Mauro Mondello, direttore di Yanez, e Alessandro Borscia, collaboratore storico della rivista, dovevano percorrere in un viaggio on the road, fino al prossimo giugno, le strade di Thailandia, Cambogia, Vietnam, Laos, Cina e Mongolia.
Il governo cinese ha però negato a Mauro il visto d’entrata e l’esplorazione ha così subito una repentina e decisa virata verso Oriente: i due inviati si trovano adesso in Corea del Sud.
Ogni settimana, nella rubrica speciale Transasiatica, ci presenteranno
pensieri sparsi, immagini, resoconti, impressioni, tracce.
La Corea del Sud vuole una pelle splendida
di Mauro Mondello
Nel silenzio della metropolitana di Busan le ragazze sollevano la testa soltanto per guardare la loro immagine riflessa dentro la camera dello smartphone.
Fuori dal vagone, sedute sulle panchina in attesa del treno verso Haeundae, sulla linea 5, c’è tempo per tirare fuori dalla borsa uno specchietto e l’ennesima crema sbiancante. Prima di uscire allo scoperto, un’ultima occhiata nella toilette della stazione, per essere sicure che sia tutto al proprio posto: il candore delle caviglie, il tacco alto, le calze bianche, la gonna corta.
La Corea del Sud è un baratro di superficialità e di ragazze con gli occhi da bambina ingranditi dalla chirurgia, i visi di porcellana ricoperti di cosmetici, il bianco cadaverico eretto a supremo modello di bellezza. Qui ci si mette le creme protezione 50 sin da quando si è bambini.
Perché scuro è brutto. Perché scuro è povero: benvenuti nel paese più narcisista del mondo.
Il paese dove una persona su cinque ricorre alla chirurgia plastica (la media più alta del pianeta), una nazione da 50 milioni di abitanti che rappresenta il 3% del mercato mondiale dei cosmetici, con un giro d’affari annuale da 8 miliardi e mezzo di dollari.
E’ qui, in Corea del Sud, che la concretizzazione dell’ideale di “donna oggetto” raggiunge il suo punto più alto e più limpido. L’essere femminile esiste solo se esteticamente perfetto, in una rappresentazione del bello oggettivo il più possibile vicina al modello fisico della bambola gonfiabile.
Non è quindi sorprendente scoprire che la Corea del Sud, nel rapporto annuale del World Economic Forum sul Gender Gap (il monitoraggio della distanza socioeconomica fra uomini e donne) si posiziona al 115esimo posto su 149 paesi. Dietro, in Asia, soltanto Timor Est.
Nel mondo, solo paesi islamici: Iran, Yemen, Emirati Arabi, Mauritania, Kuwait, Arabia Saudita.
E’ questo il prodotto di una società altamente tecnologizzata, eppure umanamente tanto arretrata.
Guardi gli occhi di queste giovani ragazze dai volti fintamente lattei, i visi di queste ragazze che decidono di umiliarsi quotidianamente rifiutando il colore della propria pelle in nome di un valore estetico mai messo in discussione, e provi quasi tenerezza.
Il sogno di ogni adolescente coreana è quello di una chirurgia plastica che le renda il più possibilmente simili a delle donne con il volto da bambine.
D’altronde, questo è un paese nel quale i genitori ti regalano un’operazione di chirurgia alle palpebre come regalo per l’accesso all’università. Perché la bellezza qui è un valore più importante delle capacità, perché se sei bello, se sei ordinato, se sei simmetrico, puoi puntare in alto. Altrimenti no, altrimenti niente.
Il governo ci sta provando, a mettere una pezza al disastro umano di un paese fintamente bianco e senza cuore, ad esempio bandendo, dal 2022, gli annunci pubblicitari delle cliniche private che oggi tempestano le fermate di autobus e metropolitane in tutto il paese promettendo una pelle più bianca, degli occhi più grandi, un naso ancora più piccolo.
Lascia attoniti questa sensazione di superficialità che si condensa forte dentro ogni momento sociale di Corea del Sud. Guardi le pubblicità del soju, la bevanda alcolica a base di riso tipica del paese, e ti sembra ci sia qualcosa che non va, anche se non capisci cosa. Dopo un po’ ci arrivi: è il colore della pelle della ragazza dal mezzo sorriso ammiccante che sponsorizza la bottiglia. Un colore irreale, un colore innaturale, un colore che non esiste in natura e che è in ogni caso distante svariate gradazioni dalla pigmentazione media dell’etnia coreana.
Ti senti un po’ triste. Per loro, che costruiscono tutta un’esistenza sulla base di un valore estetico, per giunta aberrante: il colore della pelle.
Per me, che sono scuro e onestamente non ci ho mai pensato, al grado della mia pigmentazione.
Fino a quando non sono arrivato a Busan.
Busan, COREA DEL SUD
di Alessandro Borscia
La guida vietnamita ci aveva avvertito: “Nelle prossime due settimane non andate a Saigon o ad Hanoi. Saranno i giorni più caldi di tutto l’anno, si arriverà a oltre 40 gradi e con tutto l’inquinamento che c’è in queste metropoli, meglio evitare, per la vostra salute”. Era il 19 aprile e la gentile e austera signora ci stava accompagnando a visitare la zona demilitarizzata in Vietnam. Da allora, la prima settimana l’abbiamo trascorsa ad Hanoi e abbiamo verificato che la guida aveva ragione. La seconda, perciò, abbiamo seguito il suo consiglio e abbiamo cambiato radicalmente il nostro programma di viaggio: oggi, domenica 28 aprile, ci ritroviamo a Busan, città di oltre tre milioni e mezzo di abitanti nella costa sud-orientale della Corea del Sud.
Arriviamo alle otto di mattina ora locale ma fino alle due di pomeriggio non possiamo fare il check-in. Un’arietta fresca e piacevole ci accoglie appena fuori dalla metropolitana che prendiamo per andare in città. Le strade sono semideserte, niente clacson, niente rumori, le poche persone in giro entrano nei caffè di Seomyeon, nel distretto di Busanjin, uno dei più popolosi di Busan. È un giorno festivo e la gente se la prende comoda e si rilassa, come si fa la domenica mattina nelle città europee ancora mezz’addormentate.
Il primo impatto è piacevole, rassicurante, se non altro per la temperatura scesa di colpo a 14 gradi. Non ci sembra vero. Possiamo respirare e camminare senza perdere litri di liquidi, a parte il fatto che siamo stanchissimi per via del volo notturno che non ci ha visto chiudere occhio. Abbiamo di nuovo a che fare con lo standard “occidentale”, anzi con lo standard di una società occidentale ricca e sviluppata: i prezzi sono alti, la metropolitana, che dispone ad ogni fermata di bagni pulitissimi, è puntuale, veloce ed efficiente (sembra esserci l’ossessione dei bagni pubblici, sono ovunque, a differenza dei cestini della spazzatura che sono introvabili). Abitiamo in un palazzo di quindici piani che a confronto dei grattacieli che lo circondano sembra minuscolo, così come minuscola è la casa che ci ospita: al massimo 10 metri quadrati, con soppalco.
Busan, il cui vecchio nome era Pusan, è dopo Seul la seconda città più popolosa della Repubblica di Corea, lo Stato che occupa la parte meridionale della penisola coreana. La metropoli, che dal 1963 costituisce un’entità politico-amministrativa indipendente (la Corea del Sud è divisa in otto province, più una serie di città con statuto speciale, fra cui naturalmente Seul, la capitale) ha una conformazione particolare: si distende lungo la costa, a sole 120 miglia dalle isole giapponesi di Kyushu and Honshu, in una pianura circondata da una catena di montagne che pendono imponenti verso la città e le cui cime le abbiamo viste avvolte da una fitta coltre di nebbia. Il litorale è disseminato di insenature e baie e questo fa di Busan un riparo naturale per navi e imbarcazioni: il suo porto, centro logistico e marittimo dell’Asia nordorientale, è infatti il primo in Corea per traffico di merci e sesto nel mondo.
Il settore dei servizi occupa la fetta più grande dell’economia cittadina con il 70,3% mentre l’altra parte consistente spetta alla manifattura (19,8%). Fra questi servizi è doveroso menzionare quelli offerti dal Jagalchi Market, il mercato del pesce nel quartiere di Nampo-dong nel distretto di Jung-gu, vera e propria attrazione turistica della città e probabilmente il mercato del pesce più famoso e più grande di tutta la Corea. Si tratta di un enorme edificio situato lungo la sponda settentrionale del Nakdong River, il fiume più lungo di tutta la Corea del Sud, ma il pesce fresco ed essiccato viene venduto dalle donne (soprattutto dalle donne, anziane) anche nelle bancarelle lungo le strade del porto, fuori dall’edificio. Una sola controindicazione ci sentiamo di evidenziare: i prezzi non sono poi così economici, visto che un piatto di insalata di polpo (la porzione più piccola e solo l’octopus, con uno spicchio di limone) ci è costato 30.000 won, che sono 23 euro.
Un’ultima nota storica su Busan. Durante la Guerra di Corea (1950-1953) Busan, insieme a Daegu, fu l’unica città di una certa importanza che non cadde nelle mani dell’esercito comunista nordcoreano nella sua avanzata verso il Sud del paese. Tra il 4 agosto e il 15 settembre 1950, intorno a quello che è conosciuto come “il perimetro di Busan” – una sottile striscia di terra che si estendeva per 225 chilometri intorno alla città – le truppe sudcoreane e quelle delle Nazioni Unite sotto la guida degli Stati Uniti riuscirono a frenare la marcia dell’esercito nordcoreano. Durante quei mesi, a causa dell’elevato numero di rifugiati che fuggivano dalle zone occupate, il numero degli abitanti di Busan arrivò a superare i 4 milioni.
Intermezzo gastronomico
Il nostro conflitto con la cucina orientale era iniziato sottotraccia. In Thailandia c’erano già state delle piccole scaramucce ma in Cambogia poi, a Siem Reap, avevo preso una piccola intossicazione da frutti di mare. L’offensiva nemica era avvenuta in Vietnam, a Da Lat, quando in un ristorante “italiano” mi erano arrivate le linguine alle vongole arricchite con una notevole quantità di bacon ed era proseguita a Busan, quando a Mauro erano stati serviti i Tteokbokki, un popolare piatto coreano consistente in gnocchi di riso glutinoso, fish cake (in particolare si tratta del kamaboto, un composto di surimi e pesce azzurro frullato, lavorato in panetti che vengono cotti fino a che assumono una consistenza solida), uova bollite e scalogno immersi nella salsa gochujang, una salsa fermentata fra le più piccanti, forse, del mondo.
La nostra resa definitiva c’è stata però di fronte all’assalto, sotto forma di pizza, avvenuto a Gyeongju, nella Corea del Sud centrale. Altre volte non ci era andata male con la pizza. Non era quella cui noi siamo abituati ma, insomma, andava bene. Questa volta lo scenario era il seguente: una base di pasta lievitata dai 5 ai 10 minuti, grande come una fetta di pane, cosparsa di maionese e con sopra tre strisce di pomodoro, una manciata di foglie verdi spacciate per rucola e una spruzzata di parmigiano (che al sottoscritto proprio non piace, per usare un eufemismo).
Da quel momento è stato deciso che avremmo dovuto porre più attenzione nella scelta dei posti dove mangiare, soprattutto a Gyeongju, che è famosa in Corea per una sua particolare specialità: lo Hwangnam bread, un piccolo panino ripieno di crema di fagioli, creato da un tale Mr. Yeong Hwa Choi nel 1939 e che si appresta, a quanto sembra, a sbarcare anche all’estero.
Gyeongju
Gyeongju però non è famosa solo per il suo pane con i fagioli. Questa piccola città di poco più di 250mila abitanti, situata nella parte sudorientale della provincia del Gyeongsang settentrionale, sulla costa che si affaccia sul Mar del Giappone, deve la sua fama per essere stata la capitale dell’antico regno di Silla, la monarchia sorta nel 1° secolo a.C. ma che fra il 7° e 9° sec. d.C. riuscì a unificare buona parte dell’intera penisola coreana. In quel periodo Gyeongju era la quarta città più popolosa del mondo. Vestigia di quell’antica cultura sono rimaste visibili all’interno della città, ove sono conservate 35 tombe reali e 155 tumuli, alcuni dei quali maestosi e imponenti, che fanno della tranquilla e pacata cittadina un vero e proprio museo a cielo aperto.
I veri gioielli, splendidi testimoni silenziosi di quell’epoca scomparsa, sono senza dubbio il tempio buddista di Bulguksa e la grotta di Seokguram, non a caso inseriti dall’UNESCO nel 1995 nei siti archeologici patrimonio dell’umanità. Il tempio è un esempio straordinario di architettura religiosa, oltre che di espressione materiale del pensiero buddista.
Ci vogliono 30 minuti di autobus per arrivare al sito di Bulguksa. È una serena giornata primaverile con un dolce sole tiepido che scalda piacevolmente l’aria fresca del mattino. L’intero complesso architettonico e religioso è incastonato nel verde del versante occidentale del monte Tohamsan, la cui cima è a 775 metri.
I numerosi edifici in legno del complesso architettonico, costruiti su piani terrazzati in pietra rialzati e lievemente discendenti, “rappresentano l’utopia buddista che prende la sua forma nel mondo terreno”, come incisivamente scrive la commissione UNESCO nelle sue motivazioni per l’ingresso del Tempio di Bulguksa nel patrimonio dell’umanità. L’accesso avviene attraverso due ponti (il Cheongungyo bridge e il Baegungyo bridge) che conducono alla “Porta della nebbia purpurea” (Jahamun gate), punto di passaggio principale per la grande corte del Tempio, dove si ergono imponenti e magnifiche la pagoda Seokgatap, 8,20 metri di altezza, e la pagoda Dabotap, alta 10,40 metri e considerata fra le opere d’arte buddhista più importanti del mondo. Sostare nella “Sala della grande illuminazione” (Daeungjeon), la principale sala dove è custodito il Buddha Sakyamuni, o soffermarsi davanti alla “Sala senza parole” (Museol-Jeon), la sala più grande di tutto il sito che vuole significare che l’insegnamento di Buddha non può essere trasmesso solo con le parole, è un’esperienza intensa e altamente spirituale.
Il tempio, la cui costruzione fu iniziata sotto il re Gyeongdeok di Silla nel 751 d.C., è stato quasi completamente distrutto dal fuoco durante le invasioni giapponesi della fine del XVI secolo. L’attuale tempio è il frutto di anni e anni di lavori di scavo e di restauro.
Due chilometri di passeggiata su un erto sentiero che porta alla cima del monte Tohamsan ci conducono all’altro tesoro nazionale coreano, dal 1995 patrimonio universale: la grotta di Seokguram, al cui interno è custodita una maestosa e meravigliosa statua alta 3,45 metri che rappresenta Siddhartha Gautama, il fondatore del Buddhismo, nella posizione del loto. La realizzazione della statua, per la cui protezione è stata realizzata la grotta artificiale consistente in tre blocchi di granito squadrati, è avvenuta nel periodo più florido della cultura di Silla, fra il 751 e il 774 d.C.
Tutto qui riesce ad evocare una dimensione spirituale, metafisica: la natura, l’anticamera rettangolare e lo stretto corridoio della grotta che ospita raffigurate figure mitologiche che appartengono ancora alla vita mondana e che sono continuamente sottoposte al ciclo di nascita, morte e rinascita. La stanza interna circolare, alle cui pareti sono raffigurati Arhat e Bodhisattva, esseri redenti che non sono più legati al ciclo delle rinascite. Ed infine al centro del santuario, sotto il firmamento della grotta, la maestosa statua del Buddha, con la mano sinistra nel grembo e la mano destra sul ginocchio destro, le dita rivolte verso il basso. Una postura che sottolinea l’imperturbabilità del Buddha. Un’imperturbabilità che per noi è appena comprensibile, racchiusi nel flusso di turisti che sfilano nella grotta ammassati e chiassosi. E che diventa un’utopia appena rientriamo, dopo un viaggio in autobus con le ragazzine coreane impegnate ad aggiustarsi il trucco e i capelli, a Gyeongju, piena di caffè hypster e ristoranti alla moda che servono la “pizza”.
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