti per non pensarci più, come andare a fare un fine-settimana in una località a basso costo. Con questi presupposti mi sembra ragionevole non voler correre rischi, restare immobili, in una stasi che contribuisce ad incancrenirci nella nostra solitudine.
Stare seduta sul divano, in una stanza isolata, in una casa di Berlino, in mezzo ad un pandemia, sta direttamente ed indirettamente cambiando il mio DNA di donna sociale. Ci sono giorni in cui parlo molto al telefono, ci sono giorni in cui non parlo con nessuno, non creo collegamenti, non creo ponti. Non c’è movimento e quindi non ci può essere innamoramento o amore. La scelta la compio perché non voglio più innamorarmi, ma anche perché se volessi non ne troverei le vie possibili.
Sembra che questo ciclo di persone che vanno e che vengono, che ci lasciano o ci tolgono qualcosa, che ci innalzano o ci stramazzano a terra, sia arrivato ad una fase conclusiva. Mi sembra proprio che dobbiamo cominciare a ripensare a come vogliamo gestire i nostri rapporti amorosi. Come saremo quando torneremo a toccarci? Tutta la solitudine che abbiamo vissuto sarà un pretesto per non sapere amare più? Per essere centrati sui noi stessi dopo anni di «cosa voglio mangiare io oggi?», «cosa voglio fare io oggi?».
L’innamoramento è una sinapsi fra due o più persone, un clinamen fortuito, un guizzo, un sussulto, un cocktail con gli ingredienti sbagliati che viene fuori buono lo stesso. Da dentro a queste stanze il contatto è impossibile per chi vive da solo e ogni giorno che passa sembra convincerci che tale vita immota che stiamo vivendo sia realmente percorribile, futuribile, anche quando potremo uscire di qui.
Stiamo facendo seriamente amicizia con l’idea che stare da soli va bene. E forse sarà anche vero, nella nostra solitudine siamo al sicuro dal dolore, dal dubbio, dal rifiuto.
Ma quel dolore in qualche modo non era anche la prova che eravamo in movimento, che stavamo andando da qualche parte?
*Marco Amerigo Latagliata è un illustratore e graphic designer torinese.
Ha collaborato con Feltrinelli, Loescher, Jacobin, Patek Philippe.
Cinema e musica, fashion design, arte contemporanea, fumetti, paesaggio fisico e virtuale: tutto questo è fonte di stimolo che confluisce nei suoi lavori.
Gli piace raccontare storie, concetti e stati d’animo attraverso le immagini. I suoi filtri sono i colori vivi, l’ironia e un’attitudine pop.
Sito
Instagram
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin