Mauro Mondello, direttore di Yanez, e Alessandro Borscia, collaboratore storico della rivista, percorreranno in un viaggio on the road, fino al prossimo giugno, le strade di Thailandia, Cambogia, Vietnam, Laos, Cina, Mongolia.
Ogni settimana, nella rubrica speciale Transasiatica, ci invieranno
pensieri sparsi, immagini, resoconti, impressioni, tracce.
di Mauro Mondello
Sa Đéc, VIETNAM
Entriamo in Vietnam a piedi, attraversando la frontiera con la Cambogia e puntando la città di confine di Ha Tien, attaccati alla costa sud che si affaccia sul Golfo del Siam. Dopo aver conquistato un nuovo timbro sul passaporto ci dirigiamo verso un assembramento di uomini e tavoli e birre Tiger e motorini Honda 50. Ci scrutano speranzosi al riparo di una tettoia e dei loro cappelli sgualciti, cinquanta metri a sinistra dopo aver superato i controlli di polizia vietnamiti. Per 8 dollari (ma Alessandro alla fine gliene lascerà 10, cioè a dire quello che avevano chiesto prima di cominciare la nostra conversazione a colpi di numeri esposti sulle dita della mano e sventolamenti di banconote sconosciute) ci portano in scooter sino alla stazione degli autobus di Ha Tien. E’ un bell’entrare in Vietnam. Lo zaino in spalla, in sella a un motorino che trasudamerica, guidato da un signore sulla cinquantina con gli occhi buoni e la pelle cotta di chi ha vissuto sempre qui, a 35 gradi dallo scorrere del tempo. Sulla destra si apre uno specchio d’acqua luminoso, le barche pronte a salpare verso l’isola hipster di Phu Qoc.
“Dove andate?” Non lo sappiamo ancora dove andiamo. Chau Doc? Can Tho? Vinh Long? No, andiamo a Sa Dec. Ho visto una foto del mercato che si distende seguendo la linea curvosa del fiume Mekong, una lunga fila di tendoni colorati, donne accucciate che tagliano il pesce e trascinano in grosse ceste di vimini strani frutti ovoidali con le squame e il corpo color porpora: eppure sulle nostre guide non c’è scritto nulla di Sa Dec. Compriamo il biglietto del bus dalla prima compagnia che ci capita a tiro, senza sapere a cosa stiamo andando incontro. Il nostro è un mezzo “sleeper”, il che significa che da fuori sembra un autobus normale, mentre dentro, invece, è diviso in tre sezioni, sinistra, centro e destra, da due piani l’una, su cui sono costruite delle file di miniletti, in pratica delle capsule a misura di essere umano locale da cui farsi inghiottire, entro cui ogni movimento deve, per forza, rimanere contingentato. Vorremmo ripensarci, soprattutto io, ma non è possibile. Alessandro in realtà questi autobus per dormiglioni li adora. Non sono comodissimi, ma è il concetto, quest’idea del doversi per forza addormentare, del dover necessariamente rimanere distesi, del non poter compiere alcuna azione differente dal sonno, che lo affascina.
Sa Dec è meglio di quello che ci aspettavamo. Un grande stradone asfaltato, Nguyễn Sinh Sắc, racca centinaia di motociclette al secondo; ai lati si ergono, un po’ claudicanti, edifici anni’70 di cemento armato e finestre tagliate a irregolari spicchi rettangolari, pieni di chiazze nerastre che salgono dai tubi di scappamento, come macchie di pece sulle dita dei piedi d’estate: alla fine ti ci abitui e le togli a casa con la pietra pomice.
Tutta la gente per strada ci saluta, tutti ci vogliono bene, tutti ci indicano come se fossimo due grandi attori americani. La realtà è più semplice: siamo i due unici turisti della città e anche i due soli presenti sul territorio urbano Sa Dec a superare il metro e ottanta centimentri di altezza. All’ora dell’aperitivo beviamo una birra in fondo al mercato, una Tiger Crystal, nel caldo soffocante, ma in fondo morbido, del lungofiume, circondati da ragazzi del luogo che ci sorridono e ci chiedono se tifiamo per la Juve (no!!!) e ci propongono uno scambio, accettato, fra le nostre strane sigarette rollate col tabacco e le loro marca Hero, il cui fumo ha esattamente la stessa consistenza solida, pietrosa, di quello che esce dai motorini di questo paese.
Poi andiamo a cena e io cerco di spiegare disperatamente che voglio solo del riso, del semplice riso bianco, l’unico elemento che possa distinguere come privo di bestia fra quelli che mi si presentano davanti. Ma non ci riesco. Non mangio.
Alessandro boccaseziona della carne che decidiamo potrebbe essere di rana. Prima gli piace. Poi un po’ di meno. Alla fine non gli piace più.
Cucina vietnamita 2 – Transasiatica 0.
di Alessandro Borscia
Hà Tiên – Sa Đéc
Il confine con la Cambogia lo attraversiamo a piedi ad Hà Tiên, nell’estrema parte sud-occidentale del Vietnam. Viene in mente una famosa pubblicità di alcuni anni fa dove il “turista fai da te”, invece del minaccioso “ahi, ahi”, riceve in regalo, oltre all’emozione di valicare un confine di Stato con le proprie gambe, anche l’elettrizzante esperienza di raggiungere Hà Tiên, cittadina di 80mila anime, in sella a un motorino, unico mezzo di spostamento disponibile per il “turista fai da te” al confine cambogiano-vietnamita.
Sa Đéc, tranquilla e fascinosa cittadina di circa 200mila abitanti a 170 chilometri dal confine, distesa nell’immenso delta del Mekong, è la nostra prima tappa in Vietnam. Arriviamo nel pomeriggio ma abbiamo l’occasione di camminare nelle vie del mercato lungofiume, costeggiato da eleganti edifici del periodo coloniale francese. Una piccola gemma di questo tipo di architettura è la villetta del protagonista del romanzo di Marguerite Duras, “L’amante”, in cui la scrittrice francese, che ha abitato a Sa Đéc dal 1928 al 1932, racconta la propria storia d’amore.
Impatto più autentico non potevamo averlo, visto che questa cittadina sembra essere dimenticata dai flussi dei turisti. In più di ventiquattro ore di sosta non abbiamo incontrato una sola persona occidentale. In compenso, gli abitanti del posto, specie i bambini e gli adolescenti, ci osservavano, ci salutavano e sorridevano al nostro passaggio.
di Mauro Mondello
Saigon, VIETNAM
Saigon è una canzone dei Godspeed You! Black Emperor. Saigon è Moya, che parte lenta e dolcemente trascinata, con i violini ad annunciare l’arrivo dell’apocalisse e poi una pausa, sembra quasi che le cose possano andare un po’ meglio, l’apocalisse non arriva più, adesso il suono è morbido e le chitarre attendono qualcosa, forse non è una tragedia, forse tutto può finire bene. Di colpo si alza il ritmo, tutto diventa emotivo, carnale, la città comincia a entrarti dentro con le sue migliaia di motorini che suonano e scalciano per farsi vedere, con i suoi palazzi prima brutti, nei dintorni di Trần Đình Xu, poi pian piano più sinuosi e avvolgenti, nella vecchia zona francese. Di fronte alla copia imperfetta della basilica di Notre Dame che i francesi costruirono, fra il 1863 e il 1880, pensi di essere dentro un film di fantascienza: dove siamo? Nella vecchia capitale del Vietnam o in una cittadina nei dintorni di Le Havre? Il pezzo sta per esplodere adesso, e anche Saigon. Era l’apocalisse, non c’era scampo e siamo fuggiti solo per un momento. Ora tutti gli strumenti, la batteria, le chitarre, i sintetizzatori, gli archi, le voci, sbattono e accelerano e piangono per rimanere attaccati dentro i minuti di questa canzone, i volumi sono al massimo, qualunque cosa stia per accadere, è chiaro che nessuno qui potrà salvarsi. E poi avviene. Il pezzo si lancia dentro l’oceano di inquietudine che ha lungamente minacciato di esplorare e noi ci buttiamo, con la voracità di chi la vuole guardare in faccia questa tanto attesa catastrofe, nel caldo torrido dei 40 gradi che ti si appiccicano addosso, nei vapori delle braci allestite a bordo strada nei dintorni del mercato di Dahn Sinh, negli sguardi minuti delle ragazze che siedono sui motorini come se stessero sul divano di una cena di gala, nello stupore dei mezzi militari americani che campeggiano nel giardino del Museo di Guerra e ti raccontano di un popolo orgoglioso e imbattibile, nel caos straordinario di Cholon, con le insegne luminose a lampeggiarsi l’una sull’altra che nemmeno in Blade Runner, nelle bandiere rosse a falce e martello esposte al primo piano del grattacielo della Bitexco Tower, nelle serate madide di grigio e di asfalto, il cielo bianco di lattiginose carburazioni.
Saigon che si colorò di nero per poter restare rossa.
Saigon che s’inventò l’inverno per dimenticare l’estate.
Saigon che si addormenta alle 11 di sera e si risveglia a mezzanotte.
Saigon che fece finta di scomparire per divenire immortale.
Saigon che mostra i suoi proiettili, stretti forte in mezzo ai denti.
Saigon che non ha avuto il tempo di fare i bagagli ed è partita zaino in spalla.
Saigon che non ha lacrime, solo ferite e mani sporche.
Saigon che diventò Ho Chi Minh per ritornare ad essere Saigon.
di Alessandro Borscia
Saigon
Sono nato nel 1965, l’anno in cui gli Stati Uniti d’America s’impantanano definitivamente in quello che per loro diventerà il peggiore degli incubi: la guerra in Vietnam.
In quest’anno gli USA cambiano atteggiamento nei confronti del loro coinvolgimento in Vietnam: dagli attacchi aerei nel Nord del Paese, come ritorsione verso le aggressioni nel Sud dei Viet Cong , si passa ai bombardamenti sistematici. La campagna militare passerà alla storia con il nome di “Operazione Rolling Thunder”. Il 1965 è anche l’anno in cui il Presidente americano, il democratico Lyndon B. Johnson (subentrato alla Casa Bianca il 22 novembre 1963, poche ore dopo l’assassinio a Dallas del suo predecessore John Fitzgerald Kennedy) dà per la prima volta l’assenso all’invio in Vietnam delle truppe di terra: l’8 marzo 1965, tre battaglioni di Marines, 3000 uomini, sbarcano a Da Nang, 160 chilometri a sud della zona demilitarizzata all’altezza del 17° parallelo che divideva il Vietnam in due. Dovevano proteggere la base aerea militare USA da cui partivano i caccia in missione di bombardamento verso la parte settentrionale del Paese.
Sono cresciuto con Platoon, Il Cacciatore, Apocalypse Now, Full Metal Jacket, film che più di ogni altro si avvicinano all’orrore vissuto dai molti giovani soldati americani e vietnamiti. Arrivare a Saigon per me significa essere attratto dalla possibilità di capire ancora più a fondo le cause di quella guerra, dove gli americani si trovarono, come si dice, nella merda fino al collo.
Da una parte ci fu l’aver confuso la fine di un’epoca storica, quella coloniale (come di fatto era: la Francia uscì di scena dall’Indocina nel 1954 dopo la clamorosa disfatta nella battaglia di Điện Biên Phủ, durata quasi due mesi, fra le forze regolari e legionarie francesi e il movimento per l’indipendenza vietnamita, i Viêt Minh di Hồ Chí Minh) con una fase cruciale della Guerra fredda, inaspritasi pericolosamente nell’ottobre 1962 con la crisi dei missili di Cuba. L’ideologia della Guerra fredda prevedeva l’effetto domino in tutto il Sud-Est asiatico. Se gli Stati Uniti avessero perso nel Vietnam del Sud (in cui si succedettero in quegli anni cruciali o governi corrotti e autocratici o governi fantoccio voluti dagli americani), allora, come le tessere del gioco, tutto il Sud-Est asiatico sarebbe finito in mano ai comunisti. E molti, in America, credevano ardentemente a tutto questo.
In secondo luogo, ci furono molti errori di strategia e tattica militare e successivamente molta, troppa superficialità nel condurre le azioni di guerra. I military advisors, i consiglieri militari inviati da Washington per guidare l’addestramento delle forze militari dell’ARVN (Army of Republic of Viet Nam), l’esercito del Vietnam del Sud, portavano avanti strategie che finirono per inimicarsi la popolazione delle aree rurali meridionali (all’epoca l’80% dei vietnamiti viveva fuori dai centri urbani) e riferivano al governo di una situazione non realistica e troppo ottimistica. In una delle numerose visite in Vietnam del Segretario alla difesa americano Robert Mc Manara, tre giovani reporter, David Halberstom del New York Times, Malcom Brown dell’Associated Press e Neil Sheehan della United Press International, ebbero l’occasione di parlare con il Segretario americano e riferirono che nelle campagne, dopo esservi stati più volte, i contadini erano molto arrabbiati con i governi sudvietnamiti (che non facevano niente per loro) e che la realtà era molto diversa da quella che si dipingeva a Saigon, a Washington e alla televisione.
Un’impressionante immersione in questa realtà storica la offre la visita al War Remnants Museum (Museo della testimonianza della guerra). Il museo è stato inaugurato il 4 settembre 1975 ed è ospitato in quello che era l’edificio della United States Information Agency. Come recita il depliant, la fondazione ha il preciso scopo di studiare, conservare ed esporre le testimonianze dei crimini di guerra e le loro conseguenze ancora attuali (del micidiale Agent Orange, un defoliante) inflitti al popolo vietnamita dalle aggressioni delle potenze straniere. Non c’è nessuna indulgenza verso i visitatori francesi e americani, che inizieranno forse a farsi qualche domanda, una volta usciti dall’edificio.
Il piazzale antistante i tre piani della costruzione geometrica di sapore socialista ospita, oltre agli esemplari di aerei, carrarmati e artiglieria pesante dell’US-Army, una struttura che simula le celle e le condizioni di detenzione in cui si trovavano i prigionieri Viet Cong, condizioni che sono uguali a quelle dei prigionieri dei Khmer rossi di Pol Pot nel carcere S-21 a Phnom Phen. Il secondo piano del museo è dedicato all’esposizione delle fotografie e delle storie dei reporter caduti nelle guerre di Indocina e Vietnam ed è straordinaria. È impressionante vedere l’ultima fotografia scattata da Robert Capa, il primo corrispondente americano caduto in Indocina, pochi minuti prima di morire. Alle 14.50 del 25 maggio 1954, il grande fotoreporter nato a Budapest – riferisce John Mecklin, reporter del magazine LIFE che accompagnava Capa in quell’escursione nel delta del Mekong – dice: “I am going up the road a little bit…”. Alle 14,55 la terra fu scossa da una violenta esplosione e alle 15,10 Robert Capa cessò di vivere.
Fuori dal museo c’è la nuova Saigon, o Ho Chi Minh City, in frenetica via di sviluppo, un mix di comunismo e capitalismo con ricchi e poveri. E nove milioni di persone vivono in questa giungla di asfalto ribollente di calore e di smog prodotto da una quantità incalcolabile di motorini, per non parlare del numero dei condizionatori sempre accesi. I 37 gradi del sole sono in realtà 42 di indice termico, ed è tutto velenosissimo, per noi e per l’ambiente, verso il quale pochi purtroppo sembrano avere una coscienza critica.
Da Lat – Huê
I nomi delle città si susseguono uno dopo l’altro e cogliere, anche per una sola volta, la straordinaria diversità delle lingue come il vietnamita, che trasmettono il significato attraverso la diversità dei toni dei suoni (un tono piano, uno crescente e uno decrescente), è emozionante. Poter ascoltare la vera pronuncia vietnamita di toponimi come Nah Trang, Da Lat, Da Nang, Hoi An, Huê è una bellissima esperienza sensoriale.
Huê, sede dell’ultima dinastia imperiale Nguyễn e storica capitale del Vietnam unificato dal 1802 al 1945 (anche se dal 1883 sotto l’imperio coloniale francese) è per ora l’ultima delle fermate del nostro cammino, che ha visto le città menzionate sopra. Sotto l’aspetto ambientale, le prime ore della sera trascorse in questa città di 340mila abitanti del Vietnam centrale, in cui arriviamo dopo un viaggio in scooter di 135 chilometri da Hội An, ci dicono ben poco di nuovo rispetto alle altre città più a sud. Anche qui, motorini come invasioni di cavallette – le biciclette sono rimaste nei vecchi film – zanzare e insetti vari, inquinamento e temperature al limite della sopportazione. Alle dieci di sera 31 gradi con il 98% di umidità. Oggi, giovedì 18 aprile, a Huê la colonnina di mercurio ha raggiunto i 39 gradi, con un indice di calore a 49°. Per trovare refrigerio, almeno mentale, vado con la memoria alle immagini dei piumini appesi ai lati delle strade di Đà Lạt, la romantica ex località di villeggiatura dell’élite coloniale francese, nel sud del Vietnam, meta di vacanza preferita ogni anno per quasi un milione di vietnamiti: 1500 metri sul livello del mare, 20 gradi di media. Tutto pensato dai suoi fondatori francesi nel 1897, per sfuggire al clima umido e caldissimo del delta del Mekong.
Ad Huê, di ritorno dalla visita all’antica residenza imperiale fortificata (fatta costruire sul modello della Città Proibita di Pechino a partire dal 1804 dal fondatore della dinastia Nguyễn, Gia Long), sul farsi della sera, attraversiamo un lungo ponte che unisce le parti della città divise dal corso di un grande fiume. Una leggera brezza si alza dalle sue acque, il cui nome mi riporta al fascino terrorizzante della guerra che ha inghiottito fra il 1955 e il 1975 – date della Seconda guerra di Indocina o Guerra del Vietnam – le vite di tre milioni di vietnamiti, due terzi dei quali erano civili, e di circa 58mila americani. Quando guardavo i film sulla guerra in Vietnam, avevo la stessa età di quei ragazzi che per forza dovettero andare a combattere e questi pensieri mi vengono in mente mentre attraversiamo lo Hương Giang, il Fiume dei profumi.
DMZ, Demilitarized Zone
Un centinaio di chilometri a nord del Fiume dei profumi scorre da ovest a est un altro fiume, il Ben Hai, che forma una linea che ha diviso fino al 1975 il Vietnam del Nord dal Vietnam del Sud. Questo spartiacque territoriale fu deciso dalla Conferenza di Ginevra sull’Indocina l’8 maggio 1954, all’indomani della sconfitta dei francesi a Dien Bien Phu che concluse la Prima guerra d’Indocina. La divisione del Paese doveva essere una soluzione provvisoria in vista delle elezioni da tenersi nel luglio 1956, che avrebbero dovuto unire i vietnamiti.
Il 9 ottobre 1954, dopo la ritirata dei francesi, Ho Chi Minh e i suoi entrarono ad Ha Noi e occuparono la parte settentrionale del Paese. Nel Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem, autocrate corrotto, cattolico e ferocemente anticomunista, il 23 ottobre 1955 depose l’imperatore Bao Dai e si dichiarò presidente della sovrana Repubblica del Vietnam del Sud. Inoltre, non riconobbe gli accordi di Ginevra e le libere elezioni da tenersi l’anno successivo. Negò l’esistenza a nord della Repubblica Democratica del Vietnam (il Paese sovrano proclamato il 2 settembre 1945 da Ho Chi Minh dopo il ritiro dei giapponesi occupanti). Con l’aiuto degli americani, che sostennero il governo di Diem con 1,4 miliardi di dollari per l’economia e 508 milioni di dollari per la spesa militare, fondò nel 1955 l’ARVN (Army of the Republic of Viet Nam), l’Esercito del Vietnam del Sud.
Dall’altra parte, al di sotto della linea del 17° parallelo, fu attivo dal 1960 al 1977 il Fronte nazionale di Liberazione del Vietnam, l’organizzazione di guerriglia armata nota come Viet Cong. Il nome significa comunisti del Vietnam e in questo modo gli americani racchiudevano in un unico fronte le variegate componenti della resistenza dei sudvietnamiti all’aggressione statunitense. La parte maggioritaria ovviamente era costituita e controllata dal Dang Cong San Viet Nam, il Partito comunista del Vietnam, creato ad Hong Kong da Ho Chi Minh nel febbraio 1930. Dal maggio 1959, il governo comunista nel nord iniziò in tutta segretezza un’operazione mirata ad aprire piste attraverso la giungla e le montagne lungo il confine con Laos e Cambogia, per far arrivare uomini e materiali nel sud del Vietnam con lo scopo di supportare la guerriglia e scacciare il nemico. Il sentiero riprendeva un antico tracciato che passava in mezzo alle montagne, la Truong Son Road, e il nome con cui è passato alla storia è Ho Chi Minh Trail, il sentiero di Ho Chi Minh.
Da Huê partono ogni giorno bus e minibus carichi di turisti che vogliono visitare la zona demilitarizzata e i luoghi della guerra. Nella maggioranza dei casi si tratta di semplici colline o ponti, o steli su un sentiero ricoperto di vegetazione. Il mio tour inizia alle sette e sull’autobus mi ascolto un po’ di musica americana anni 60 che ha a che fare con questa storia. Attraversiamo la campagna vietnamita e saliamo verso gli altopiani centrali. La vegetazione è verde e rigogliosa, solcata da fiumi e torrenti dalle acque verdi. Oltrepassiamo piccole case di contadini circondate da piante di citronella, che serve a tenere lontano i pericolosi serpenti di queste parti. Ci vogliono quasi due ore per arrivare a Khe Sanh, l’avamposto del corpo dei marines degli Stati Uniti non molto distante dal confine laotiano, nella provincia di Quảng Trị. Gli americani avevano piazzato una serie di postazioni e basi fortificate subito sotto la DMZ (Gio Linh, Con Thien, Cam Lo, Camp Carroll, The Rockpile, Khe Sanh, questi i loro nomi), che avevano lo scopo preciso di sbarrare il confine fra Vietnam del Nord e del Sud ed evitare le infiltrazioni dei soldati dell’esercito nordvietnamita.
Khe Sanh è su un’area leggermente rialzata e molto ampia disseminata di bunker e il solo camminarci dentro fa rabbrividire. È tutto rifatto. Gli originali sono stati distrutti dai soldati dell’Esercito vietnamita del nord. C’è un esemplare del Boeing CH-47, il mitico Chinook, usato per il trasporto di truppe, mezzi, pezzi di artiglieria e visto tante volte nei film americani. Nella base militare erano di stanza 6000 soldati che dal 21 gennaio al 9 luglio 1968 furono tenuti sotto assedio da 30.000 militari dell’esercito del Vietnam del Nord sotto il comando del generale Võ Nguyên Giáp. Anche se Khe Sanh fu la prima base strategica militare abbandonata dagli americani (l’esercito nordvietnamita la occuperà dal 9 luglio 1968), l’elevato numero di vittime da parte vietnamita (le cifre vanno dai 1500 ai 10000 morti vietnamiti e 200 soldati US) ha fatto scrivere che fu una sconfitta strategica da parte americana. L’assedio di Khe Sanh, insieme all’offensiva del Tet e alla battaglia di Huê, è l’operazione militare più famosa di tutto il conflitto.
Tornando sull’autobus, dove la nostra austera guida vietnamita dal capello nero a grandi falde ci aspetta impaziente, mi rimane nella mente una fotografia appesa nella sala dell’impersonale costruzione che funge da museo, edificato nel centro della radura erbosa. È la foto di un marine americano, dotato di una certa dose di ironia, qualità riteniamo necessaria per vivere a Khe Sanh a quei tempi: “Caution: being a marine in Khe Sanh may be hazardous to your health” è la frase scritta sul retro della sua divisa. “Attenzione: essere un marine a Khe Sanh può essere pericoloso per la tua salute”.
Leggi la prima uscita di Transasiatica
Leggi la seconda uscita di Transasiatica
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