Mauro Mondello, direttore di Yanez, e Alessandro Borscia, collaboratore storico della rivista, dovevano percorrere in un viaggio on the road, fino al prossimo giugno, le strade di Thailandia, Cambogia, Vietnam, Laos, Cina e Mongolia.
Il governo cinese ha però negato a Mauro il visto d’entrata e l’esplorazione ha così subito una repentina e decisa virata verso Oriente: i due inviati si trovano adesso in Corea del Sud.
Ogni settimana, nella rubrica speciale Transasiatica, ci presenteranno
pensieri sparsi, immagini, resoconti, impressioni, tracce.
Introduzione di onomastica coreana
di Alessandro Borscia
È tradizione che in Corea ogni persona abbia un cognome (family name), normalmente formato da una sillaba, seguito da un nome (given name). La maggior parte dei nomi (given names) coreani, anche se questa consuetudine sta pian piano venendo meno, sono composti da una sillaba che indica la generazione di appartenenza (generational name) e da un’altra sillaba che è distintiva e unica per il singolo individuo.
Oggi, sia in Corea del Sud che in Corea del Nord, la pratica della sillaba generazionale del nome è ancora utilizzata per fratelli e sorelle. Il given name può risultare composto anche da più di due sillabe (in rari casi anche da una) e inizialmente non c’erano limiti legali alla lunghezza dei nomi. Questo ha portato a situazioni estreme e, almeno per noi, ridicole, come nel caso del nome di sedici sillabe che in caratteri latini risulta Haneulbyeollimgureumhaennimbodasarangseureouri. È per evitare tali situazioni paradossali che dal 1993 in Corea del Sud è stata introdotta una legge che vieta nomi lunghi più di cinque blocchi di sillabe.
I family names, i cognomi, sono composti invece da una sola sillaba e il più diffuso in Corea del Sud è Kim, seguito da Lee e Park. Circa la metà della popolazione coreana porta uno dei tre cognomi. La cosa importante da sapere riguardo ai cognomi coreani è che ognuno di essi è diviso in uno o più clan, bon-gwan, concetto che identifica la città di origine del clan. Per fare un esempio, il clan più numeroso è il Gimhae Kim, che sta per il clan Kim della città di Gimhae. Il Gyeongju Kim, anche se porta lo stesso nome, è un clan differente. Gyeongju e Gimhae, città considerate sede di origine dell’antenato fondatore della “casata” patrilineare, sono i rispettivi bon-gwan dei due clan. Per identificare il cognome di una persona è necessario dunque sapere il nome del clan cui la persona appartiene. Attualmente, sono dati del 2015, sono presenti in Corea 286 cognomi, family names, e il più diffuso, lo porta il 21,5% della popolazione dell’intera penisola coreana, è appunto Kim, che significa “oro”, “metallo”, “ferro”. Ebbene, nel 2000 le autorità sudcoreane hanno censito 348 linee di discendenza esistenti per Kim. Fra le persone famose nel mondo con il cognome Kim possiamo trovare oggi Kim Ki-duk, il regista sudcoreano autore di capolavori indimenticabili come Ferro 3 e Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, Kim Ji-soo, una dei membri del gruppo femminile sudcoreano K-pop Blackpink e naturalmente tutta la famiglia Kim, che governa la Corea del Nord dal 1948.
Questo sistema, in uso ancora oggi, ebbe il suo massimo sviluppo ai tempi della dinastia Joseon (scritto anche Chosŏn), il regno che ha avuto una durata di 500 anni, dalla sua fondazione nel 1392 ad opera di Yi Seong-gye fino all’ottobre 1897, quando venne sostituito dall’Impero coreano, l’ultimo Stato unificato e indipendente della Corea (anche se la Corea imperiale, dal 1897 al 1910, era sempre sotto la dinastia Joseon). Il regno di Joseon fu caratterizzato da alcune importanti trasformazioni rispetto all’impero precedente di Goryeo (918-1392), da cui viene il nome Corea. Il confucianesimo fu introdotto come religione ufficiale ai danni del buddhismo ma i più rilevanti cambiamenti avvennero a livello della struttura della società. A capo della piramide sociale, infatti, la dominante aristocrazia fu sostituita da un ceto di intellettuali e burocrati che venivano chiamati yangban. Gli yangban erano divisi nella classe degli ufficiali militari (muban) e in quella dei funzionari civili (munban). La cosa interessante della vita sociale ai tempi della dinastia Joseon fu il fatto che venne spazzata via l’ereditarietà delle cariche e fu abolita la grande proprietà terriera, migliorando decisamente le condizioni di vita di contadini e del popolo in generale. Inoltre fu posto grande valore sul sistema educativo, cosa che è alla base dell’ossessione dei coreani per il sistema scolastico che però, come dimostrano ogni volta i risultati delle valutazioni PISA dell’OCSE, è anche uno fra i migliori al mondo. Per far parte della classe dirigente degli yangban occorreva superare un esame di Stato che si chiamava gwageo e che comunque non era accessibile alla classe dei contadini e degli artigiani.
Daegu, COREA DEL SUD
di Mauro Mondello
Dongdaegu non è una stazione, ma un vulcano che erutta persone invece di lava incadescente, un immenso complesso in cui centinaia di movimenti si attorcigliano alla maniera di un film di Jacques Tati, un’apocalisse di specchi e di ascensori e di polveri candide che si spandono nell’aria come uno stucco bianco dal cornicione di una palazzina settecentesca, però non sono cornicioni di una palazzina e non è stucco: sono ragazze ed a staccarsi è il fondotinta. Attraversiamo delle strisce pedonali che si spandono sull’asfalto disegnando una linea diagonale da una parte all’altra del vialone, poi ci buttiamo dentro Dongbu-ro-30-gil alla ricerca dell’albergo di grande classe prenotato dal professore, l’Hotel Asia.
I nostri zaini dimagriscono di tappa in tappa. Il mio grazie alla tattica Mondello, per ogni sosta si lascia in dono alla città ospitante un dimenticabile pezzo di abbigliamento. Quello di Borscia soprattutto per merito di una doppia spedizione intercontinentale che forse, un giorno, sbarcherà a Grosseto.
Daegu ci accoglie con lo sguardo distratto del sabato mattina, le botteghe di alimentari che sembrano arrivate da un’altro pianeta, su cui campeggiano le insegne di 7 Eleven, Gs25, CU, con i ragazzi a lavorare che ci salutano gentili, ma un po’ svogliati: noi lo capiamo bene, che a loro piacerebbe essere da un’altra parte. Sugli scaffali è un tripudio di barrette al riso e cioccolato, biscotti dolci alla crema di formaggio, buste di patatine alle alghe di mare, e poi i crackers, che stanno sempre nel settore delle cose dolci, e noi ogni volta ci confondiamo, li compriamo lo stesso e poi scopriamo, disperati, che sono stati inzuppati di aromatizzazioni che nemmeno se volessimo provare a provarci, potremmo provarle: fragola, churros all’Oreo, patata fermentata all’amarena, polpo in salsa di peperoncino.
Ce la prendiamo comoda a Daegu. Ci godiamo il nostro primo pomeriggio passeggiando sotto un sole che non ci spaventa, il viale principale di Dalgubeol-daero, dall’altezza della fermata metropolitana di Banwoldang, è chiuso al traffico per la festa dei colori, dentro la quale si susseguono ballerini di tip-tap, jazzisti, imitatori un po’ attempati delle star K-Pop, baracchini di locali leccornie che per adesso preferiamo guardare da lontano.
Alla fiera di Yangnyeongsi veniamo investiti da odorose ondate intermittenti. Questo è il mercato di medicina orientale più antico di tutta la Corea, attivo dal 1685. Lasciamo stare le code di lucertola, che dovrebbero stimolare il rilassamento delle articolazioni della schiena, e quelli che ci vengono presentati come 마술 버섯, i funghi magici, i quali sono indicati come toccasana per una misteriosa e immediata risoluzione dei problemi di emicrania.
Puntiamo tutto su delle radici spigolose, dei filamenti di fibra che, sotto i denti, hanno la consistenza della legna bagnata, e che vengono fritte in olio di colza dopo essere state impastate dentro un bidone metallico che contiene una melmastra grigia. Quando la signora le tira su dopo averle immerse, portentose gocce si schiantano al suolo. Noi le guardiamo con timore, le gocce che cadono, come se dovessero bucare il mattonellato al momento dell’impatto, sfondando il marciapiede.
Le radici ci vengono consegnate in un bicchiere di cartone da 0.15 cl del quale contestiamo, ma senza espressioni verbali, la praticità. Alla fine sono buone, le radici, sembra di mangiare una felpa di pile indossata poco prima della frittura da qualcuno che si è grattato la schiena sulla corteccia di un eucalipto. Dopo averle masticate per una decina di minuti la compattezza globosa delle membrane si sfalda e riusciamo così, addirittura, ad inghiottirle, nel giubilo generale dei signori e delle signore coreane che ci osservano, forse in attesa di chiamare il 118 locale, e fanno il tifo per noi.
Qualche ora dopo, rassicurati dall’assenza di evidenti effetti collaterali, ci convinciamo che poteva andare peggio.
The Hahoe village
di Alessandro Borscia
Il 21 aprile 1999, in occasione del suo 73esimo compleanno, la regina Elisabetta II d’Inghilterra, venuta in visita in Corea del Sud, ha chiesto di poter visitare un luogo che, lungi dall’essere rappresentativo dell’attuale potenza industriale ed economica coreana, fosse in grado di trasmetterle l’autenticità dello spirito e delle tradizioni culturali del Paese. È così che oggi, a venti anni di distanza, anche noi abbiamo l’opportunità di vedere appesi nelle strade di questa provincia orientale della Corea del Sud, non lontano dalla costa bagnata dal Mar del Giappone, i cartelloni che ricordano la visita regale all’Hahoe Village, uno dei pochi villaggi tradizionali rimasti nella penisola coreana, a 19 chilometri da Andong, una città di poco meno di 200mila abitanti della provincia del Gyeongsang, attraversata dal più lungo fiume coreano, il Nakdonggang, e posta al centro di un’area caratterizzata prevalentemente da agricoltura.
Il nome dell’Hahoe Village (Ha, fiume, acqua e hoe, curva, svolta) deriva proprio dalla posizione del villaggio, che sorge in un’area di 500 ettari all’interno di un’ansa creata dal corso del fiume Nakdonggang che avvolge letteralmente il villaggio da sud, da ovest e da nord. Il monte Hwasan, con i suoi 270 metri e le sue verdi e dolci vallate, incornicia l’idilliaco abitato.
Non siamo in tanti oggi a visitare il villaggio, che dal 2010 è diventato il 10°sito coreano dell’UNESCO World Heritage. Le strade interne formano un labirinto che si dipana dentro una struttura architettonica che conserva intatte le caratteristiche dello stile e della tradizione di quattro secoli fa. Fu una delle famiglie più importanti della regione durante la dinastia Joseon, il Pungsan Ryu, il clan Ryu di Pungsan, una città situata ad ovest di Andong, a fondare nel 16°secolo il villaggio di Hahoe, che ha dato i natali ad altri grandi personaggi della stirpe dei Ryu, come i fratelli Ryu Unryong e Ryu Sengryong. Il primo fu un grande scolaro confuciano – e suggestioni di quest’antica religione echeggiano quando entriamo nell’edificio, conservato perfettamente, della scuola confuciana di Hahoe. Il secondo fu primo ministro del regno di Joseon durante il periodo delle invasioni giapponesi (1592-1598).
Dal sentiero che costeggia il villaggio non siamo distanti dalle eleganti acque del fiume che riflettono l’intensa luce del sole del primo pomeriggio. Fra noi e la riva sabbiosa del corso d’acqua si stende un lembo di terra di un verde luminoso, con i gambi dei fiori piegati dalla forza del vento, a comporre con l’increspatura dell’acqua un tessuto cangiante di riflessi e riverberi. Le esili fronde degli alberi si piegano di fronte alle energiche folate del vento, creando quasi delle volte arcate sotto i quali noi e gli altri pochi turisti camminiamo consapevoli che qui è l’uomo insieme alle sue costruzioni ad armonizzarsi nell’ambiente circostante invece di imporvisi. Questo perfetto equilibrio raggiunto fra uomo e natura è incantevole e trasmette una profonda sensazione di serenità e calma, forse anche troppa, visto che qui dovrebbero esserci molti più visitatori e invece incontriamo soltanto sporadici gruppetti di famiglie coreane e i turisti di altra etnia, compresi noi, si contano sulle dita di una mano.
Riusciamo bene a capire perché Hahoe sia considerato dai coreani parte della loro identità nazionale e potremmo anche scommettere che la simpatica e tenace regina Elisabetta II si farebbe ancora oggi, a 98 anni suonati, una bella e rilassante passeggiata fra le stradine acciottolate della capitale dello spirito coreano.
Andong, COREA DEL SUD
di Mauro Mondello
Vaghiamo per i corridoi vuoti di un albergo deserto. Alle pareti una carta da parati color panna, con delle righe verticali rosa ed una fantasia di fiori che si intrecciano in decine di corone grigie, sparse su tutta la parete. E’ questa la prima immagine di Andong, il capoluogo della provincia di Gyeongsangbuk-do, nella parte centro-orientale della Corea del Sud.
Ci fermiamo qui soltanto per 24 ore. Il tempo di visitare quello che viene considerato universalmente il più bel villaggio hanok di tutto il paese, Hahoe.
Gli hanok sono le case tradizionali coreane, costruite con il principio 배산임수, baesanimsu, secondo cui la dimora ideale deve essere edificata in una zona che abbia la montagna alle spalle e il fiume di fronte. Una delle caratteristiche più interessanti di queste case è il pavimento, che segue la tecnica Ondol: una specie di minicamino è posizionato alla base della struttura portante, per riscaldare dal basso tutta la superficie. Molte case di campagna ancora oggi utilizzano questo sistema per far fronte alla rigidità degli inverni coreani. Gli hanok venivano tirati su con pietre grezze, i tetti curvi di tegole scure, le travi in legno adornate da spennellate di colore che disegnano trame sinuose.
I grandi cortili terrosi sono pieni di silenzio, la luce rossa che si riflette dalle piccole colonne taglia il fronte delle case e finisce per avvolgere i finestroni quadrati sul fronte: non c’è quasi nessuno fra le vie di Hahoe. Ci fermiamo a comprare degli oggetti destinati a ricordarci, una volta tornati in Europa, il nostro passaggio in questo luogo dalla calma surreale. Entriamo in una vecchia bottega polverosa, una signora anziana, i capelli crespi di nero, le mani grinzose, ma ancora vivaci, ci descrive in coreano gli oggetti che andiamo toccando.
All’imbrunire, l’autobus numero 276 ci riporta verso Andong. Dal finestrino scorgiamo distese di verde piatto e sereno, spezzate e ricomposte dal serpeggiare del fiume Hwachon, in lontananza il bruno folto delle montagne del Geumgye-Ri.
L’autista procede alla coreana, alternando lente accelerazioni a inaspettati strattoni.
Niente è straordinario qui, ma ci abbandoniamo con soddisfazione all’andamento vaporoso delle immagini che ci stanno intorno.
Le ore di Andong sfumano in un diminuendo di evanescenza.
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