Avevo appena visto il film di Wim Wenders, quando un libro mi ė venuto a cercare.
Dico così perché è un libro che, pur avendo portato da Roma a Berlino tanti anni fa, non ricordo neanche di aver letto. Un libro che anzi neppure ricordo di aver acquistato, e il cui autore mi risuonava del tutto ignoto.
Eppure, mentre cercavo altro in uno scaffale, e proprio nel momento in cui cercavo di chiarire certi miei pensieri sul film di Wenders, ecco che trovo questo libro.
Lo prendo, lo apro, e, nonostante la sua prosa “idiosincratica”, lo leggo d’un fiato.
Lo ritengo un evento fortunato, forse solo in parte fortuito… Sta di fatto che questo libro mi ha aiutata a mettere a fuoco alcune riflessioni sul film di Wenders.
E ne sentivo la necessità.
Il libro si chiama un Uomo che dorme, di Georges Perec, edito dalla Quodlibet.
Racconta di uno studente che una mattina, invece che andare a sostenere un esame, lascia suonare la sveglia e decide di non alzarsi.
Da questo momento comincia per lui una nuova vita: egli si ritira gradualmente dal mondo, la sua esistenza va riducendosi ad atti ordinari e ripetitivi: leggere seduto vicino al tavolino, perdersi ad osservare una crepa nel soffitto, ascoltare i rumori della casa. Poi, i soliti gesti: “alzarti, lavarti, rasarti, vestirti”.
La stanza dell’uomo diviene “il centro del mondo”, e il mondo un luogo in cui muoversi solo come uno spettatore silenzioso, che anela “aderire al passare del tempo senza attesa, né ribellioni”.
Nessuno squilibrio, nessun disordine, un vivere “senza crisi” e senza “smania”, là dove il tempo scorre ma tu non sai mai che ore sono.
Mi risuona familiare. Mi viene in mente il protagonista del film di Wenders, Hirayama, e il suo orologio lasciato (quasi!) sempre sulla mensola prima della porta di casa. Poi la sua stanza, nella quale così mirabilmente riusciamo a penetrare, assieme al rumore di una scopa di saggina fuori dalla finestra.
Anche l’uomo che dorme di Perec ogni giorno spende pochi spiccioli per comprare sempre la stessa cosa, no, non una lattina di caffè freddo, ma Le Monde.
Lo legge però senza interesse alcuno a decifrare i fatti del mondo, senza alcun interesse “funzionale”, poiché quello che l’uomo di Perec rivendica, in fin dei conti, ė una resistenza “all’attivismo” inteso come unico modo di stare al mondo, come unica “utopia moderna” dell’uomo occidentale: è il resistere a un’idea della vita che debba “rivelarsi solo nello spettacolare”, “nell’esemplare, nel significativo”, come scrive Gianni Celati nella postfazione.
Un uomo, ancora, che intende ritirarsi da
questo gran calderone, questa fornace, questa graticola che chiamiamo vita, questi miliardi di intimazioni, incitamenti, moniti, esaltazioni e disperazioni, questo mare di obblighi a non finire, questa eterna macchina per produrre, macinare, scialacquare, trionfare su ogni insidia e ricominciare da capo, questo dolce terrore che vuole regolare ogni giorno e ogni ora della tua esile esistenza!
L’uomo di Perec rivendica insomma una condotta di vita in cui non ci sia nient’altro da dire se non: “leggi, sei vestito, mangi, dormi, cammini”, una vita in cui non ci sia da aspettarsi niente, e in cui “imparare piuttosto la solitudine e l’indifferenza, la pazienza, il silenzio”.
L’uomo di Perec –che si muove a Parigi come Hirayama a Tokyo– quando si reca a mangiare al solito bancone della Petite Source, simile ad Hirayama al tavolo della bettola sotto la metro, si propone unicamente di “nutrirsi”.
Il cibo, con le sue sfumature di gusto e di essenza, non ha potere su di lui.
Anche l’uomo di Perec sogna in bianco e in nero.
Ad occhi chiusi, quando comincia “l’avventura del sonno”, la memoria “identifica le vie percorse mille volte” e non è notte né buio, è il mondo intero a essere nero, naturalmente nero, come sul negativo di una fotografia.
Ancora, in un altro passo, egli dice che potrebbe rimanere “tutta la vita davanti a un albero”. Senza per questo poterlo però “esaurire”, “senza poterlo capire” perché c’è soltanto da guardare l’albero, senza aspettarsi di trovarvi un senso, senza chiedere neppure “al rumore del vento di farsi oracolo”.
Nel libro di Perec, in questo vivere “smettendo di guardare l’ora e di contare i minuti”, come un uomo “senza ribellione”, senza “desideri e risentimenti”, novello scrivano Bartleby (non a caso citato), si profila però il sintomo di un disagio.
La vita dell’uomo che dorme ha qualcosa di soffocante e triste, qualcosa che non ha nulla di romantico ma che anzi, nel flusso ripetitivo dei gesti quotidiani, nella rappresentazione dell’infra-ordinario, dissolve ogni tipo di esaltazione romantica, per lasciarci alla fine solo la rappresentazione di uomo indifferente e solo.
Ora, molta critica ha riconosciuto nelle intenzioni del film di Wenders anche la celebrazione della “retorica delle piccole cose”.
Se l’uomo di Perec, davanti a un albero, non si aspetta dall’albero altro che sia ciò che è, in una natura che non “snerva e non placa”, l’Hirayama di Wenders sembra invece suggerire che da quel guardare possa provenire anche un’emozione, un momento di poesia e di gioia.
Hirayama ė “un uomo che dorme” mancato.
Non sappiamo cosa sia accaduto prima nella sua vita. Come non sappiamo nel libro di Perec cosa sia successo davvero al protagonista per decidere, un giorno, di non recarsi a un esame, di non alzarsi, di non ascoltare più la sveglia né di guardare più l’orologio.
Ma non importa.
Ad importarci dovrebbe essere il capire cosa succede se si cede a “quell’oscuro desiderio”, che forse in fondo un po’ tutti abbiamo, “di ritirarci dal mondo senza scomparire del tutto”.
La visione di Wenders, più orientale, sembra in questo senso anche più consolatoria. Ma è davvero così?
Forse questo rimane per me il punto di maggiore riflessione e dubbio sul film.
Nonostante la tentazione di cedere alle lusinghe di una filosofia che trova appagamento anche nella ripetizione di una vita ridotta a pochi atti ordinari, quello che per me in fondo traspare, in filigrana, è la solitudine cui anche Hirayama, così come l’uomo di Perec, si è votato.
E i Perfect Days, in quest’ottica, realmente sono forse solo quelli in cui la solitudine viene spezzata: un bacio sulla guancia dato da una ragazza con cui si è condivisa della musica; una nipote che irrompe nella tua stanza, “centro del mondo”. L’abbraccio di una sorella. L’abbandonarsi al canto di una donna che forse si ama, il recarsi in un ristorante anche per quello che di conviviale il rito del mangiare ha da offrire. Ancora, giocare con un uomo che ti ha appena detto che sta per morire.
Se “la sola cosa che ti importa è che il tempo scorra e nulla possa colpirti”, è solo quando la realtà si dimostra più forte, irrompendo con la sua umanità, che succede davvero qualcosa di speciale, di perfetto nella sua imperfezione.
Si aderisce con sentimento a un mondo a colori, che non è più confinato in una vecchia scatola di foto.
Nell’alternanza di questi momenti si gioca anche il finale del film di Wenders, con la meravigliosa trasfigurazione del viso di Hirayama, ora nel sorriso, ora nel pianto, alla luce di un nuovo giorno che nasce.
Ciò che mi sembra esserci di davvero potente, in conclusione, non è il ridurre tutti i momenti della vita a dei Perfect days, quanto il mostrare come realmente “perfetti’ quelli in cui la vita si misura con il mondo, senza ritirarsi da esso.
Perché se è pure allettante, e a volte utile, aderire alle cose senza cercarne per forza i significati profondi, lasciandosi toccare, o meno, dall’ordinario, è pur vero che niente è paragonabile all’intensità di esporci, anche con le nostre fragilità, a quella vita cui tentiamo di rimanere, se non indifferenti, almeno distaccati.
Un uomo che dorme di Georges Perec sembra giungere a simili conclusioni e termina con “un’inversione di rotta”.
Il gioco è finito.
Non sei più il padrone anonimo del mondo, quello su cui la storia non aveva presa, quello che non sentiva cadere la pioggia, che non vedeva venire la notte. Hai paura e aspetti. Aspetti in Place Clichy che la pioggia cessi di cadere.
Come in Wenders, il libro si chiude sull’immagine di un uomo vulnerabile, non indifferente, che si accorge della pioggia, che aspetta che cessi e che la vita riprenda.
Nora Cavaccini
Scrittrice (narrativa, teatro, saggistica) + lista di mestieri altri, tra cui idea e gestione del progetto HAUS, house-concert a Berlino. Nata a Roma, ha conseguito un dottorato a Siena in Italianistica e poi si è trasferita a Berlino. A questa città ha dedicato il suo blog (Povera ma sexy. Postkarten aus Berlin) che è anche una rubrica sul quotidiano Il Mitte. Ha grilli per la testa e una passione per le vongole. Escogita un modo per coltivarle nelle acque remote di Wannsee.
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