Mauro Mondello, direttore di Yanez, e Alessandro Borscia, collaboratore storico della rivista,
hanno percorso in un viaggio on the road, sin dallo scorso marzo, le strade di
Thailandia, Cambogia, Vietnam e Corea del Sud.
Ogni settimana, nella rubrica speciale Transasiatica, ci hanno presentato
pensieri sparsi, immagini, resoconti, impressioni, tracce.
Di seguito, la puntata finale della loro avventura.
A vida é o que fazemos dela. As viagens são os viajantes. O que vemos não é o que vemos, senão o que somos.
La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.
Fernando Pessoa
Le tappe del viaggio
Bangkok – Siem Reap, 402 km
Siem Reap – Battambang 164 km
Battambang – Phnom Pehn 293 km
Phnom Pehn – Koh Rong 268 km
Koh Rong – Kampot 136 km
Kampot – Sa Dec 200 km
Sa Dec – Saigon 134 km
Saigon – Nha Trang 434 km
Nha Trang – Dalat 133 km
Dalat – Da nang 640 km
Da Nang – Hoi An 41 km
Hoi An – Hue 130 km
Hue – Tam Coc 556 km
Tam Coc – Hanoi 90 km
Hanoi – Busan 2750 km
Busan – Gyeongyu 76 km
Gyeongyu – Daegu 56 km
Daegu – Andong 78 km
Andong – Seoul 191 km
Qui è possibile visualizzare la mappa interattiva del viaggio
Seul – Roma
di Alessandro Borscia
Con un certo eccitamento per l’imminente traversata intercontinentale di 15 ore che mi avrebbe riportato a casa, sto per lasciare per sempre quello che per due settimane è stato il mio rifugio di Seul.
Il posto dove ogni sera era bello tornare e ritrovare meccanicamente le rassicuranti abitudini che durante la giornata avevano lasciato il posto alla curiosità, allo stordimento, alla stanchezza, prodotti dalle tante novità della megalopoli coreana.
Fra le immagini che mi rimangono c’è sicuramente quella che ogni giorno potevo contemplare dal terrazzino della casetta sulla sommità di Hannam-dong, sulla collina a nord del fiume Han. Rilassante era ascoltare il rumore in sottofondo del traffico che saliva dal basso, simile al frangersi di onde lisce contro la riva. Il fiume Han, che scorreva sornione sotto di noi, divide la grande metropoli in due e il ponte Dongho, che lo sovrasta, non smette mai di essere percorso dalle auto, dagli autobus e dai treni.
Di notte, o verso l’imbrunire, faceva bene mettersi a guardare le mille luci rosse dei fanali di coda delle auto che scorrono da una parte e i punti bianchi dei fari che vanno dall’altra.
Quest’ultima giornata a Seul è luminosa, il vento da Nord ha abbassato la temperatura e spazzato via la foschia e l’alone opaco che copriva la città, regalandoci una vista chiara e inedita, con gli edifici che sembrano apparire per la prima volta, tale è la nitidezza dei loro contorni.
Prima di lasciare la casa, mi regalo un ultimo inconveniente. Afferro il coltello “made in Germany” per affettare il pane e insieme a quello mi affetto anche il dito. Il fiotto di sangue arriva a colpirmi il bicipite ma dopo alcune fasciature con il cerotto “tecnico” del mio compare e numerose imprecazioni, tutto si sistema e, quasi in perfetto orario sulla tabella di marcia, ci facciamo un’ora e mezzo abbondante di metropolitana per raggiungere Incheon, una città di due milioni di abitanti a ridosso di Seul, in cui si trova l’aeroporto, costruito su un isolotto.
Il terminal 1 è talmente grande che sembra che non ci sia nessuno, una sensazione aggravata dal fatto che alle dieci di sera i negozi sono tutti chiusi. A parte questo, il volo parte puntuale.
Il 21 di maggio, quindi, è iniziato da poco più di un’ora quando le ruote dell’aereo si staccano dal suolo: in quel momento ho pensato che dopo esattamente 70 giorni di viaggio, si era arrivati alla conclusione.
Il tutto era iniziato il 14 marzo, con una traversata dalla Germania alla Thailandia, ed è finito con un altro lungo salto, dalla Corea a Roma. In mezzo ci sono state le immense metropoli dell’Asia orientale: Bangkok, Phnom-Phen, Saigon, Hanoi, Busan, Daegu, Seul. E tante altre città e luoghi che abbiamo toccato nel percorso: Siem Reap, Battambang, Sihanoukville, Koh Rong, Kampot, Sa Déc, Da Lat, Nha Trang, Da Nang, Hội An, Huế, Ninh Binh, Gyeongju, Andong.
Ripenso a quella sera nella malinconica capitale cambogiana mentre stiamo percorrendo di notte la strada buia e deserta per tornare nel nostro essenziale, ma dignitosissimo albergo, in una parte periferica e non certo ricca della città, sotto una pioggia intensa e fragorosa, senza ombrello e con le poche persone incontrate che ci guardavano divertite. Quest’immagine mi viene in mente, in una logica di contrasto, sfogliando le pagine patinate delle riviste che sono messe a disposizione dei viaggiatori in transito all’aeroporto di Abu Dhabi, dove abbiamo fatto uno scalo di tre ore in attesa di proseguire il volo per Roma (mi spiegava Mauro che fra i tre Emirati Arabi, gli altri sono Doha e Dubai, Abu Dhabi è quello che sta facendo costruire una succursale del museo Guggenheim di New York).
I magazine si chiamano élite traveler, PRESTIGE e hanno sottotitoli espliciti come luxurious living o private jet lifestyle. Mi colpiscono i prezzi di alcuni dei pacchetti turistici offerti: itinerario in Cina di 11 notti da 42mila dollari a persona o, fra le tante e bizzarre esperienze che si possono permettere i ricchi del mondo, un viaggio filantropico in Sud Africa da 62.850 dollari a capoccia, comprensivo però dei 25mila dollari della donazione filantropica. Per chi fosse interessato a quest’ultima esperienza, contattare una certa Elizabeth Ellis e il suo Blue Marble Private, che ha nel suo listino anche la nuotata in mezzo agli squali balena, sempre in Sud Africa, alla modica cifra di 17.500 dollari (7.500 sono sempre di donazione).
Lo schermo digitale davanti a me mostra in tempo reale la rotta dell’aereo e questo mi porta a fare una considerazione di tipo, diciamo, erratico: per esempio, penso al fatto che in 15 ore di volo abbiamo percorso circa 11.250 chilometri, da Seul ad Abu Dhabi e poi Roma. Per farne più o meno 4250, usando quasi tutti i mezzi terrestri possibili – dal furgone, all’autobus, al minibus, al taxi, al motorino, fino al treno e perfino a piedi – noi ci abbiamo messo due mesi, escludendo la tratta Hanoi-Busan, coperta in aereo.
Nel tratto dall’Emirato di Abu Dhabi a Roma, ad un certo punto, mi accorgo di aver perso da qualche parte il cappellino con la spilla vietnamita che orgogliosamente mi portavo dietro da diverse settimane. È il secondo cappello che perdo in questo viaggio: il primo l’avevo seminato in Cambogia. Impreco poco, capisco in fretta che non posso farci niente e accetto la realtà delle cose. Questo piccolo episodio mi porta invece a fare una riflessione più ampia, che ha a che fare con i preziosi insegnamenti da non dimenticare, almeno per me, che questo viaggio, come ogni viaggio, lascia in eredità. Una delle lezioni del viaggiare, dell’abbandonare per un po’ la rassicurante, benché a volte insopportabile, dimensione quotidiana, sta proprio nel fatto che spesso ci si trova ad affrontare il dover accettare la realtà per quello che è, senza poter vederla con la lente deformante del desiderio, che impedisce di diventare ciò che si è.
Ecco cosa si impara viaggiando: ad andare un poco più vicino a essere quello che si è, come dicevano i filosofi greci.
Assaporare anche solo per un po’ questo stato d’animo dona energia, regala forza e, soprattutto, lascia un grande odore di libertà.
Il ritorno
di Mauro Mondello
Quando ero più giovane rientravo sempre a casa arrivando dal mare. Il treno, pieno oltre ogni immaginazione di noi, che allora eravamo ancora terroni e migranti, andava spedito sino a Napoli, per poi rallentare inesorabilmente e compiere quegli ultimi 450 chilometri risucchiato dentro un andamento differente, dove tutto deve, per forza, mostrarsi nella sua veste molle, letargica, come se non si trattasse più di un viaggio ferroviario da un punto all’altro del mondo, ma di un trasporto ultradimensionale, verso un pianeta lontano: non era un Intercity, ma una navicella spaziale.
Salerno, Sapri, Paola, Lamezia Terme, Vibo, Rosarno, Gioia Tauro, Villa San Giovanni.
Nella via crucis personale di chiunque abbia percorso, almeno una volta nella vita, il viaggio di ritorno a casa su un treno notturno in partenza da Milano, da Bologna, da Venezia, quei luoghi, mai esplorati, soltanto immaginati dallo scompartimento angusto di un vagone ormai ridotto a carro bestiame, il nome dipinto di bianco sulle placche azzurre in alto, alle banchine di sosta, sono dei pezzi profondi di storia.
Dopo tanta, estenuante, lentezza, si veniva però ricompensati.
A Villa si scendeva dal treno e si aspettava la prima nave verso la Sicilia. L’isola, finalmente.
Non era tanto, non era solo, l’immagine bruna e formosa della costa.
Non era tanto, non era solo, il mare increspato di bianco che si infrangeva sulla chiglia arrugginita del Caronte & Tourist o della nave veloce delle Ferrovie dello Stato.
Non era tanto, non era solo, la visione della Madonna della Lettera che dalla falce del porto ti veniva a dire che Vos et ipsam civitatem benedicimus.
No, non era tanto, non era solo, quello.
Si trattava, soprattutto, di una sensazione che ti prendeva dentro la bocca dell’anima, un’emozione incontenibile, che montava pulsante durante i 35 minuti della traversata dello Stretto e che si legava a un unico ed universale concetto: quello del ritorno, la tua terra lì, che ti aspetta, e tu che continui a riabbracciarla, ogni volta con lo stesso sentimento, a pensare che in fondo non sei solo, che lei sarà sempre lì ad aspettare, nei tuoi occhi le lacrime dure e accecanti di chi ha visto una moltitudine di luoghi, ma che poi torna sempre nello stesso.
Quello che mi resta dentro di questo viaggio è un’infinitudine così maestosa, talmente immensa, da non permettermi una sintesi che superi il banale, che trascenda il già detto.
La prima cosa che mi viene in mente, alla ricerca di un ricordo, è il viaggio in moto da Hoi An a Hue, 130 chilometri in sella al motorino guidato da Alessandro, con un paese umido e orgoglioso che ti scorre accanto, vorresti acciuffarne un pezzo e portartelo via, ma non ci riesci e comunque non servirebbe a niente: è bello qui, è bello adesso.
La verità è che fra i battiti di questo straordinario percorso non ce ne è uno più importante di un altro. Andare avanti, senza il pensiero di quello che arriverà nell’ora successiva, cercando la spensieratezza così dolce che solo la lontananza riesce a regalarti: questo è, come sempre, ciò che mi resta.
E il mio compagno di viaggio.
Le nostre discussioni sulla vita, sulla morte, sulle cose semplici e volgari del giorno e della notte, le sue decine di pizze e di polli fritti, la luce da lettura fissata con una fascia intorno alla testa, lo zaino abnorme calcato sulle spalle, i nostri piccoli riti quotidiani, sempre gli stessi.
Perché “i viaggi sono i viaggiatori”.
Di tutte le cose che ho visto in questo viaggio, è il mio rapporto con Alessandro la più bella.
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