Rivista Eterna, sorellina di Yanez e spin off del progetto berlinese Le Balene Possono Volare, è una rivista letteraria che, lentamente ma implacabilmente, andrà a consumarsi fino a morire. Chi l’ha creata ha deciso di condannarla a morte: nascerà, crescerà, invecchierà e giungerà al suo termine. In soli tre numeri, distribuiti in tre anni.
La prima call della rivista è dedicata alla morte.
Sul primo numero di Eterna, che sarà pubblicato in cartaceo nell’autunno del 2021, usciranno sette racconti, scelti fra 149 elaborati ricevuti nell’arco di tre mesi.
Alcuni dei racconti arrivati a Eterna, nonostante siano piaciuti molto al Comitato di Valutazione, non sono riusciti a trovare spazio all’interno del primo numero. Quattro di quei racconti – più un extra speciale – saranno pubblicati su Yanez, una volta al mese fino all’uscita del numero 1 in cartaceo.
Ogni racconto sarà illustrato da un collaboratore di Yanez.
Leggi anche gli altri racconti:
Omelia di Elasia Viviano
Il Fiume di Andrea Tani
Battista di Silvia Guberti
Un racconto di Eva Luna Mascolino
Illustrato da Victor Cavazzoni
Per tanti anni aveva avuto questa idea che la vita si dovesse guardare con cura. Spiegare, ricordare, studiare. Come una strana creatura che, a livello cellulare, ne contiene altre senza vederle. Adesso, invece, aveva l’impressione che dalla vita andasse piuttosto levato il superfluo. Via gli strati, via il senso, via i bracciali. L’obiettivo non era riempire la lavagna di leggi algebriche coerenti, bensì cancellare ogni cosa. Fissare l’ardesia e scordare il gessetto. La vita sarebbe venuta fuori meglio, se avesse avuto più spazio.
E così, quando scriveva, smise di dire. Di raccontare. Cominciò a lasciare che le storie accadessero, come dentro alla testa di un’altra persona. O sul ciglio della strada. Non le manipolò più, non le abbellì. Pensò alle correnti postmoderniste in cui si rinunciava a una trama, o a uno stile. A chi stravolgeva i generi, li rinnegava o li superava. Sentì che quella gente era rimasta comunque padrona del gioco, anche perché si trattava di un piacere troppo carnoso a cui rinunciare. Né sarebbe andata lontano, con il suo finto desiderio di svecchiare il teatrino, se non capiva che le marionette erano vive anche loro, e che l’unica cosa possibile era lasciare che salissero sul palco.
Avrebbe scritto un attacco del genere, la mia autrice, se solo l’avesse voluto. E dire che l’ho quasi pregata di dare una dignità alla mia storia, almeno nelle prime righe. Sarebbe stato solo peggio, secondo lei. Un inganno nell’inganno. E sia: l’ho scritto io al suo posto. Certo, non sono abituata a impugnare la penna quanto lei. Per campare faccio la controllora, io. Se ci fosse una parola migliore di questa – controllora – la userei. Però al momento mi accontento e mi concentro su altro.
Volevo diventare la protagonista di un racconto da tanti anni. La prima volta l’ho sognato in quarta elementare: mi trovavo a scuola ed ero sorprendentemente bella, più bella del giorno prima e più bella di chiunque intorno a me, e una voce fuori campo spiegava i dettagli del mio miracolo plastico. Che incipit.
Il buffo è che non sono mai andata oltre quella scena. Si interrompeva la visione, voglio dire. Ero nell’atrio, lasciavo la bidella a bocca aperta e poi raggiungevo le scale per salire in classe, stop. Ci sarebbe voluta una scrittrice di professione per proseguire, e io non lo ero mica.
Come forse si intuisce, non sono tanti gli episodi che potrei riportare alla luce senza trovare una punta di amarezza al centro del mio stomaco. La mia carriera stessa è cominciata mentre mi trovavo in un doloroso periodo di transizione fra l’adolescenza e i trent’anni. Facevo dei lunghi bagni per dimenticare di avere freddo, mi rivestivo con lentezza e quasi speravo di prendermi un accidente, mentre stavo nuda a fissarmi davanti allo specchio, disegnando case di vapore sul vetro. Quando uscivo dal bagno, però, avevo i polmoni più pesanti di prima.
Crescendo ho alternato la speranza di trasformarmi in un personaggio di finzione a quella di evolvermi in un’intellettuale in carne e ossa. Oggi non sono né l’una né l’altra. Mi invento da sola una vicenda che mi riguardi, e intanto dalle otto e trenta alle diciassette salgo sugli autobus a multare chi non timbra o non compra il biglietto. Capirai. Qualcosa di narratologia me la ricordo, comunque, dei tempi in cui ancora credevo alla mia natura bifronte. Agnizione, riconoscimento e quant’altro.
Peccato che non mi piaccia seguire gli schemi, perciò ve lo dirò fin da ora e senza giri di parole: mio marito è morto. Va bene? Di cancro, il mese scorso.
Forse non è da qui che bisognerebbe cominciare una storia, ma non ne ho mai scritta una prima di adesso e non mi interessa sprecare troppo tempo a impacchettare tutto per bene. Spesso dicono che basti cominciare dall’inizio e che il resto venga da sé, anche se nemmeno questo mi sembra un buon consiglio. Definire un punto di inizio può rivelarsi un rompicapo: esiste davvero un evento prima del quale non è successo niente di rilevante per i fatti di cui si vuole parlare? Non potrò rispondere per chiunque, però per quanto mi riguarda un attacco vero e proprio per la mia storia non c’è. Garantito. Il principio e la conclusione di quello che sto scrivendo hanno in comune lo stesso evento: la morte di Charlie.
Se il discorso vi suona ingarbugliato è perché lo è. Tanto vale cominciare dalla fine e mandare al diavolo chi pensa che non si tratti di un modo ortodosso di raccontare, no? Ho conosciuto certe donne, soprattutto anziane, capaci di ipnotizzarmi con la loro voce, anche se le cose che dicevano non seguivano un ordine cronologico, e dei bambini che mi facevano pendere dalle loro labbra senza sapere cosa fossero fabula e intreccio. Perciò, ecco fatto. Vi risparmio i dettagli e vengo direttamente al sodo: la mia storia inizia con la morte di Charlie e si conclude con la morte di Charlie.
Mi sono prestata a questo esperimento per disperazione. Chiarisco meglio: per denaro. La mia autrice mi paga cinquanta euro a cartella per lasciare che accada qualcosa, una qualsiasi, qui dentro. Non ha ancora concorrenti sul mercato, quindi ho potuto tirare un po’ sul prezzo. Si tratta di una bella forma di entertainment, no? Una tizia di inchiostro che si scrive un monologo da sola. Divertente e innocuo.
Se non fosse per il fatto che poi ci ho riflettuto e mi sono chiesta: mi crederanno? Voglio dire, il meccanismo empatico, e chi più ne ha più ne metta, quella roba lì, funzionerà? La virgola fra il soggetto e il verbo l’ho messa apposta, badate. Sarò pur libera di infilare una frase enfatica qua e là, no? Non per niente questa è la mia storia, la storia che tiro io fuori dal bianco.
Per tornare a noi, ho iniziato a dubitare della bontà dell’esperimento quando mi sono resa conto che così sarebbe crollato un presupposto cruciale della fiction, ovvero la necessità di entrare nella testa della protagonista grazie a una qualunque voce narrante. Niente voce narrante, niente testa della protagonista. Perché io non sono una voce vera e propria, sono il corpo di carta di una controllora a tempo pieno.
Allora ho realizzato che avrei potuto fallire, o meglio, perdere la mia occasione. Eppure, ha mormorato una vocina dentro di me, a qualcosa potrai pur appigliarti per parlare della testa della protagonista. Non ai suoi gomiti, magari, non ai peli. Ma a qualcosa da cui prendere spunto sì, porca miseria. E così ho deciso che avrei parlato di Charlie, tanto per iniziare. E poi del modo che aveva di tenermi per mano, se uscivamo insieme. Come se volesse assicurarsi che tra le sue dita c’erano dei fiori.
Charlie, dopotutto, è il tipo di personaggio che in una storia servirebbe a farvi entrare in sintonia con me. A farvi credere che io sia reale perché dimostro di avere un certo spessore umano. A convincervi che stia dicendo la verità perché mi descrivo capace di amare e di soffrire. Chi ha alle spalle un grande amore, un grande lutto o entrambe le cose è raro che poi non stia dalla parte di chi legge. Non serve neanche che ve lo spieghi, dico bene? Vi basterà pensare ai vostri personaggi preferiti e capirete che ho ragione.
A quel punto, una volta guadagnata la vostra fiducia, sarei passata al livello successivo. Ed eccomi qui.
Non c’è una voce narrante e non c’è nemmeno più un marito. Però per andare avanti serve una presenza, anziché un elenco telefonico delle assenze – allora entra in scena la mia autrice. Intendo un mio discorso sull’autrice, non l’autrice vera e propria. Schiacciata dalla bidimensionalità della sua idea non farebbe un figurone, ve lo posso assicurare. Alla peggio sembrerebbe un triangolo scaleno con gli angoli pasticciati. No, ho intenzione di raccontarvi io di lei, esattamente come avrebbe fatto lei con me a parti invertite – o quasi.
Per la verità non mi interessa darle un profilo interessante. Mi sembra già abbastanza includerla nella vicenda, dato che il suo compito di committente era autoconclusivo. Lei non ha intenzione di parlare di me, io invece lancio un appello a chi ha a cuore la sua esistenza: datele una mano. Cercate di capire cosa le sia preso. Nessuna scrittrice – donna, fra l’altro – sceglierebbe nel XXI secolo di lasciare la parola a un surrogato della sua fantasia. Non parlo di intelligenze artificiali o di altri esseri umani, parlo di una controllora vedova che fuori dai margini di un foglio non metterà mai piede. Credo sia chiara la gravità della situazione, se ci pensate.
Avrebbe potuto pubblicare un libro, lei. Vincere dei premi, rilasciare interviste. E poi tenere dei corsi, investire il suo tempo per impaginare meglio il suo curriculum e imparare a memoria le sue citazioni preferite. Invece niente, paga me per smettere di osservare la vita con il microscopio. Per darne prova a gente che magari a lei non crederà nemmeno. Non sta a me diagnosticarle un problema, però mi sembra evidente che non si possa discutere di altro, se non della sua sanità mentale.
Pertanto, se l’esperimento arriverà anche in mano vostra, fate qualcosa. Io il mio lavoro l’ho fatto, intascherò i soldi e potrò pagare con più facilità una rata del mutuo, dopo che il funerale di Charlie ha prosciugato i miei risparmi. Smetterò di esistere fra poco, dunque non è neanche così grave che arrivi con le tasche vuote alla fine del mese. È a lei che toccherà andare avanti, tenersi in forma. Ho l’impressione che stia passando un brutto momento, e mi dispiace. Mi dispiace sul serio, guai a voi se lo mettete in dubbio. Mi dispiace al punto che scriverò sempre io l’epilogo di questo racconto, anche se non sarei tenuta a chiudere il cerchio e a rendere più gradevole la vostra esperienza di lettura.
Fissò la pagina come se l’avesse riempita un’altra. Provò a trovare il bandolo della matassa, ma l’uno e l’altra le sfuggivano di mano. In effetti era giusto così, o meglio, era inevitabile. Si era sforzata di rinunciare alle precostruzioni e adesso ne raccoglieva i frutti: quattro cartelle senza capo né coda, in cui semplicemente gli eventi si sparpagliavano sulla carta come delle biglie. Non c’era un filo conduttore e neppure una ragione in grado di spiegare quanto era emerso.
Si disse che allora l’esperimento aveva funzionato, che doveva essere quella la prova del nove. La lavagna le parve sorridere, il gessetto fischiò per terra. Sul teatro delle marionette si srotolò un piccolo sipario di stoffa.
Stava per posare la penna quando un pensiero le fece tremare la mano. Non seppe se appuntarselo oppure ignorarlo. Alzò gli occhi e se li guardò attraverso lo specchio che aveva di fronte. Non era sola a casa, e pregò che nell’altra stanza non la sentissero: per evitare di lasciarne traccia lo disse soltanto, quel pensiero, a bassa voce.
– E adesso?
Eva Luna Mascolino:
Traduttrice di formazione, Eva Luna Mascolino (Catania, 26 anni) ha vinto il Campiello Giovani 2015 con “Je suis Charlie” (edito da Divergenze), tiene corsi di scrittura, lingue e traduzione, e collabora con concorsi, festival e riviste. Ha frequentato il master in editoria di Fondazione Mondadori, AIE e La Statale, e ora scrive su ilLibraio.it. Nella litweb ha pubblicato oltre 50 storie brevi.
Victor Cavazzoni è un illustratore di Mantova.
Il suo lavoro è caratterizzato da uno stile grafico essenziale che dà risalto a intrecci di forme che si fondono per dare alle immagini più livelli di lettura. Definisce le sue illustrazioni come giochi di parole senza parole.
I suoi lavori compaiono su pubblicità, magazine, libri e quotidiani.
Riguardo le illustrazioni per il racconto:
“Per le illustrazioni di questo racconto mi sono concentrato sui rapporti tra i personaggi, quindi tra autrice, protagonista e marito di quest’ultima, individuando nelle mani (che creano, scrivono, si intrecciano) il simbolo di un legame tra gli individui, siano essi reali o fittizi, vivi o morti.”
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