Mauro Mondello, direttore di Yanez, e Alessandro Borscia, collaboratore storico della rivista, percorreranno in un viaggio on the road, fino al prossimo giugno, le strade di Thailandia, Cambogia, Vietnam, Laos, Cina, Mongolia.
Ogni settimana, nella rubrica speciale Transasiatica, ci invieranno
pensieri sparsi, immagini, resoconti, impressioni, tracce.
Tam Coc, VIETNAM
di Alessandro Borscia
Il tratto fra Huê e Ninh Binh, capoluogo dell’omonima provincia a un centinaio di chilometri a sud di Hanoi, lo percorriamo in treno, di notte. Ci vogliono dodici ore per coprire i 550 chilometri che separano le due città. A Ninh Binh ci fermiamo solo per fare una specie di colazione e immediatamente salutiamo l’insipida cittadina che non ha nulla da offrire se non il fatto di trovarsi a poca distanza da una serie di località immerse in un paesaggio che lascia a bocca aperta: il placido corso del fiume Ngo Dong che scorre fra spettacolari speroni calcarei ricoperti dalla vegetazione lussureggiante della foresta pluviale (che offre tutte le sfumature del verde). Facciamo base al villaggio di Tam Coc, letteralmente tre caverne, da cui, con il nostro immancabile motorino, partiamo per esplorare la zona. La strada si snoda in mezzo a un paesaggio di surreale bellezza, passando a fianco di risaie e alture calcaree dalle pareti a picco rivestite di verde. Lo sguardo si perde oltre le sterminate distese di piatti campi di riso costeggiati dai tradizionali villaggi, palme da cocco e piante di bambù i cui esili fusti scricchiolano al passaggio di una leggerissima brezza.
In pochi minuti arriviamo a Hoa Lư, un’area di 3 km quadrati dove si trovano i resti di quella che dal 968 al 1009 fu il centro economico, politico e culturale del Vietnam. Đinh Bộ Lĩnh (924-979), passato alla storia con il nome di Đinh Tiên Hoàng (letteralmente: primo imperatore dei Đinh), è il fondatore della dinastia Dinh e primo sovrano a dare un’unità politica, territoriale e indipendente al Paese, che prese presto il nome di Đại Việt, “grande Viet” (il termine “Việt” è affine alla parola cinese “Yue” che indica i vari gruppi di etnia non cinese che nei tempi antichi abitavano i territori che attualmente corrispondono alla Cina meridionale e al Vietnam settentrionale). È il periodo in cui il Buddismo inizia a diffondersi in Vietnam. Nel 979 Đinh Bộ Lĩnh e suo figlio Đinh Liễn vengono assassinati, e con ciò si pose fine al breve regno dei Dinh. Seguiranno gli anni della prima dinastia Lê (Early Lê dynasty, 980-1009) che fu in grado di respingere l’invasione del Song, una delle più ricche e importanti famiglie regnanti della storia cinese, che governò dal 960 al 1279. Nel 1010, Lý Thái Tổ (nome alla nascita Lý Công Uẩn), fondatore della Lý Dynasty (nota come Later Lý Dynasty), trasferisce la capitale da Hoa Lư a Thăng Long, la cittadella fortificata sulla riva occidentale del Sông Hồng, il Fiume Rosso che attraversa Hà Nội. Nel 2010, l’attuale metropoli vietnamita ha festeggiato i suoi primi 1000 anni, celebrando il suo fondatore Lý Thái Tổ.
di Mauro Mondello
La stazione di Hué è una tempesta arroventata di pannocchie cotte al carbone, turisti in canottiere con motivi d’anguria, ventilatori da soffitto cigolanti, pesci essiccati ai baracchini del binario 1, l’odore di piscio che arriva a folate e si mischia con la dura acredine dell’aria ferma, dell’aria immota e inamovibile di questa città. Abbiamo prenotato due cuccette in un compartimento a quattro letti: carrozza 1, posti 256 e 257. Sono quelli in basso, costano un po’ di più, 140.000 dong, però in questo modo abbiamo il tavolino e appena arriviamo ci lanciamo in una briscola, che vinco in rimonta e contro ogni pronostico, per tre partite a due.
La notte passa insonne e languida, nel ritmo da quaranta chilometri orari del nostro SN20, nello scorrere di un paesaggio che si fa sempre più verde e ondulato, inattesi coni di montagne basse a collinare il terreno in protuberanze irregolari, sornione, che guardano da un alto un po’ mediocre le donne in bicicletta, le donne che s’infangano nelle risaie, le donne che in nón lá riempiono ovunque, con la forza prorompente dell’anima e del corpo, le strade di questo paese.
Arriviamo a Ninh Binh alle 9.36, in perfetto orario. La stazione è polverosa, isolata, persa, fuori dall’atrio principale i tassisti provano a combattersi i pochi clienti di questa bassa e soffocante stagione, ma non ce ne è per nessuno. Abbandoniamo questo che sembra un villaggio di frontiera nel far west di un Vietnam senza pietà e senza respiro, e trasciniamo i nostri madidi corpi verso il paesino di Tam Coc, non prima che Alessandro abbia compiuto la sua penitenza quotidiana: bere un orribile caffé in un luogo orribile nel quale prevedibilmente gli venga servito dell’orribile caffé.
Dopo oltre un mese di viaggio, questo Vietnam sta diventando un composto denso, una polpa di particelle vicine le une alle altre, dentro cui continuiamo, abbaconi, ad allontanare l’arrivo, ad avvicinare il presente.
In barca, alle grotte di Trang An, ci vado da solo, uscendo poco dopo l’alba. Chiedo ai ragazzi, gentilissimi, del nostro alloggio, il Tamcoc Memories Homestay, di poter noleggiare una bici. Mi portano l’aggiornamento ingrassato di un triciclo, dai colori rosa e bordeaux. Sono le 7 di mattina, non posso fare storie: lo prendo. Dopo aver regalato una mattinata felice ai deliziati abitanti del villaggio, che non possono fare a meno di scoppiare in rumorosi cachinni al passaggio del grande e barbuto uomo occidentale su una piccola bicicletta da studentessa delle scuole elementari, raggiungo agilmente il mio obiettivo: in fondo erano solo nove chilometri di strada un po’ sterrata, un po’ pietrosa, un po’ bucherellata, con 34 gradi di temperatura e l’umidità al 75%, percorsa su un triciclo.
Ma c’è la ricompensa. A Tam Coc oggi è una giornata speciale. Il mio non sarà un semplice giro su una piroga a remi faticosamente spinta sulle acque dal vogare di braccia di una coraggiosa signora del posto. Oggi qui c’è l’Hoa Lo Festival. Centinaia di persone cercano di accaparrarsi un posto sulle piccole imbarcazioni, mentre si avvicina il suono dei tambureggiatori, dei flauti cinesi, ad annunciare la comparsa dei dragoni. Due file lunghissime di uomini sono collegate da una distesa di piroghe, in alto i tessuti frastagliati di quelle che sembrano squame, verdi, azzurre, gialle e rosse, tenuti in alto su bastoni circolari. Davanti a tutti le teste minacciose dei serpentiforme dalle lingue di fuoco, rappresentanti, nella mitologia orientale, l’aspetto caotico del cosmo.
Le grotte sono state invase dall’acqua dei fiumi vicini, l’Hoang Long a nord, il Chanh a est, il Ben Dang a ovest e poi il Sao Khe, l’Ngo Dong, il Den Voi, a sud, per numerose volte, prima di emergere sulla terra. Lo sviluppo geologico, in un periodo di oltre cinque milioni di anni, ha prodotto un paesaggio in cui imponenti montagne si incastonano nella potenza della foresta pluviale, circondate da enormi bacini interni, le cui acque chiare e silenziose sono collegate da una miriade di ruscelli sotterranei e caverne e grotte, molte delle quali navigabili dai piccoli sampan, le piroghe vietnamite, di cui anche io sono ospite questa mattina.
Arrivati sull’isola delle celebrazioni mi viene offerta una foglia di bambù con dentro riso bianco e fagioli. La mangio con le mani e la signora che mi ha rincorso, avvolta in una tunica rossa, i capelli neri raccolti in un fazzoletto bianco annodato sul mento, mi sorride soddisfatta.
Adesso posso ritornare a casa.
Hanoi, VIETNAM
di Alessandro Borscia
Hanoi è bella e sporca. Con i bidoni dell’immondizia pieni di rifiuti e di mosche lasciati marcire sotto il sole ai margini delle strade. Con la gente che piscia nelle strade affollate di persone. Con i suoi campi lungo il Fiume Rosso che attraversa la città e che sono discariche a cielo aperto che emanano un fetore insopportabile. E dove vivono migliaia di persone che sembrano accatastate una sull’altra.
Hanoi è bella e caotica. Milioni di motorini e auto affollano ogni giorno le sue vie e i suoi viali e attraversare la strada è un’impresa pericolosa perché nessuno si ferma, nemmeno sulle strisce, nemmeno al semaforo rosso, a meno che non siano grandi incroci. Ci vuole metodo per passare da una parte all’altra della strada. Non si deve essere timorosi, bisogna farsi avanti e guardare i motorini che ti vengono addosso e carpire le intenzioni del guidatore. Occorre fermarsi e offrire al motorino lo spazio per passare, una cosa tipo: “Ehi, guarda, io sono qui, alla mia destra puoi passare”, mentre un altro motociclo sfreccia alla tua sinistra. E poi fare un altro pezzettino e fare la stessa cosa con l’altro veicolo che viene subito dopo, fino a quando si è dall’altra parte.
Hanoi è bella e viva. Con la vita che pulsa nei marciapiedi, le donne che tagliano la testa ai pesci, le donne (soprattutto) e gli uomini che cucinano, mangiano, lavano i piatti, dormono. Non ci si riposa in casa. Ci si riposa sul marciapiede, sulle sdraio, su panchetti alti venti centimetri o direttamente accovacciati per terra. È ai margini delle strade che si vive ad Hanoi, che si gioca a dama cinese, che si fuma il lungo narghilè fatto con un robusto tronco di bambù.
Hanoi è bella e insopportabile. Con i suoi 37 gradi e l’umidità che ti fa sudare anche solo per respirare. Con i suoi odori intensi e acri che invadono i vicoli stretti dei suoi quartieri poveri. Con il suo continuo incessante rumore del traffico che non sarebbe niente se non fosse accompagnato dal logorante vociare dei clacson dei motorini e delle auto. Qui suonano tutti il clacson, lo fanno sempre, ogni secondo. Ogni passo fatto in questa città è accompagnato dal concerto acuto dei suoni degli scooter, dei taxi, degli autobus che presto diventa per i tuoi nervi quello che la sega elettrica è per il legno.
Hanoi è bella e basta. Con i suoi innumerevoli alberi maestosi e imponenti, dalle chiome enormi e con le fronde antiche spinte verso il basso dalla gravità. Con i suoi vicoli stretti del bellissimo Old Quarter, il vecchio quartiere, ricolmo di negozi, mercati, botteghe da cui si levano odori esotici. Con i suoi parchi e i suoi laghi disseminati per tutta la città. Con i suoi templi, agli angoli degli incroci, mai privi di incenso, di fiori, di regali, di banconote, di cose da mangiare offerte come ex-voto.
Hanoi è inospitale e accogliente allo stesso tempo, così come dovette esserlo per gli americani la Hoa Lo Prison, la prigione costruita dai francesi colonialisti nel 1896 per incarcerare migliaia di patrioti e combattenti vietnamiti. Nel periodo fra il 5 agosto 1964 e il 29 marzo 1973 è stato il luogo di detenzione dei molti piloti americani – fra cui l’ex senatore repubblicano John Mc Cain – che furono abbattuti con i loro aerei nelle incursioni nel Nord del Vietnam. È con un’ironia non priva forse di un fondo di verità che la Hoa Lo Prison fu soprannominata da quei piloti “l’Hilton di Hanoi”.
di Mauro Mondello
Hanoi, dove comincia il Vietnam, dove finisce il Vietnam.
Non nascondiamo la fatica, l’irritazione, il nervosismo, che alcuni degli elementi ormai tipici e costanti di questo paese cominciano a destarci. Cose che all’inizio di questo lungo viaggio chiedevano curiosità, risate, osservazione, hanno scavato adesso un solco dentro il nostro ambizioso progetto di sopportazione.
Il caldo, l’umidità, ci soffocano ad ogni passo.
Il suono imperterrito, ineluttabile, quasi sempre inutile, dei clacson, ci travolge non appena mettiamo piede sull’asfalto. Gli odori aspri, penetranti, folti, del cibo cucinato per strada, delle carni e dei pesci abbandonati sui taglieri dei mercati, dei miasmi delle latrine al cielo aperto dei 36 gradi costanti, ci piombano addosso come tempeste di sabbia e di vento.
Ma non perdiamo la nostra lucidità. Perché Hanoi è bella, perché Hanoi è dolce, perché Hanoi ha i vicoli stretti e i treni che la attraversano nel cuore, perché Hanoi si distende in un caos quasi carezzevole, morbido, e ha l’alterigia schietta di chi ti dice e si prende tutto in faccia.
Dal nostro appartamento all’ultimo piano di una palazzina nel quartiere di Đống Đa, a pochi passi dal Tempio della Letteratura e dal Mausoleo che raccoglie i resti di Ho Chi Minh, esploriamo la città pezzo dopo pezzo, in piccoli e inesorabili passi.
C’è il vecchio quartiere un po’ turistico, un po’ irruente, con i suoi fili elettrici scoperti e annodati agli angoli degli incroci, le vie strettissime che ci si potrebbe toccare fra i balconi, le litanie consecutive e inalterabili delle venditrici di strada che trasportano manghi, fritture e dolore sorridente.
C’è il lago di Hoan Kiem e la sua pagoda in mezzo all’acqua e la leggenda di una spada e di un vecchio imperatore galleggiante.
C’è il mercato di Đồng Xuân, con le sue tartarughe in gabbie da criceto che ti fanno piangere e le migliaia di tessuti colorati, le donne che ci dormono addosso, rinfrescate dall’aria flebile delle enormi pale a soffitto. Vorrei potermi intrufolare pure io dentro l’oceano delle fantasie fiorate, per vedere se riesco, finalmente, a trovare un po’ di sentimento in questo Vietnam così gentile ed educato, così servile e sorridente, così inaccessibile e solitario nelle persone che ti si avvicinano solo con lo sguardo, a volte con il corpo, ma mai con l’anima. In questo Vietnam in cui non vedi mai, in cui non percepisci mai, l’affetto soffuso delle sensazioni.
Una donna mi ha detto: “qui è così, non c’è amore in Vietnam. C’è la vita, e c’è la morte.”.
Non c’è amore in Vietnam.
Non c’è.
Amore.
In Vietnam.
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