Mauro Mondello, direttore di Yanez, e Alessandro Borscia, collaboratore storico della rivista, dovevano percorrere in un viaggio on the road, fino al prossimo giugno, le strade di Thailandia, Cambogia, Vietnam, Laos, Cina e Mongolia.
Il governo cinese ha però negato a Mauro il visto d’entrata e l’esplorazione ha così subito una repentina e decisa virata verso Oriente: i due inviati si trovano adesso in Corea del Sud.
Ogni settimana, nella rubrica speciale Transasiatica, ci presenteranno
pensieri sparsi, immagini, resoconti, impressioni, tracce.
Del carattere dei coreani
di Alessandro Borscia
Mi è capitato alcune volte in Corea di avere avuto a che fare con atteggiamenti e comportamenti di persone di una certa età, diciamo anziane, che ad una prima valutazione non possiamo giudicare in altro modo se non come caratterizzati da una spiccata cafoneria, prepotenza e arroganza. Mi è successo per esempio di trovarmi fermo sul marciapiede, magari a controllare la mappa, e sentirmi urtare da dietro in modo grossolano e vedere con un certo stupore che l’arzillo signore mezzo ingobbito, senza un minimo accenno di scuse e senza degnarmi di uno sguardo, passa dritto per la sua strada. Durante il viaggio in treno da Andong a Soeul mi trovavo disteso sui comodi sedili reclinabili del treno coreano, accanto al mio compagno di viaggio.
Avevo già avviato la procedura di addormentamento, ed ero già a buon punto, quando improvvisamente e di soprassalto vengo svegliato da dei violenti colpi alla testa portati dalla parte superiore del mio sedile. All’atto di girarmi per capire cosa stesse succedendo, vedo l’arzillo e anziano signore coreano che, appena salito sul treno e con un’espressione stampata in faccia che non era per niente amichevole, mi fa capire con maniere brusche che dovevo rialzare immediatamente il mio sedile perché lui doveva sedersi nel suo posto, che era dietro al mio. Alla mia, e del mio compagno di viaggio, reazione molto risentita e per nulla conciliante, il volto del brioso signore ha assunto un’espressione di totale stupore, come a dire: “Ma non è mica previsto che voi protestiate contro di me”.
Altri episodi, in ordine sparso e di tenore opposto. Sto cercando l’edificio dove ha sede un’agenzia e fra scritte in coreano e assenza di internet nel mio telefono, la cosa non risulta fra le più semplici. Mi guardo intorno e l’unica persona che vedo è un cuoco di un ristorante che è appena uscito per fare una pausa e fumarsi una sigaretta. Era la sua pausa, ma la spende tutta per cercare nel suo telefono le informazioni che cercavo. Non importa che non parla una parola d’inglese e che non riesce a trovare l’indirizzo. Sono io a dirgli “grazie lo stesso, non fa niente”, ad andarmene e a vederlo rientrare a lavoro senza avere fumato la sigaretta.
All’uscita della metropolitana, pochi minuti prima, avevo chiesto ad un uomo e una donna ben vestiti i quali, con lo sguardo un po’ esitante, si fermano e rispondono con cortesia alla mia richiesta d’aiuto. I due avevano fretta, una grande fretta perché appena ho detto loro “Thank you”, lui con giacca, cravatta e valigetta, lei con tailleur elegante e scarpe con tacco, si mettono letteralmente a correre verso l’entrata della metropolitana.
Il giorno precedente ero alle prese con il compito di prendere un autobus e dopo avere chiesto ad una gentile signora mi metto sereno alla fermata indicatami ad aspettare. La signora era entrata già nell’oblio della mia memoria quando è riapparsa, buoni cinque minuti dopo e tutta trafelata, per dirmi che non aveva capito bene dove volevo andare e che forse mi aveva dato l’informazione sbagliata.
Cosa c’entrano questi episodi di gentilezza e disponibilità dei coreani con gli altri di stile completamente diverso, anzi opposto? La risposta a questa domanda non ha affatto la pretesa né di essere esaustiva né di essere scientificamente fondata. È la mia personale, soggettiva valutazione che deriva da qualche lettura e da osservazioni empiriche o, come si dice, sul campo e quindi può lasciare il cosiddetto tempo che trova.
Ad ogni buon conto, al sottoscritto pare che tutti questi comportamenti un elemento in comune ce l’abbiano e si tratta di un aspetto della mentalità coreana che trova le sue radici nell’ideogramma cinese 中, letto in coreano come choong, e il cui significato originario va ricercato nella lezione di Confucio – sotto la dinastia Joseon (1392 – 1910) il confucianesimo divenne filosofia di Stato e ancora oggi i valori confuciani hanno una profonda influenza nella mentalità della popolazione coreana, soprattutto per quanto riguarda le relazioni sociali fra vecchi e giovani e il sistema morale in generale. Choong inoltre è usato come prefisso o suffisso per formare altre parole: choong-seong (lealtà, fedeltà verso un superiore); choong-shil (solerzia, integrità e irreprensibilità nel portare a termine il proprio lavoro).
Se dunque il cuore della mentalità coreana è essere onesti, leali e corretti verso tutto e tutti, questo allora può trasformarsi in un rigido conformismo verso quei valori che sono ritenuti essere giusti dalla maggior parte della società, creando una netta dicotomia fra ciò che è bene e ciò che è male: o bianco o nero, non ci sono grigi. Non aiutare uno straniero che ti chiede un’informazione, anche se hai una fretta tremenda, non fa parte del carattere dei coreani, plasmato dallo spirito choong, rigoroso, inflessibile e originale. Non tornare indietro dallo straniero a dargli l’informazione corretta è una deviazione dall’ortodossia choong che non è prevista per un coreano così come sarebbe intollerabile dirgli: “Guarda, scusa, non lo so o non ho tempo, chiedi ad un altro”. “Non lo so” lo possono dire ma solo dopo che tu, snervato, gli hai detto che non importa, grazie lo stesso. E si capisce adesso anche l’espressione sconcertata dell’anziano signore sul treno. Le relazioni sociali fra vecchi e giovani prevedono che quest’ultimi avrebbero alzato subito il sedile reclinato e soprattutto non si sarebbero mai permessi di rivoltarsi contro l’anziano come ho fatto io.
Un ultimo comportamento che s’inserisce in questa interpretazione. Ogni vagone della metropolitana di Seul ha due file di tre sedili ognuna riservati unicamente a persone anziane, donne incinte, donne con bambino e persone infortunate. Tutto è segnalato in modo molto chiaro e evidente. Ebbene, anche nei momenti di punta, quando la metropolitana è completamente piena, nessuno, ma proprio nessuno, si mette sedere su quei posti riservati, nemmeno provvisoriamente. C’è il vagone pieno zeppo, ma quei posti rimangono liberi e mettercisi a sedere, anche se sei straniero, ti fa sentire la persona più inadeguata e sbagliata di tutta la Corea. Figuriamoci come si sentirebbe un coreano.
Capire la Corea del Sud
di Mauro Mondello
La Corea non è così perfetta come sembra.
Nel 2018 il paese ha registrato il più alto tasso di disoccupazione degli ultimi 18 anni, il 3.8%, con una disoccupazione giovanile (15-29 anni), che, secondo i dati rilasciati dall’Istituto Coreano per gli affari sociali, un ente governativo (KIHASA), aggiornati a marzo, vede un giovane su quattro disoccupato: la media più alta dell’area OCSE. Nel 2019 soltanto un laureato su dieci è riuscito a trovare un impiego a tempo pieno, una conseguenza di una crisi complessiva molto profonda che ha visto la Corea del Sud in grado di creare appena 97.000 nuovi impieghi nell’ultimo anno, il numero più basso dalla crisi finanziaria globale iniziata nel 2007.
L’impatto sulla vita quotidiana di questo trend, in un paese la cui “cultura dell’ambizione” è spinta sino ai suoi limiti più estremi, è diretto, con decine di giovani che decidono di lasciare la Corea e addirittura una serie di programmi statali (il più famoso dei quali è noto con il nome di K-Move) che formano i giovani appena usciti dall’università con l’obiettivo di fargli superare i colloqui con aziende giapponesi, europee e statunitensi. K-Move nel 2018 ha mandato 5700 laureati all’estero e il programma, a differenza di quanto accade ad esempio nelle Filippine e a Singapore, che propongono progetti istituzionali analoghi, non prevede alcun obbligo di rientro nel paese di origine per chi ne usufruisce.
Le ragioni della crisi sono molteplici e arrivano da lontano.
Alla base vi è una questione strutturale, relativa all’organizzazione industriale coreana, dove una decina di grandi imprese familiari, denominate chaebol (Samsung, Hyundai, Lotte, ecc…) gestisce la metà del giro d’affari economico, e degli impieghi, di tutto il paese. Il punto è che solo il 13% della forza lavoro complessiva è impiegata in aziende con più di 250 dipendenti, un dato che si scontra con una statistica, quella relativa all’educazione, inesorabile. I coreani hanno la percentuale di laureati più alta dell’area OCSE: il 75% dei diplomati coreani si iscrive all’università e tutti puntano a lavorare nelle aziende che pagano di più, che sono poche. Ciò crea, evidentemente, una competizione spaventosa, con tutta una serie di effetti a catena, fra i quali una tendenza ossessiva alla cura estetica, legata alla necessità di primeggiare nell’ambiente professionale con ogni mezzo disponibile, sia esso anche quello fisico, e, fra i più interessanti da analizzare, un decifit emotivo che rende molto complicato lo sviluppo di relazioni sentimentali.
Sempre secondo i dati del già citato KIHASA, il 69% dei coreani fra i 20 e i 44 è single e, di questi, il 30% dichiara di non aver mai avuto una relazione, e il 50% di aver deciso di rimanere single per potersi dedicare alla propria istruzione, investendo in corsi di formazione supplementari per aumentare le proprie competenze. Inoltre, in molti, considerate le difficoltà a trovare lavoro e i costi di un appuntamento per una cena fuori, non ce la fanno, economicamente, ad impegnarsi nella costruzione di un rapporto e preferiscono quindi abbandonare ogni velleità relazionale, investendo i propri risparmi in interventi di chirurgia estetica e corsi di lingua o formazione professionale.
Il problema è diventato così serio che l’università Sejong di Seoul ha da poco creato un corso di Gender and Culture, in pochi mesi diventato fra i più gettonati di tutto l’ateneo. Ci si concentra sull’amore, sul sesso, sul dove portare fuori a cena una ragazza senza spendere troppo, sulle differenti tipologie di relazione che possono nascere da un incontro.
Benvenuti in Corea del Sud, anno di grazia 2019.
Itaewon, Seoul. COREA DEL SUD
di Mauro Mondello
Se la guardi dall’alto, Jangmun-ro 49-gil sembra un braccio che ti viene a stringere le spalle. La linea curva della strada, arrivando dal lato basso della via, è chiusa sulla destra da una fila di palazzine dai mattoncini rossi. Sul lato opposto il susseguirsi grigio dei pali della luce e un uomo con una vecchia giacca da autista di autobus che per tutto il giorno, nel raggio di un metro, va alla ricerca di insetti cui concedere l’estrema unzione a colpi di scacciamosche. In cima agli sguardi i fili neri, attorcigliati, della corrente elettrica, presenza fitta, densa, di cui ci siamo ormai definitivamente invaghiti.
Hannam-dong si chiama questo quartiere, seduto sul picco di una collina che guarda con gli occhi granata lo scorrere infinito delle automobili e dei treni che fanno la spola sul ponte di Dongho, sormontando il defluire molle, letargico, indolente, del fiume Han. Dove si trova Seul?
Proseguendo verso nord, raggiunta la cima del promontorio d’asfalto e il chiudersi del gomito che dal vicolo si congiunge con Usadan-ro 10-gil, incontriamo un piccolo assembramento di tendoni colorati. Con ordine, sul lato piattamente bucherellato di alcune vecchie cassette di plastica dura, di quelle che si usavano una volta per il vuoto a rendere, disposte su delle corte tavole di legno, avvolte in tovaglie consunte, un po’ lacere, ci guardano delle patate, alcune cipolle, bocce di liquidi rossi, blu, bianchi, pannocchie di mais, delle zucche bianchicce con la corteccia puntellata di irregolari pomelli grandi come confetti, dei quadratoni di riso soffiato dentro cui sono incastrate delle pepite nere, il cui riconoscimento nutritivo è per noi arduo. Accanto alle tavole, nascoste dall’oscurità ombrosa dei teli, delle signore con i capelli ricci e arruffati, un po’ tinti, i nasi piccoli e increspati, le mani sveglie, osservano immobili l’infinito nulla della pizzeria hipster di fronte, l’UPP, i cui caratteri bianchi e azzurri, quando torniamo di notte, rimbalzano sul cemento.
E’ un lungo vialetto dai contorni magici quello che unisce il nostro quartiere, Hannam-dong, alla fermata della metropolitana di Itaewon. Cartomanti con 10.000 won ti possono raccontare il futuro, rivenditori di frigoriferi del 1990 così brutti che ti viene voglia di abbracciarli, lavanderie che attirano l’attenzione stendendo giacche su grucce metalliche arrampicate sull’alto delle insegne in coreano, i bar notturni, le officine meccaniche, i ristoranti indiani, pachistani, turchi, egiziani, la grande moschea di Seul, il panificio arabo, il centro servizi che vende le schede telefoniche per gli stranieri e poi l’anziana donna elegante che sistema i fiori e una coppia di mezza età, i gilet arancioni, identici, abbottonati sulle camicie bianche, a custodire alcuni mobili antichi, un po’ sfatti, abbandonati su un angolo nascosto della via. Questo quartiere è una sorpresa che ci travolge al ritmo delle canzoni del k-pop coreano, litanie orribili che abbiamo imparato a conoscere nostro malgrado e di cui si è particolarmente appassionato, soprattutto, il professore, amante ormai incontenibile, ormai incontentabile, di capisaldi del genere come Like ooh ahh delle Twice, o Let’s kill this love delle Blackpink.
Questo ormai è il nostro quartiere. Prima di cenare a pane e pomodoro e olio di canela scaduto e uova e piselli nel nostro appartamento, l’In The House, mentre guardiamo accendersi le luci della città dal terrazzino coperto che osserva il lato sud di Seul, andiamo sempre a berci una birra, V3 Pale Ale, in un posto senza fascino e senza pensieri, il Brewdog, sul viale principale di Itaewon.
Ci sediamo al solito tavolo fuori, quello con le tre sedie appoggiate sulla colonna destra, e osserviamo il passeggio da serata di gala delle pettinatissime signorine coreane che escono dagli uffici.
Prima di rientrare, Alessandro deve comprare il suo filone dalla scontrosa panettiera del Core Mart, in Bogwang-Ro. Al calare del sole, veniamo investiti dai raggi indecisi delle intermittenze a volte invadenti, a volte soffuse, delle assetate insegne che si allungano, come gomitoli persi, dalle sporgenze distratte dei palazzi.
Finisce la nostra giornata.
Mentre torniamo a casa, guardiamo Seul danzare sul ritmo selvatico e lemme di un bagliore bluastro.
Leggi la prima uscita di Transasiatica
Leggi la seconda uscita di Transasiatica
Leggi la terza uscita di Transasiatica
Leggi la quarta uscita di Transasiatica
Leggi la quinta uscita di Transasiatica
Leggi la sesta uscita di Transasiatica
Segui Alessandro Borscia su Yanez | Facebook
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin