Mauro Mondello, direttore di Yanez, e Alessandro Borscia, collaboratore storico della rivista, percorreranno in un viaggio on the road, fino al prossimo giugno, le strade di Thailandia, Cambogia, Vietnam, Laos, Cina, Mongolia.
Ogni settimana, nella rubrica speciale Transasiatica, ci invieranno
pensieri sparsi, immagini, resoconti, impressioni, tracce.
di Alessandro Borscia
L’autobus è pieno fino all’inverosimile. Uomini e donne, per lo più anziani dalle facce stanche e dagli sguardi gentili, occupano tutti i posti disponibili sul malmesso mezzo di trasporto. Una donna siede accanto a noi con un bambino piccolo in grembo. Nel sedile di fianco, quello che dovrebbe essere suo figlio più grande. E fra di loro, e sotto le loro gambe, un numero imprecisato di pacchi, pacchetti e borse. Un altro bambino piccolo sta in piedi nel corridoio, vicino alla madre, e ogni tanto si distende nel pavimento. Dopo pochi chilometri entrano altre persone, aprono delle sedie pieghevoli e si sistemano nel corridoio dell’autobus, che intanto arranca nella strada dissestata e piena di buche che separa Battambang, piccola cittadina nel nord-ovest della Cambogia dalla capitale Phnom Phen. L’autobus appartiene alla Capitol Tour, la compagnia di trasporti più economica della Cambogia e per questo usata dalla gente povera di questo paese povero, nel Sud-est asiatico sicuramente il più povero, con gran parte dei suoi quasi 16 milioni di abitanti che vive in aree rurali.
Si dice che la gente della Cambogia, dopo la delirante dittatura dei Khmer rossi di Pol Pot (venuto al mondo con il nome di Saloth Sar), durata dal 17 aprile 1975 al 7 gennaio 1979, e la successiva guerra cambogiano-vietnamita protrattasi fino al 1991, abbiano solo voglia di vivere in pace, con il sorriso e la semplice gioia di stare al mondo. Si scrive anche che le donne, a causa dello sterminio di un’intera generazione di uomini, sono in numero prevalente nel Paese. Infine, si sente dire sarcasticamente dagli stranieri che visitano la Cambogia che il suo “vero” nome sarebbe Scambodia (gioco di parole in inglese derivato da scam, che vuol dire ‘truffa’) per cui occorre stare particolarmente attenti. Le prime due cose sono vere, la terza no. Almeno secondo la nostra esperienza. La gentilezza, il sorriso, la disponibilità verso l’altro da parte dei cambogiani sono sorprendenti ed è commovente osservare questa gente piena di dignità. Nessuno ha mai provato a truffarci o fregarci (escludendo i Tuk-Tuk drivers), casomai hanno provato ad aiutarci. Nota sulle donne cambogiane: sono riservate – fanno il bagno in mare con i vestiti – un po’malinconiche e molto belle.
L’autobus procede ad una velocità che non supererà mai i 50 km/h, rendendo presto il viaggio esasperante ed estenuante. Avrebbe dovuto durare sei ore, in realtà se n’è prese nove, quasi dieci. Nelle guide c’è scritto che i mezzi della Capitol Tour hanno un solo servizio a bordo: la televisione: la nostra ha iniziato a trasmettere ad un certo punto una musica tradizionale cambogiana a un volume che è diventato subito troppo alto. Al rientro sull’autobus da una delle molte pause, l’esperienza più folcloristica finora di tutta l’avventura. Un’anziana donna delle prime file pesca con una mano da un sacchetto e mangia. Passandole accanto non posso fare a meno di gettare uno sguardo in quello che sta mangiando. Sono insetti, blatte per la precisione, di un colore nero lucido e con le zampette belle stecchite. È un attimo: la signora mi guarda, sorride e mi offre una manciata di invertebrati. Esito un secondo ma la decisione sorge istintiva. Me ne porto uno alla bocca e mastico. È croccante e fra i denti non si sente, come mi era stato detto, quella pastella liquida che renderebbe il pasto disgustoso. È tutto fritto e allora me ne mangio altri due o tre ma il resto lo rendo alla gentile signora che insieme agli altri passeggeri sta ridendo di gusto.
Phnom Phen, CAMBOGIA
Per provare a comprendere il popolo cambogiano occorre andare al Security Office S-21, ora museo del genocidio, in una strada polverosa dei sobborghi meridionali di Phnom Phen, e avvicinare l’impensabile orrore dell’olocausto patito da questo popolo, nemmeno 45 anni fa. L’S-21 (S stava per security e 21 era un codice amministrativo) è la prigione di Tuol Sleng, da cui, a partire dalla metà del 1976 nessuno è uscito vivo. Era il centro di detenzione più importante della “Cambogia Democratica”, nome che il Paese ha assunto durante gli anni di dittatura dei Khmer rossi. La struttura, costruita nel 1962 come scuola, la Chao Ponhea Yat High School, ospita un grande giardino con alberi maestosi e una vegetazione meravigliosa. Dal 1975 al 1979 è stata trasformata in un luogo dell’orrore in cui sono stati tenuti in detenzione con metodi disumani, interrogati con procedure assurde per la comune comprensione e infine barbaramente torturati e ammazzati dai 12mila ai 20mila cambogiani, fra cui anche vecchi, donne e bambini. I numeri risultano imprecisi, come ai killings fields, i “campi della morte”, 300 sparsi in tutto il Paese, dove si stima che tra il 1975 e il 1979 circa 200mila persone siano state crudelmente uccise. A Choeung Ek, 12 km a sud-ovest di Phnom Phen, il campo di fosse comuni più grande in Cambogia, ogni anno dopo la stagione delle piogge continuano ad affiorare brandelli di vestiti, frammenti di ossa e denti. In questo campo di sterminio, che dal 1988 è un memoriale, venivano trasportati di notte i detenuti dell’S-21 e subito trucidati con mazze e vari attrezzi agricoli. Le vittime appartenevano, secondo le idee deliranti di Angkar (Angkar Padevat, che vuol dire “organizzazione rivoluzionaria”, è il nome del ristretto circolo dietro cui si celavano i leader del Partito comunista cambogiano guidati nell’ombra da Pol Pot), al popolo “nuovo”, ovvero tutti quei cittadini che nella settimana successiva al 17 aprile 1975, giorno della marcia su Phnom Phen dei Khmer rossi, furono costretti con l’inganno a evacuare le proprie case in città e andare in campagna. Qui, i contadini che risiedevano in aree rurali controllate dal Partito comunista cambogiano prima della presa del potere dei Khmer rossi formavano il “popolo base”, ovvero coloro che rappresentavano i fondamenti per realizzare un’assurda “società agraria”, senza alcuna forma di proprietà privata.
Il “popolo nuovo”, quello delle città, era il nemico capitalista da abbattere. Lo slogan che uno dei 12 sopravvissuti di S-21 sentiva spesso dire riferito a loro era: “Tenervi non è un guadagno, perdervi non è una perdita”. Bastava avere le mani morbide e gli occhiali per far parte del “popolo nuovo” ed essere arrestato. Un altro slogan dei Khmer rossi: “Meglio sbagliare per un innocente che liberare un colpevole”. I numeri sulle vittime del regime di Pol Pot sono imprecisi ma secondo gli studiosi si calcola che circa 2 milioni (su 7 milioni di persone che il Paese contava all’epoca) di cittadini abbiano perso la vita.
Due immagini porto con me, entrambi di Choeung Ek, il luogo del Memoriale. La prima è quella di una giovane ragazza che si commuove e piange ascoltando l’audio guida. L’altra è “l’albero della morte”, accanto ad una fossa. I bambini (la vittima più piccola del genocidio dei Khmer rossi aveva 2 anni) venivano presi per i piedi e sbattuti con la testa contro il grosso tronco dell’albero.
di Mauro Mondello
Phnom Penh, CAMBOGIA
Le persone non abitano Phnom Penh, la sormontano, piuttosto, con le loro membra rose dal fuoco sudato di un’umidità che non lascia spazio ai pensieri lunghi, ma solo alle sensazioni brevi, quelle che arrivano e vanno via con la velocità dello scirocco in un pomeriggio di fine maggio.
Per arrivare al quartiere Phum Russei Sraoh bisogna oltrepassare il ponte che allunga la Strada Nazionale numero 1, oltre il fiume Bassac, e che si trascina poi, come una lingua di polvere gialla e sottile, dentro il caos di automobili e motociclette, sino all’estremità orientale della penisola cittadina.
La strada, la numero 369, è un caleidoscopio impazzito di colori e rumori e bambini che salutano “hello” e lavanderie a 2000 Riel (40 centesimi di euro) per un chilo di vestiti sporchi e signore dall’età indecifrabile che friggono e arrostiscono carni anch’esse indecifrabili, il fumo s’incastra caparbio nell’aria densa del pomeriggio, deciso a gettarsi verso lo scorrere impetuoso, definitivo, del Mekong, che si distende proprio lì accanto.
Ci siamo scelti un hotel lontano da tutto quello che di solito si viene a cercare a Phnom Penh, vicino alle persone che ti basta guardarle negli occhi sagittabondi per capire che di vita, a volte, ne basta una sola.
Il caos che ci troviamo appena fuori dal cancello del Mowin Hotel è un affannoso contrasto di esistenze così lontane e così dolci. Mi viene in mente una poesia di Pier Paolo Pasolini mentre cammino per l’asfalto terroso della 369 con Alessandro, Profezia.
“Alì dagli Occhi Azzurri
uno dei tanti figli di figli,
scenderà da Algeri, su navi
a vela e a remi. Saranno
con lui migliaia di uomini
coi corpicini e gli occhi
di poveri cani dei padri
sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini,
e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.
Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.
Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
a milioni, vestiti di stracci
asiatici, e di camicie americane.
Subito i Calabresi diranno,
come da malandrini a malandrini:
«Ecco i vecchi fratelli,
coi figli e il pane e formaggio!»
Da Crotone o Palmi saliranno
a Napoli, e da lì a Barcellona,
a Salonicco e a Marsiglia,
nelle Città della Malavita.
Anime e angeli, topi e pidocchi,
col germe della Storia Antica
voleranno davanti alle willaye.
Essi sempre umili
Essi sempre deboli
essi sempre timidi
essi sempre infimi
essi sempre colpevoli
essi sempre sudditi
essi sempre piccoli,
essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare,
essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi
in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo,
essi che si costruirono
leggi fuori dalla legge,
essi che si adattarono
a un mondo sotto il mondo
essi che credettero
in un Dio servo di Dio,
essi che cantavano
ai massacri dei re,
essi che ballavano
alle guerre borghesi,
essi che pregavano
alle lotte operaie…
… deponendo l’onestà
delle religioni contadine,
dimenticando l’onore
della malavita,
tradendo il candore
dei popoli barbari,
dietro ai loro Alì
dagli Occhi Azzurri – usciranno da sotto la terra per uccidere –
usciranno dal fondo del mare per aggredire – scenderanno
dall’alto del cielo per derubare – e prima di giungere a Parigi
per insegnare la gioia di vivere,
prima di giungere a Londra
per insegnare a essere liberi,
prima di giungere a New York,
per insegnare come si è fratelli
– distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ogni sacramento
andranno su come zingari
verso nord-ovest
con le bandiere rosse
di Trotzky al vento…”
Di lunedì sera finiamo per uscire a cena che è già tardi. Ci avviciniamo a passi rapidi verso lo slargo su cui si aprono il mercato e le mangerie ambulanti. Qui si ingurgitano, su sedie bassissime, all’aria ed al vento, stufati di bestie miste, zuppe di pesce, carni alla griglia, riso, germogli di soia, lisci maritozzi bianchi ripieni di uova e di porco, frutti stranissimi, come il Durian, la polpa elastica e gialla, la scorza appuntita, l’odore di spazzatura.
Vorremmo, ma non ce la facciamo. Imbocchiamo la strada maestra, sulla sinistra. Ad attenderci, la punizione che meritiamo: un ristorante coreano, in Cambogia, che serve solo noodles, su tavoli alti quaranta centimetri, senza posate. Ci guardano tutti. Noi non demordiamo. Quando le scodelle, ripiene di un liquido incandescente, vengono poggiate di fronte alle nostre colpevoli bocche, la portata della disfatta assume contorni ancora più granciporrici. Ci avventiamo, tormentati dalla mancanza di tecnica bacchettante, su questi profondi gorghi verdastri che potrebbero contenere draghi, cagliostri, licheni, arvicole e chissà cos’altro.
Lentamente, veniamo sconfitti.
Fuori dal ristorante, mentre parliamo di melanzane ed olio d’oliva, ci attende una tempesta di acqua pastosa e morbida, di cielo che si frattura, che corre a sbattere sulla terra e non sente ragioni.
Il sonno ci viene a salvare, sino al prossimo temporale di kuy teav.
di Alessandro Borscia e Mauro Mondello
Koh Rong, CAMBOGIA
Quando la barca s’impenna e la chiglia impatta contro la superficie dell’acqua mi viene in mente un vecchio film con Alain Deloin, Delitto in pieno sole. Ci penso mentre l’oscillazione mi rende ogni pensiero ondivago e sullo sfondo comincia a stagliarsi l’approdo del Sok San Beach Resort, un pontile dalle assi di legno mangiate dal sale e dal tempo. Qui a Koh Rong c’è la sabbia bianca, gessosa, che al camminarci sopra scricchiola come farina; c’è un mare lucido di alabastro, nel quale è possibile vedere tutte le cose dell’esistenza.
Dalla spiaggia i colori sono numerosi e si apprezzano varie gradazioni: l’azzurro del cielo, il blu scuro del mare, che poi diventa sfumando azzurro chiaro, celeste e poi verde acqua marina. L’ultima striscia è quella del bianco abbagliante della sabbia di Koh Rong, l’isola più grande di fronte alla costa cambogiana, a due ore di battello dalla città di Sihanoukville. Siamo approdati nello splendido Sok San Beach Resort.
La lunga striscia di terra bianca e sabbiosa del villaggio di Sok San, nella parte occidentale dell’isola, fino a pochi anni fa era completamente deserta. Adesso già ci sono, oltre al nostro resort, una serie di cantieri aperti che lasciano facilmente immaginare cosa sarà quest’isola fra un po’di anni. Koh Tui, il villaggio sulla costa orientale, ci fornisce già un buon esempio: bar, ristoranti, hotel, club, discoteche, uno accanto all’altro e tutti riversati sulla spiaggia. Dedichiamo a Koh Tui non più di due ore, giusto il tempo di fare un bagno nelle sue meravigliose acque inquinate e di immaginare che prima dell’avvento della plastica, quest’isola deve essere stata veramente un paradiso naturale.
Dormiamo in un enorme chalet di legno (due bagni, due stanze separate) a pochi centimetri dalla spiaggia che si affaccia sul Golfo di Siam. Di notte possiamo guardare verso l’orizzonte e vedere le luminarie dei pescherecci cambogiani fermi in alto mare, in alto le prime e uniche stelle del nostro viaggio.
Mangiamo falafel, tofu, patate bianche. Beviamo birra Angkor al bar di Alessandro, il Tortuga, un ragazzo di Varese che ha aperto un chiosco di legno su una delle parti più sperdute dell’isola, in fondo ad un sentiero di roccia, oltre il ponte di legno che supera la laguna, in fondo al villaggio.
Qui l’esistenza è docile e meditabonda.
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La foto di copertina è ©Alessandro Borscia
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