Rivista Eterna, sorellina di Yanez e spin off del progetto berlinese Le Balene Possono Volare, è una rivista letteraria che, lentamente ma implacabilmente, andrà a consumarsi fino a morire. Chi l’ha creata ha deciso di condannarla a morte: nascerà, crescerà, invecchierà e giungerà al suo termine. In soli tre numeri, distribuiti in tre anni.
La prima call della rivista è dedicata alla morte.
Sul primo numero di Eterna, che sarà pubblicato in cartaceo nell’autunno del 2021, usciranno sette racconti, scelti fra 149 elaborati ricevuti nell’arco di tre mesi.
Alcuni dei racconti arrivati a Eterna, nonostante siano piaciuti molto al Comitato di Valutazione, non sono riusciti a trovare spazio all’interno del primo numero. Quattro di quei racconti – più un extra speciale – saranno pubblicati su Yanez, una volta al mese fino all’uscita del numero 1 in cartaceo.
Ogni racconto sarà illustrato da un collaboratore di Yanez.
Leggi anche gli altri racconti:
Omelia di Elasia Viviano
Il Fiume di Andrea Tani
Un racconto di Silvia Guberti
Illustrato da Giulia Dasiari
La prima volta che vidi Battista fu di notte, con la neve. Non quella che fa pupazzi e slittino. L’altra. La neve cattiva.
Come ogni giorno prima dell’alba, Battista aspettava il treno al Binario 3. Nel frattempo, al Binario 6 passava il treno merci che portava il suo carico di legname chissà dove. Che aspettava il treno ogni giorno, immancabile anche con lo sciopero, lo scoprii più tardi, quando mi convinsi a far parte della motrice dei pendolari e, soccombendo alla mia condizione, smisi di essere invisibile. Parlai allora con la Prima Tromba della banda, che si recava nella Grande Città per suonare, a mattine alterne, sotto casa del Sindaco e, in seguito, con l’appuntato occhialuto deputato alla crescita dei giovani virgulti dell’Arma.
Mi dissero: “Guarda quello lì” ma io, chiaramente, quello lì lo avevo già guardato. Perché anche a non volerlo proprio vedere, anche ad avere tutto il sonno del mondo, anche a voler chiudere gli occhi e andare alla cieca, Battista proprio non potevi non guardarlo.
Portava ogni giorno un paio di jeans dalla piega cementata, risvoltati due volte, e ai piedi mocassini di pelle dai quali occhieggiavano calzini azzurri. Sotto il Barbour verde petrolio, troppo largo e risvoltato anch’esso sulle maniche, non è dato sapere cosa indossasse. Le inferenze furono sempre molteplici, ma nessuno riuscì mai a vedere sotto quel trench. Ci fu quella volta in cui il carabiniere, in piena estate, si mise d’accordo con il capotreno per alzare al massimo il riscaldamento della carrozza – con somme proteste della clientela viaggiante – ma nulla. Battista rimase lì, stoico, con il mento intabarrato nel colletto di velluto a coste. Oppure quella volta in cui la Prima Tromba, accidentalmente, lo urtò rovesciandogli addosso il caffè, sottovalutando però l’imperturbabilità del tessuto cerato. Niente. Forse sotto il trench Battista era nudo? Nascondeva un terribile segreto? Un oggetto contundente, un’arma da fuoco? Era forse di Equitalia?
Battista sotto il berretto di lana – quello sì lo toglieva con la bella stagione – portava una pelata di una certa rugosa bellezza e un piccolo brillante all’orecchio. Da che ho memoria, le uniche variazioni nel suo abbigliamento furono: cappello sì, cappello no, ombrello sì, ombrello no. Se qualcuno avesse avuto dubbi sull’esistenza di una sua vita sociale, avrebbe dovuto trovarsi lì quella mattina in cui – lo giuro! – lo vidi parlare con una giovane riccioluta che lo chiamò papà, fuggendo poi rapidamente dall’altro lato della banchina.
Per il resto non lo vidi mai parlare con anima viva anche se, a suo modo, interagiva con qualcuno degli habitué. C’era il sorriso alla rossa botulinica, il cenno del capo al vecchio con l’enfisema e la sigaretta in bocca e poi c’era il duello giornaliero con l’uomo della coppola. Grande canaglia quest’ultimo. Si appostava ogni mattina dietro al cartello con il nome della stazione e sbucava all’ultimo per beffare il nostro ai blocchi di partenza. Perché tra Battista e il Signor Coppola era lotta senza quartiere. Per quanto fiacca fossi la mattina, mi affrettavo per arrivare al binario quel tanto in anticipo per gustare la lotta ferina tra i due.
Da un lato Battista allungava il collo da tartaruga per spiare, oltre la curva, l’arrivo alla chetichella del Regionale Veloce. Dall’altro il Signor Coppola, dal suo rifugio, scaldava le gambe per lo scatto finale. Allo sbucare del locomotore, tra imprecazioni e gomitate, si svolgeva il finale al cardiopalma: chi l’avrebbe sfangata? A chi sarebbe toccato l’onore di varcare per primo la porta della vittoria, ossia quella del primo scompartimento? Tra la casistica più interessante, gli annali annoverano il giorno in cui la porta del primo scompartimento fece cilecca, lasciando attoniti gli astanti e producendo un tafferuglio silenzioso per l’arrivo, in emergenza, alla seconda carrozza. E la volta in cui il macchinista, avvezzo alla competizione, si divertì a spaesare i partecipanti con un paio di finte frenate, così che i due atleti fecero ping-pong prima di riuscire a interpretare il giusto punto di fermata del convoglio. Finì patta, con un ingresso di taglio dei due tra le porte che ancora si aprivano. Fu l’unica volta. La chiamammo la Grande Gara.
Ricorreva il settimo anniversario della Grande Gara, quando decisi che era doveroso portare qualche birra per festeggiare. Fu quindi con una certa impazienza che, sgambettando, salii i gradini per arrivare al consueto binario. I miei compari, anche loro in anticipo, erano già lì ad attendermi. Ci guardammo ammiccanti, soddisfatti di esserci capiti senza bisogno di parlare.
Il primo contendente ad arrivare fu il Signor Coppola, leggero sulle sue gambette magre e lunghe come quelle di uno zanzarone. Persino il Generalissimo, che non aveva mai fatto un passo fuori dal suo cerchio perfetto, si scansò per farlo passare. Arrivò quindi zoppicando l’enfisematico, che per la fretta aveva omesso di accendere l’immancabile sigaretta mattutina. Quando mancavano ormai solo quindici minuti all’arrivo del treno, cominciammo a guardarci titubanti. Forse Battista voleva mostrare a tutti noi che lui, e solo lui, era la vera star? A dieci minuti dall’arrivo del Regionale Veloce, quasi annaspavamo per la preoccupazione. Che volesse darci questo smacco? Rovinarci l’emozione della celebrazione? In fondo, cominciavamo a dire tra noi, negli ultimi tempi ci era sembrato più intabarrato, ancora più schivo.
Eravamo impegnati in queste elucubrazioni quando il treno del Binario 6, in arrivo in stazione col suo carico di legnami, emise un urlo terribile. Uno schiocco, uno schianto e alle urla del convoglio, allo stridere del metallo contro il metallo, il capostazione comparve dal WC in preda al panico. Con precisione dolosa, al Binario 3 arrivò anche il nostro treno. A dispetto di ogni umana curiosità, la mandria pendolante si ammassò, come ogni giorno, alle porte del convoglio, intontita dall’imponderabile e tanto agognata puntualità del Regionale Veloce.
Io e i miei compari ci scambiammo occhiate in un triangolo strabico di sguardi. Guardammo il Signor Coppola che non faceva cenno di partire e, a spintoni e gomitate, facemmo quanto andava fatto: ci dirigemmo il più in fretta possibile al Binario 6.
Quando arrivammo al sottopassaggio, dopo aver guadato la calca che cercava di guadagnare un posto in prima fila in vista del rush finale per la discesa, tutto si era ormai compiuto. Il capostazione urlava al telefono con una voce da soprano, mentre il capotreno si dondolava accoccolato in un angolo, ripetendo parole confuse in un idioma che supponevo fosse dialetto locale.
Arrivò la Polfer in uno sbattere di tacchetti di scarpe eleganti, i Vigili del Supremo Ordine, dagli anfibi blu cobalto. No, no, pensai, non blu cobalto, blu oltremare. Arrivò un paio di quelle scarpe con il tacco alto e i brillantini, che sembravano da ballo. Arrivarono quindi scarpe da ginnastica di tela, di plastica, trampoli da circo, sandali tedeschi con calzino e senza calzino. Un paio di scarpe di pelle martellata a mano, di meravigliosa fattura. Rimostranze. Vidi quindi gli stivali dei pompieri. Tanti pompieri. Accanto a me le scarpe della Tromba e dell’appuntato, ancora lì fermo.
Il sottopassaggio si svuotò. Fu quando nessuna scarpa invase più il mio campo visivo che ebbi il coraggio di alzare gli occhi e fare qualche passo piuttosto incerto per risalire i gradini che portavano al Binario 6.
I Vigili del Supremo Ordine, stavano facendo spazio come meglio potevano attorno alla motrice.
Approfittando della mia insignificante statura e del mio mimetismo congenito, mi avvicinai abbandonando i miei amici, che loro no, non avevano la stoffa del topo di fogna. Troppo bandistico uno, abituato ai caroselli, altrettanto autoritario l’altro. Ma io no, non avevo velleità, Ero talmente né arte né parte che anche i vicini, probabilmente, pensavano che il mio appartamento fosse vuoto.
Sgattaiolata tra le gambe delle Autorità, mi ritrovai al cospetto del Dottore. Lo riconobbi dalla valigetta bombata. Borbottava, più contrariato che colpito, con il capostazione: “No, io lassù non ci vado, non è il mio lavoro! Le sembro forse un funambolo? Un elettricista? Un circense?” E indicando i pompieri: “Che vadano loro! Che lo tirino giù loro! Che poi il mio io lo faccio!”. I Pompieri intanto discutevano fra loro con fare cospiratorio. Colsi “Sì, sì, vado io”, “Motosega”, “Guanti, almeno”. Poi uno di loro risalì verso la testa del convoglio e scese sui binari, piazzandosi, mani sui fianchi, a osservare il penoso spettacolo. “Scala!” disse solo.
Seguii quello che doveva essere il Comandante e mi ritrovai al cospetto di Battista. Perché quello non poteva essere che Battista, il Barbour verde petrolio non lasciava spazio a interpretazioni. Solo che Battista sembrava uno di quegli affreschi da staccare con la tecnica dello strappo. Uno dei ganci del vagone di testa aveva bucato la sua persona all’altezza del bacino e Battista era rimasto lì, incapace dello strappo finale, col suo sangue schizzato ovunque, in una commistione di tecniche pittoriche.
Mi sedetti su una panchina. Alzarono un muro di teli. Quando il più fu fatto, il Dottore, senza alcuna pietà, dichiarò la morte. Non potevo vederlo, certo, ma coglievo le voci e i movimenti dietro ai teli, come in quel gioco di ombre cinesi che facevo da bambina. Mi avvicinai al pompiere che aveva tagliato Battista. Sobbalzò. Ero riuscita a non farmi notare nemmeno da lui. Ebbi appena la forza di chiedere:
“Cosa c’era sotto il Barbour?”
Silvia Guberti:
Silvia Guberti (1982) ha vissuto almeno sette vite, ognuna delle quali è stata un continuo sforzo per sfuggire alla banalità dell’esistenza. Ex ufficiale di artiglieria, editor, paroliere, compra gli stessi libri due o tre volte per dimenticanza. Dal 2017 dirige Il Loggione Letterario.
Giulia Dasiari è un’illustratrice e graphic designer milanese. Laureata in Architettura ha poi approfondito la sua formazione con il Mimaster di illustrazione.
Il suo linguaggio, fatto di linee colori e texture, è deciso e vibrante.
Quando non progetta le piace leggere fumetti al parco, sulla sua amaca, e girovagare per Milano, alla ricerca di scorci nuovi e inaspettati.
Riguardo le illustrazioni per il racconto:
“Ciò che da sempre mi colpisce sono i dettagli, in particolar modo per la loro capacità di raccontare.
Questo si riflette nel mio lavoro, infatti mi soffermo spesso su quei particolari che, da soli, rivelano tutto un mondo.
Leggendo il racconto ho avuto la sensazione di essere dentro la storia, di poter osservare ogni scena da vicino nel momento esatto in cui stava accadendo, per questo motivo ho scelto di realizzare delle immagini in presa diretta, fotogrammi in grado di trasmettere l’atmosfera del racconto e le peculiarità del personaggio di Battista.”
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Wale Café
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