Mauro Mondello, direttore di Yanez, e Alessandro Borscia, collaboratore storico della rivista, percorreranno in un viaggio on the road, fino al prossimo giugno, le strade di Thailandia, Cambogia, Vietnam, Laos, Cina, Mongolia.
Ogni settimana, nella rubrica speciale Transasiatica, ci invieranno
pensieri sparsi, immagini, resoconti, impressioni, tracce.
di Mauro Mondello
Bangkok, THAILANDIA
Ho bisogno di guardare il cielo stanotte. Di vedere le stelle e tutto lo spazio che ci gira intorno. Ho bisogno di capire le cose e di scavare dentro tutti i sentimenti dispersi nel mio tempo. Ho bisogno di prendere una navicella spaziale che mi porti via dalla Terra e che mi faccia guardare la Terra da lontano, per capirne finalmente la forma. Per trasformarla in un mondo sconosciuto, dopo tutte le sere di primavera in cui ho pensato di conoscerlo e infatti l’ho conosciuto abbastanza.
Ed era più grande di quanto avessi mai immaginato.
Penso che è tutto molto più enorme di quello che io avrei mai voluto vedere, qui a Bangkok, in un imbrunire così caldo e appiccicoso che se mi rotolassi sull’asfalto e se l’asfalto, invece che di asfalto, fosse composto di infiniti fogli di carta A4, in seguito al mio copioso ed uniforme rotolamento ci si potrebbe attaccare sopra qualsiasi cosa, e resterebbe per sempre appiccicato. E ci resterei pure io, appiccicato, alla fine del mio rotolamento sull’asfalto di Soi Sukhumvit 63, di fronte al condominio, Ekkemai si chiama, che mi ospita, al trentunesimo piano di dolore e di solitudine. Anche il mio appartamento, concepito per slanciarsi verso l’alto, ci rimarrebbe appiccicato, con il risultato di somigliare, panurgo e indeciso, a un tenebroso erebo ramificato.
Un erebo nel quale incontrare milioni di persone che però non ci sono. Ti alzi di scatto e guardi verso il vuoto grigio sopra il cielo, e pensi che è tutto così oscuro e pauroso.
E che il mondo è meraviglioso.
Il mondo è meraviglioso e pieno di misteri.
Misteri che collidono continuamente, annichilendosi, dentro l’atmosfera.
E noi, doloranti parassiti, a succhiarne i resti.
Mi viene male alle unghie dei piedi.
Ho troppo caldo per pensare e dal mio balcone un grattacielo lampeggia rossamente un messaggio cifrato: non amarmi mai più.
Eppure io ti amo lo stesso, mia sporca e masticata Bangkok.
Perché sono brutto ed equoreo come te.
E voglio leccare il cuore del tuo incedere lento sino alla fine carezzevole della tua notte.
Ovunque abbia deciso di portarmi.
Siem Reap, CAMBOGIA
Devo bere. Scrivo “devo” intendendo una letterarietà del termine che così intensamente di rado, o forse mai, ho utilizzato nella mia esistenza di narratore.
Alessandro me l’aveva detto.”Prendi una moto elettrica, vanno al massimo a 20 chilometri orari, è impossibile, anche volendo, non rimanere in piedi e per andare in bici fa troppo caldo”.
Ma io no, io mai. Bisogna fare sempre uno sforzo immane e immondo, per raggiungere le cose, il giro largo. E se le hai davanti bisogna prenderle e lanciare più in fondo, per fare comunque un po’ di strada prima di raggiungerle. Per il piacere di arrivarci da dove vuoi tu. Di poter dire “sono venuto io da te”.
E quindi, bici sia. Con 38 gradi, l’84% di umidità, una quantità indefinita e indefinibile di smog e il rischio di morire su una strada cambogiana, vittima di una mediocre Honda Jazz.
Arrivo ad Angkor Wat con i cristalli di sudore che hanno imbiancato ogni centimetro quadrato dei miei una volta giovani ed aitanti abiti. D’altronde, per la mia escursione ho scelto dei comodi e lunghissimi jeans neri, determinato a onorare sino in fondo il mio tentativo di calarmi drasticamente negli usi e costumi locali, prima fra le quali, appunto, vi è l’incomprensibile assenza di abiti che prevedano qualsiasi genere di “cortezza”.
Ci trasciniamo, io e la mia infima maglia e il mio fetido pantalone e le mie schifose mutande e le mie sudicie calze e le mie già logore scarpe, verso il profilo maestoso del tempio simbolo dell’impero Khmer, grondando rivoli di sale, mentre dall’alto una coltre di nebbia bollente investe il blocco centrale dell’edificio d’entrata. Salgo le scale da una porta che sembra meno affollata. Mi aspettano al varco un paio di scimmie. Mi annusano, poi vanno via.
Mi piacerebbe dire che è un luogo stupendo, che è valsa la pena rischiare di morire di sudore e incidente stradale per arrivare sino a qui. Però non è così.
Le centinaia di persone che popolano il tempio di Angkor Wat, me compreso, sottraggono a questi terreni, a queste mura, tutta la fibra spirituale di cui si avverte la presenza, ma la cui densità resta inavvicinabile, occlusa dall’inconsistenza liquida di tutti questi anonimi e svuotati sudori.
Vago per gli stretti cubicoli del palazzo impressionandomi di ciò che vedo, ma non di ciò che non sento. E devo ancora bere.
Parecchie ore, numerosi chilometri e alcuni templi (questi più intimi e nascosti, più limpidi e sereni e tiepidi) dopo, devo ancora bere.
Fermo la bicicletta, la lego alla radice terrosa di un albero e mi dirigo verso il bagno: voglio sciacquarmi il viso e le membra, prima di dissetarmi, scrostare le mani, ravviare i capelli.
Una bambina, avrà al massimo tre anni, mi si avvicina con in mano un casco di piccole banane. “Sir, banane sir, one dolar”. Non le voglio le banane, desidero soltanto scampare alla morte, e per scampare alla morte devo idratare il mio fu gagliardo corpo. Avvicino la mano destra al cuore, come fanno gli arabi, accenno un sorriso distratto, e vado avanti.
La bambina mi segue: non accetta il mio tenue rifiuto.
“One, two, three, four, five, six, seven, eight, nine, ten bananas sir, oly one dolar”.
Sta contando le banane.
Io penso che sì, forse, in fondo, mi andrebbe pure bene morire qui, senza idratare il mio fu ardimentoso corpo, adesso, mentre una piccola bambina cambogiana con gli occhi scuri che paiono aquilegie e i vestiti sporchi di terra e di fango e i capelli ruvidi come scorze di pane, conta, una per una, le piccole banane che vuole disperatamente vendermi al costo di un dollaro.
E pensare che io nemmeno le ho mai digerite, le banane.
Battambang, CAMBOGIA
Da Siem Reap a Battambang sono 164 chilometri.
Li percorriamo sull’autobus più scassato della Cambogia, la compagnia si chiama Capitol Tour e il biglietto ci costa la bellezza di 6 dollari. Di meno non c’è nulla, e noi ci stiamo impegnando a trasformare i nostri trasferimenti in viaggi della speranza che mettano in dubbio tutte le certezze fisiche, metafisiche e intellettuali costruite nel corso delle nostre tortuose esistenze.
Il bus non è vecchio: è vecchissimo. Tendine in cui sinuose trame intricate di blu, sporcate dal tempo, sormontano l’interno dei finestroni laterali. Una fantasia ordinatamente abbinata alle tende avvolge anche i consunti sedili. Siamo pochi, e nemmeno tanto buoni.
Alla velocità massima di 35 chilometri orari maciniamo un asfalto rasposo e sconnesso, affiancando baracche, terre incolte, famiglie che rientrano a casa, in tre quattro e a volte persino in cinque, tutti su un motorino, uomini a petto nudo che parlottano dentro i caffè.
Quando arriviamo in città ci aspetta il caldo bestiale, consistente, carnoso, cui non ci stiamo abituando.
E una stanza d’albergo, al Royal Hotel della strada 115 di Battambang, vicino al mercato centrale, che più squallida e antica nemmeno a volercisi mettere d’impegno.
Eppure noi non ci lamentiamo. Accendiamo la mostruosa pala a soffitto, facciamo partire il condizionatore Hitachi del 1974 e siamo pronti per ruminare anche questa città.
Siamo solo all’inizio.
di Alessandro Borscia
L’arrivo nel lontano Sud-est asiatico ricorda le gesta di un caro personaggio della televisione e del cinema italiani degli anni 70, il ragionier Ugo Fantozzi, ideato e interpretato dall’indimenticato Paolo Villaggio. La storia è più o meno la seguente: il volo prenotato dal sottoscritto è l’EW 1106, in partenza da Düsseldorf alle 18,30 e diretto a Bangkok, Thailandia, dove sarebbe arrivato, dopo undici ore di traversata intercontinentale, alle 13,30 ora locale.
In volo, a 12.000 metri, la sorpresa: “Signore, lei non ha prenotato il meal, il pasto, a bordo. Se vuole bere acqua, quanta ne vuole, sennò deve pagare”, mi riferisce con formale gentilezza l’hostess di Eurowings. Mi compro dunque un plastico pezzo di pizza ma dopo 11 ore di volo arrivo a Bangkok con una fame devastante. Il mio unico pensiero, dopo avere espletato tutte le formalità doganali nell’avveniristico nuovo aeroporto Suvarnabhumi della capitale thailandese e aver recuperato il bagaglio (il nome dello zaino, a causa del suo peso misteriosamente sempre in aumento, sarà Júlio, la “Bestia”, da Júlio Baptista, giocatore brasiliano della Roma dal 2008 al 2011, il cui soprannome era giustappunto “la Bestia”), è quello di procurarmi al più presto del cibo.
Come tutti quelli che arrivano in Thailandia con l’aereo rimango scioccato dalla temperatura e dalla umidità che mi aggrediscono appena varcata la soglia di una delle innumerevoli uscite. Il primo chioschetto disponibile è quello di un venditore di pollo fritto. “Lo vuole spicy (piccante)?”, mi chiede gentilmente la signorina dietro il bancone. Per una delle insondabili ragioni della mia mente stanca, le rispondo di sì, senza pensarci troppo. La prima reazione fisica è la formazione di due enormi gocce di sudore in entrambe le tempie, che iniziano lentamente a colare sul collo e poi lungo la schiena. Gli abiti, adeguati alla partenza da una Germania invernale, aggravano la situazione. I cosciotti di pollo sono ricoperti da una glassa lucida e rossastra ma nonostante tutto, non posso non portare a termine il fondamentale pasto.
Dopo aver recuperato un colorito accettabile, mi appresto ad affrontare la sfida successiva, che è quella di individuare il modo di prendere un taxi. Il nuovo aeroporto Suvarnabhumi è disposto su sette livelli e le fermate degli autobus, così come quelle dei taxi, sono nel livello 1. La procedura è singolare: si passa attraverso dei tornelli e si riceve un biglietto con un numero che indica lo spazio dove aspettare il taxi e un nome che è quello del tassista che vi trasporterà a destinazione. Lo scopo è quello di rendere più facili eventuali denunce o lamentele da parte del turista. Percorrere i 32 chilometri che separano il gigantesco aeroporto dal centro della capitale thailandese offre l’opportunità di ammirare il profilo urbano in continua evoluzione della megalopoli asiatica: grattacieli, torri e palazzi dalle linee e dai contorni più strani e insoliti si alternano a vecchi edifici bassi e ad antichi templi. L’autostrada, che in certi punti dispone di ben otto corsie, si infila dentro il ventre della città e quei contrasti fra architettura avanguardistica ed obsoleta si arricchiscono di ulteriori contrapposizioni che costituiscono la reale natura di questa incredibile città: smog, caos, ricchezza, povertà, odori acri e nauseabondi d’immondizia rancida, con l’aria calda che si appiccica e non ti lascia respirare.
Fra le (non) molte attrazioni turistiche che offre Bangkok una menzione speciale la merita Nana Plaza, the worlds largest adult playground, il più grande parco giochi per adulti del mondo, come recita eloquentemente l’insegna. Situato in una strada laterale (Soi 4) della Sukhumvit Road, un’arteria stradale di Bangkok lunga 400 chilometri che arriva fino al confine con la Cambogia, Nana Plaza è un edificio a forma di U, costituito da un pianterreno denso di bar, locali e pub, da cui poi si accede tramite scalinate laterali ai tre ordini superiori. Sono proprio i piani superiori, e quello che ospitano, a rappresentare l’attrazione per migliaia di persone di tutto il mondo. Una serie di considerazioni si affastellano una dopo l’altra: perché non andare a dare un’occhiata? D’altra parte, questo è un posto unico al mondo. Domani, domenica 17 marzo, sarà il mio ultimo giorno a Bangkok e chissà quando ci tornerò. Forte di queste rassicuranti considerazioni, salgo sul BTS (Bangkok Mass Transit System), il nuovo e moderno Skytrain, inaugurato nel 1999, che mi porterà fino alla fermata Nana.
La sorpresa, ancora una, si materializza quando arrivo all’entrata, dove un cartello avverte: “Avvisiamo i gentili visitatori che oggi, sabato 16 marzo 2019, Nana Plaza, a causa delle elezioni politiche del prossimo 24 marzo, rimarrà chiuso”. Mai un giorno – anche se su questo non metterei la mano sul fuoco – Nana Plaza ha chiuso i battenti dal momento della sua apertura agli inizi degli anni 80. Forse, dico forse, è questo l’unico giorno, o uno dei rari in tutti questi anni, in cui il “parco-giochi per adulti” non apre le porte ai suoi ospiti. D’altra parte, questa ci sembra la degna conclusione del soggiorno a Bangkok, iniziato e finito sulle orme del ragioniere più famoso d’Italia.
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La foto di copertina è © Mauro Mondello
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