L’illustrazione di copertina è di Marco Amerigo Latagliata
La composizione del pezzo è a cura di Mauro Mondello
Per compilare la lista dei migliori film italiani di sempre abbiamo chiesto a tutti i membri della redazione di inviarci una selezione dei sei film italiani secondo loro più belli e importanti, senza limiti di genere o tempo. Per provare a rendere la rilevazione ancora più oggettiva, abbiamo ampliato il parterre di contributi, aggiungendo al conto numerose altre liste inviate da esperti esterni, scelti in un intervallo vario e trasversale di età, occupazione, residenze e interessi.
La scelta definitiva è stata così realizzata:
1) I trentatré film che hanno effettivamente accumulato più voti;
2) Sette film che sono stati votati, non ce l’hanno fatta ad entrare fra i primi, ma che la giuria di qualità ha ripescato perché considerati meritevoli;
3) Sette film che non ha nominato nessuno e che sono stati scelti dall’eccezionale giuria di qualità, di cui non possiamo rivelare i nomi per questioni di privacy e prestigio (fra i componenti e le componenti vi sono grandi nomi della critica cinematografica mondiale, che non possono, per contratto, comparire su Yanez).
Le liste non accontentano mai nessuno, e sono difficili da stilare: noi ci abbiamo provato.
Si tratta di un divertissement, e come tale va preso.
Quando si scrive de “i migliori film italiani di sempre” si ragiona, evidentemente, per etichette che avranno sempre un enorme margine di parzialità. Sono rimasti fuori, e li cito in ordine sparso e incompleto, pellicole come Giulietta degli spiriti, Deserto rosso, La grande abbuffata, Gomorra, Il caso Mattei, Paisà, giusto per citarne alcuni, e a tanti parrà una bestemmia aver escluso questi, e averne inseriti altri, di certo più discutibili. Abbiamo deciso di includere nella lista alcuni titoli magari meno di culto, ma che si sono ritagliati uno spazio importante, o per il tema trattato, o per il successo inatteso raggiunto.
Avvertenze: gli scritti che accompagnano i film nominati sono di vario stile e forma, non seguono la regola statica della recensione e si propongono, piuttosto, come dei commenti aperti, dei racconti, dei ricordi, delle cronache di visione.
Qui la lista dei 33 migliori film degli anni Sessanta
Qui la lista dei 33 migliori film degli Settanta
Qui la lista dei 30 migliori film degli anni Ottanta
Qui la lista dei 30 migliori film degli anni Novanta
Qui la lista dei 30 migliori film degli anni Duemila
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47. La casa dalle finestre che ridono (Pupi Avati, 1976)
Parlare del filone horror nella cinematografia italiana fa un effetto strano: non si può dire che il nostro paese abbia una solida tradizione in questo specifico genere. Certo, potremmo citare Dario Argento, ma siamo sicuri di voler bollare le sue pellicole, limitandole, come semplice horror? Dentro ci troviamo elementi del fantastico, del grottesco e perfino del drammatico.
Sono film composti, così come lo sono quelli girati da Pupi Avati nei prima anni della sua carriera registica: particolarissimi, disturbanti, lontani da stereotipi di genere che ormai ammorbano i film “di paura” che arrivano sul mercato.
Nel caso di Avati parliamo addirittura del creatore di un filone specifico, l’ ”horror padano”, perché l’unico elemento che accomuna le storie narrate è proprio l’ambientazione apparentemente tranquilla, ma nascostamente inquietante, della pianura del Po.
In “La casa dalle finestre che ridono” niente è come sembra e fin dalle prime scene si è pervasi da una sensazione di inganno perenne, di cui farà le spese il giovane restauratore Stefano: un misterioso affresco dalla storia dimenticata, un casolare isolato con delle inquietanti bocche disegnate al posto delle finestre e i subdoli abitanti del paese.
“La casa dalle finestre che ridono” è un film per pochi: non perché sia di élite, ma perché rimasto nascosto tra le grandi produzione ed è pure di difficile reperibilità.
Riscopriamolo.
Lando Cecchini
46. Lo chiamavano Jeeg Robot (Gabriele Mainetti, 2015)
Chiariamolo subito, questo non è un capolavoro da Oscar, ma un ottimo film di genere, forse uno dei primi esempi, e meglio riusciti, di cinema fantasy all’italiana, un film d’azione che si iscrive formalmente nel novero dei film sui supereroi che hanno fatto la fortuna di Hollywood, ma declinandone le strutture base su un canovaccio inedito, nostrano, indie. Non ci troviamo infatti sugli scenari mozzafiato e colossali dei film Marvel, ma nella periferia romana di Tor Bella Monaca, volutamente squallida e stantia, come l’appartamento popolare in cui vive il nostro eroe, Enzo Ceccotti (interpretato da un credibilissimo Claudio Santamaria). Enzo, in realtà, non ha esattamente il profilo dell’eroe, tutt’altro. Enzo è un essere squallido, un ladruncolo, uno che odia la gente, è il prodotto avariato di quella stessa periferia. Enzo vivacchia alla giornata, trascinandosi stancamente tra furtarelli, la sua collezione di Dvd porno ed una scorta infinita di budini alla vaniglia. Ed è proprio durante uno di questi “lavoretti” che si tuffa nel Tevere per sfuggire alla cattura e finisce inavvertitamente in un barile di materiale radiattivo abbandonato nel fondale. Quella che può sembrare la fine di Enzo, sancisce una svolta inaspettata: l’indomani infatti si risveglia rendendosi conto di essere dotato di una forza e di una resistenza sovrumana. Enzo non teme più i proiettili, non può essere catturato, non sente più il dolore, è in grado di sradicare un bancomat con la sola forza delle sue braccia, finalmente ha la possibilità di fare i soldi veri. La sua squallida esistenza da delinquentello sembra finalmente alle spalle, fin quando (non) entra nella sua vita la giovane Alessia, affetta da disturbi mentali causati dagli abusi subiti e dalla scomparsa della madre, ossessionata dal cartone animato di Jeeg Robot, tanto da crederlo reale. La ragazza si aggrappa ad Enzo, convinta di aver trovato il “suo” Hiroshi, l’eroe in grado di combattere contro la regina cattiva Himika ed il suo esercito dei guerrieri delle tenebre. Sarà proprio il tenero legame instauratosi con la “matta scocciata” Alessia a far “maturare” in Enzo (come da tratto distintivo di questo genere, letterario prima e cinematografico poi) la consapevolezza della responsabilità derivante dai suoi poteri. Il nostro Enzo affronterà in uno scontro all’ultimo sangue il cattivo di turno, l’eccentrico e violento Zingaro (carismatica e surreale interpretazione di Luca Marinelli), per ergersi infine a paladino difensore di quella “gente” che lui tanto odiava. Questo esordio alla regia di Gabriele Mainetti colpisce lo spettatore nella forma. Si tratta di un film particolare, coraggioso, raro, credibile dall’inizio alla fine. Un film d’intrattenimento solido, con una sceneggiatura originale, una fotografia cupa e d’impatto, interpretazioni di livello sia da parte dei protagonisti che dei personaggi di contorno.
Un film diverso.
Pier Attilio De Luca
45. Il portiere di notte (Liliana Cavani, 1974)
Tragico, divisivo, pesante, cattivo. Un film che ha tagliato in due la critica come poche volte accaduto nella storia del cinema. C’è chi ha parlato di soap opera e chi di capolavoro, per questa storia di sadomasochismo con vista sull’Olocausto della Seconda Guerra Mondiale. Il rapporto malato fra oppressa e oppressore; gli occhi tragici ed erotici di una straordinaria Charlotte Rampling; la freddezza misurata di Dirk Bogarde; soprattutto il coraggio di misurarsi con una serie triplice di tabù, e di attaccarli senza paura. Non si guarda con leggerezza, Il Portiere di notte, e non è per tutti. Eppure, che lo si consideri una porcheria oppure un’opera maestra, rimane un pezzo unico della cultura cinematografica italiana.
Mariasole Mitterand
44. Todo Modo (Elio Petri, 1976)
Uno dei film più “strani” del cinema italiano, una grottesca galleria di personaggi che si muove fra filosofia e misticismo, alla ricerca di una direzione impossibile da trovare. Nell’epoca d’oro del cinema politico, di cui Petri è stato il riferimento assoluto, Todo Modo rappresentò la pellicola senza ritorno, il lavoro doloroso e apocalittico attraverso cui descrivere la distanza fra il partito di riferimento della Democrazia Cristiana e la sua sterminata mole di elettori. Non ci sono compromessi di alcun genere in questo film che disturba e intrattiene, colpisce e addormenta, in una vorticosa riflessione che si distende in dialoghi e descrizioni trainate da un cast traboccante di facce indimenticabili e in cui spiccano i protagonisti Mastroianni, Volonté, Ingrassia e Melato.
Mona Merinos
43. La scuola (Daniele Luchetti, 1995)
C’è una scuola di una periferia (forse) romana, ma che potrebbe essere in una qualsiasi città italiana. C’è l’ultimo giorno di scuola, con le interrogazioni finali, il caldo infame, i professori esauriti e uno scrutinio incombente. Ci sono le piccole storie umane che fanno dei licei italiani dei piccoli zoo, o per meglio dire bestiari, unici al mondo.
Lo stralunato Professor Vivaldi, un pesce for d’acqua (per rimanere in tema animalesco), si muove agitato in una marea di situazioni assurde e complicate, gestendo con umanità la gravidanza di una studentessa, la crisi familiare di una collega, la senilità della futura pensionata Professoressa Serino. Vivaldi è IL Professore che tutti avremmo voluto avere ma che non ci siamo meritati: eravamo troppo impegnati a cazzeggiare per renderci conto dell’impegno e di quel pizzico di sano idealismo che alcuni docenti indossano prima di entrare in aula. Dei supereroi popolari, con il registro in una mano e la penna rossa (da usare solo in situazioni estreme) nell’altra.
Col passare degli anni alcuni di noi sono poi passato dall’altra parte della barricata: sono diventati a loro volta professori e hanno finalmente capito la differenza tra uno studente bravo e un “primo della classe” come Astariti e che il potenziale educativo della scuola andrebbe espresso più con gli “ultimi”, con i Cardini che fanno versi animaleschi e sono più assenti che presenti, che non con i “primi”. Il rischio è di diventare dei bocciatori seriali, come il simpatico Mortillaro o, peggio, degli insensibili come l’inflessibile Prof. Sperone.
“La scuola” è una piccola perla cinematografica che merita di stare in ogni classifica della nostra cinematografia: perché è un bel film, perché ci fa ridere e intristire, perché racconta il mondo scolastico meglio di tanti altri film più famosi e pretenziosi.
Francesco Somigli
42. La Notte (Michelangelo Antonioni, 1961)
La ricerca infinita della profondità poetica a partire dalla narrazione delle storie. L’aria irrimediabilmente malinconica di ogni protagonista, e in questo caso con il potente ausilio di quattro fra gli occhi più struggenti del cinema di tutti i tempi: quelli di Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau. Il bianco e nero elegantissimo di Gianni Di Venanzo fotografa le geometrie esistenzialiste che si contorcono con il passare delle ore filmiche, in attesa che Monica Vitti ci rida addosso raccontandoci, un’altra volta, il significato della nostra inadeguatezza. Antonioni è il maestro degli attacchi, dei finali, del cinema patinato, ma che ragiona e infligge sensazioni. Non gli puoi togliere gli occhi di dosso, nemmeno per un singolo momento, a questo piccolo pezzo di bizzarra intimità.
Moharo Mazara
41. Suspiria (Dario Argento, 1977)
Il film inizia con la protagonista, l’americana Jessica Harper, che arriva all’aeroporto di Monaco di Baviera e nel rosso tenue e teso di una luce morbidamente infingarda si mette a cercare con disperazione, fra la pioggia scrosciante, un taxi. Non è certo una scena cruciale per lo sviluppo narrativo della storia, ma racconta bene il clima di tensione che Dario Argento è capace di infondere in ogni piccolo pezzo del suo cinema, attraverso allucinazioni visive costruite con angolazioni di camera inattese, musiche irritualmente preoccupate ed i colori, poderosi e oscuri, che si allacciano fra essi come corde di un cesto. Ti trafiggono gli occhi, gli odori, i piccoli momenti. La macchina corre in mezzo alla foresta e intravediamo una ragazza in fuga, ma solo per un istante. Succede sempre, succederà ancora: un particolare che ci attacca in fretta e poi si disperde. E, per favore, lasciamo stare quella cosa inutile girata nel 2018. Grazie.
Maschiuro Mefuterelli
40. Non essere cattivo (Claudio Caligari, 2015)
Prima di vedere Non essere cattivo non pensavo che avrei pianto. Forse perché mi aspettavo un dramma dai tratti comici, spesso grotteschi, com’era stato con il primo film della trilogia di Claudio Caligari, Amore tossico. Ogni volta che lo vedo sono sicura che non piangerò di nuovo, dato che ormai so qual è la storia e non mi sorprenderà. Invece il colpo ha sempre la stessa forza. Caligari lo ha fatto apposta. In una delle sue interviste durante le riprese ha dichiarato apertamente di voler fare un film che emozionasse tutti. La prima scena è girata a piazza Ravennati, a Ostia, come nel lungometraggio del 1983 e anche la prima battuta che Cesare (Luca Marinelli) dice a Vittorio (Alessandro Borghi) è una citazione: “Io sto incazzato fracico e te te stai a magnà er gelato”. Nel film cult, Enzetto (Enzo di Benedetto) diceva: “Dovemo svortà e te piji er gelato?”. Sono passati trent’anni prima che il cerchio si chiudesse e a metà di questo percorso c’è la seconda opera, L’odore della notte, poliziesco ambientato negli anni ’70. “Oggi il film d’autore fatica molto per l’allineamento imperante. È il motivo per cui cercano di metterti da parte se vuoi fare questo tipo di cinema – ha detto al Fatto quotidiano nell’aprile del 2015, un mese prima di morire di tumore – Per trent’anni mi è stato impedito di girare, nel silenzio generale. Una cosa incredibile”. Trovare i soldi per il progetto non è stato facile. Valerio Mastandrea, produttore del film, ha chiamato in causa persino Martin Scorsese, al quale ha scritto una lettera aperta pubblicata dal Messaggero chiamandolo Martino (come faceva Caligari quando ne parlava) e invitandolo a produrre il film, dal momento che nessun altro voleva farlo. Scorsese non ha risposto, ma qualcosa in Italia si è mosso e i soldi sono arrivati. Insomma, abbiamo rischiato di perdere un capolavoro.
Domenica Morabito
39. Non ci resta che piangere (Massimo Troisi, 1984)
Il 1984 è l’anno di Terminator, dei Ghostbusters, di C’era una volta in America, di Beverly Hills Cop, di Indiana Jones e il tempio maledetto, de La storia infinita, dei Gremlins e de I due Carabinieri. Tutti film destinati a diventare, per diversissime ragioni, dei classici contemporanei. Ma fu Non ci resta che piangere a sbancare il botteghino, a sovvertire ogni pronostico e rivoluzionare, oltre che la classifica degli incassi, l’idea profonda di comicità in Italia. La poesia stralunata di Massimo Troisi e l’esuberanza anarchica di Roberto Benigni entrano in contatto costruendo un linguaggio nuovo, nel quale è proprio il contrasto fra due maniere differenti di espressione verbale, fisica e culturale ad alimentare la sorpresa di un lavoro che a quasi 40 anni dalla sua uscita in sala è ancora forte e luminoso. Senza contare le innumerevoli scene di culto ancora presentissime, insieme a un ampio numero di espressioni (“ricordati che devi morire!”) rimaste fissate nella cultura del nostro tempo.
Mossetto Madregerla
38. Brutti, sporchi e cattivi (Ettore Scola, 1976)
Vinse il premio per la miglior regia al festival di Cannes, ma i giornali italiani lo distrussero. Inadeguato, dicevano, a descrivere le complessità del sottoproletariato italiano, ritratto in maniera sconcertantemente grottesca secondo la critica dell’epoca. Solo Alberto Moravia lo salvò, dalle colonne de L’Espresso, percependo l’eccezionalità poetica del pasolinismo esasperato nel quale Scola decise di radicare il film. Non c’è speranza nel racconto popolare di una famiglia che vive ai margini di una Roma marcia e puzzolente. Tutto è scorretto, sbagliato, schifoso, e il mito romantico dei poveri ma belli viene annichilito da una rappresentazione che diverte e disturba, dominata dalla performance titanica dell’attore più sottovalutato della storia cinematografica italiana: un maestoso Nino Manfredi.
Mescolata Minimominininoni
37. La vita è bella (Roberto Benigni, 1997)
Questo è uno di quei film che non ha bisogno di presentazioni. Basta nominare il titolo che subito ci si illumina con un Buongiorno principessa! mentre in testa si accende la melodia principale della colonna sonora di Nicola Piovani, degnissima dell’Oscar. E di Oscar il film di Benigni se n’è portato a casa ben tre, mentre i premi complessivi superano addirittura la ventina. Un capolavoro dunque. Sì, ma non per tutti.
Tante le critiche e da diversi fronti, molti illustrissimi. Una voce su tutte: quella di Liliana Segre, che ha messo in luce la mancanza di accuratezza storica. Non lo definisce un brutto film, anzi, ma irrealistico.
Per anni mi sono chiesta da che parte stare, se con i difensori o con i detrattori. E non mi sono mai decisa. Di certo posso dire che concordo con Segre: la storia è bella, dolce, addirittura furbetta, se vogliamo, in grado di ammaliare il pubblico con un equilibrio perfetto di lacrime e risate. Ma non è realistica. Non è la Storia.
Questo però il film lo dice. Fin dall’inizio Giosuè adulto ci avverte:
Questa è una storia semplice, eppure non è facile raccontarla, come in una favola c’è dolore, e come una favola, è piena di meraviglia e di felicità.
È una favola – o per essere più precisi forse dovemmo dire fiaba – quella che ci racconta Benigni. E chiediamo mai a un libro di fiabe di essere un manuale di storia?
Ora, quanto sia lecito e moralmente accettabile ridurre a favola un evento tanto orribile come la Shoah, ecco, non sono in grado di stabilirlo. Però leggere il film con questa chiave di lettura permette di far emerge almeno due grossi punti di forza.
Il primo è che se ci si mette all’altezza dello sguardo dei bambini e si guarda di sotto in su alla serissima, rigorosissima e complessissima macchina dell’orrore concepita dagli adulti, questa ne esce assurda, ridicola e insensata. Le scene in cui Guido si trova a spiegare ai bambini o a suo figlio le reggi razziali, i cartelli affissi ai negozi, o l’illogico gioco della guerra sono tragicamente esilaranti.
Il secondo punto è che a leggerlo in quest’ottica il film diventa una metafora, un’allegoria del sacrificio compiuto da un’intera generazione per proteggere il germe di un futuro migliore.
E anche questo, il film ce lo dice. Alla fine, stavolta.
Questa è la mia storia, questo è il sacrificio che mio padre ha fatto, questo è stato il suo regalo per me.
Un regalo che non dovrebbe mai finire nel cesto dei carrarmatini vecchi e ormai dimenticati.
Claudia Valentini
36. I cento passi (di Marco Tullio Giordana, 2000)
I cento passi non è solo un film sulla mafia, ma parla soprattutto di impegno civile e di conflitti familiari. Marco Tullio Giordana racconta la storia di Peppino Impastato (Luigi Lo Cascio), della sua lotta contro i (pre)potenti, della sua vitalità e della sua voglia di urlare. Si grida molto, in questo film. Impastato, attivista anti-mafia e conduttore radiofonico, vuol essere libero di gridare che «la mafia è una montagna di merda», di togliere l’aura di mistero e timore che circonda i boss, ridicolizzandoli. Così nelle sue sferzanti trasmissioni radio, il boss locale Gaetano Badalamenti (riconosciuto anni dopo come mandante del suo omicidio) diventa Tano seduto, viso pallido, esperto di traffico di lupare ed eroina, signore di Mafiopoli (Cinisi, vicino a Palermo). Siccome la critica non è il mio mestiere, lascio la parola a Irene Bignardi, che nei giorni dopo l’uscita recensiva così I cento passi su Repubblica: «Marco Tullio Giordana, in quello che è il suo film migliore, più forte, più diretto, ibrida con successo il cinema di impegno civile con umori più personali e generazionali, intreccia la denuncia e il ritratto toccante e autentico di un angelo ribelle».
Gianluca Cedolin
35. Lazzaro felice (Alice Rohrwacher, 2018)
Intimo e volteriano, intenso e triste, poetico e magico: questo film, migliore sceneggiatura a Cannes nel 2018, parla “di una piccola santità senza miracoli, senza poteri o superpoteri”, come scrive la regista stessa del suo lavoro.
È la storia di una comunità di contadini che per via di un’inondazione rimane isolata dal resto del mondo per anni e, infatti, negli anni Novanta questi fanno i mezzadri, non conoscono i soldi, pensano che la loro vita appartenga alla marchesa di diritto e che loro di diritti non abbiano neanche mezzo.
Quando per una certa casualità lo stato Italiano si accorge della presenza di queste persone – che non hanno carta d’identità, non pagano le tasse e non mandano i figli a scuola, questi vengono immediatamente mandati in caserma per essere registrati e sono quindi immessi in una realtà urbana a loro estranea e per cui non sono preparati, che si rivelerà per loro comunque ostile e triste e dove continueranno a vivere da reietti. Le loro condizioni di vita in città sono persino peggiori di quelle cui erano abituati da mezzadri: sono costretti a rubare, a vivere di truffe e a cibarsi di patatine fritte e merendine.
Lazzaro, il santo laico che Rohrwacher ha voluto raccontare in questa pellicola, muore e risorge e ancora muore sempre per mantenersi fedele alla parola data e alla ricerca di una sorta di giustizia universale: fa molto male vedere questo ragazzotto molto bello, dagli occhi grandi e aperti sul mondo, senza filtri e senza secondi fini proprio com’è lui, venire sfruttato da tutta la comunità con cui vive, che lo crede stupido. Nel suo essere buono e ingenuo però lui, a differenza degli altri, è completamente perfetto, e continua a essere bello, gentile e felice malgrado tutto. La sporcizia degli altri non lo intacca. Lazzaro ha lo spirito di un lupo: è la luce perfetta nella selva oscura, e infatti il film si svolge al ritmo delle fasi lunari dove gli ululati dei lupi sono sempre presenti, in sottofondo.
Virginia Patrone
34. Tutti a casa (Luigi Comencini, 1960)
«Signor colonnello, tenente Innocenzi! Accade una cosa incredibile! I tedeschi si sono alleati con gli americani!»
Poche frasi sono entrate nella storia del cinema quanto quelle pronunciate da Alberto Sordi, alias il tenente Innocenzi, al telefono con il suo colonnello nel tentativo di comprendere uno stravolgimento di alleanze del tutto inimmaginabile.
La sua confusione era la mia confusione di bambina messa per la prima volta davanti alla pellicola; una bambina ancora ignara della Storia, ma cresciuta con numerose storie di famiglia non molto diverse da quelle descritte nel film: un disertore nascosto nel magazzino di una fabbrica nella Torino bombardata, un paracadutista inglese ferito tenuto anche lui nascosto in un fienile di campagna, l’effimera illusione dei miei nonni che con l’armistizio fosse finita la guerra, il cugino prigioniero in Germania, l’altro cugino che in licenza diceva che il loro capitano mandava i soldati in battaglia allo sbaraglio (e infatti lui dalla guerra non sarebbe più tornato).
Ogni famiglia ha molte di queste storie, ed esse tutte insieme hanno fatto la Storia. Il merito più grande di Comencini è forse quello di aver dato voce a questa pluralità, al singolo nel suo confronto e nel rapporto con gli altri singoli. Il film si apre con un mosaico di accenti (romanesco, napoletano, veneto e così via) per culminare in un mosaico ancor più complesso di modelli e valori etici: dalla fuga, legittima o meno, giustificata dalla disperazione o macchiata dalla viltà, fino all’atto supererogatorio del sacrificio di sé. Nel mezzo storie di paura e miseria, di nostalgia e di amore, storie di eroi che spesso lo sono diventati per caso e che, superata una fastidiosa retorica, non si sono mai sentiti tali, ma che, posti nella condizione di scegliere, “semplicemente” – e nulla vi è di più difficile e di meno scontato – hanno scelto di stare della parte dell’umanità sofferente.
Elisa Leonzio
33. Le conseguenze dell’amore (Paolo Sorrentino, 2004)
A passeggio per una via centrale di Milano, una quindicina di anni fa, da solo, tardo pomeriggio.
Passo davanti ad un famoso cinema dal cartellone “impegnato”. In alto la locandina de Le conseguenze dell’amore. Il Sommo me ne aveva parlato in termini entusiastici e quindi entro, con la quasi assoluta certezza di andare incontro ad un pacco di pesantezza rara, proprio perché il Sommo me ne aveva parlato in termini entusiastici.
Ed invece mi sono dovuto ricredere. Credo che mi sia capitato solo un’altra volta di restare così colpito da un film. Circostanze personali di tempo e di luogo perfette rispetto alla storia raccontata.
La storia.
Titta Di Girolamo (interpretato magistralmente da Toni Servillo) è un uomo di mezza età, campano ma residente in Svizzera, da solo. Con il passare del film scopriamo cosà è e cosa è stata la vita del protagonista. Commercialista campano, a causa di investimenti con soldi di Cosa Nostra andati male, è costretto a vivere in esilio a Lugano e riciclare denaro sporco per l’organizzazione criminale. Per affrontare la quotidianità Titta si impone una rigida routine. Una iniezione di eroina ogni mercoledì alle 10 (da vent’anni), una pulizia del sangue annuale. Rapporti umani ridotti a zero, una ex moglie lontana, tre figli che non nutrono il minimo interesse verso il padre. Gli unici scambi sociali, le partite a carte con una coppia di anziani coniugi un tempo ricchi che vivono nel suo stesso hotel (che in passato era di loro proprietà). Ma Sofia, la giovane barista dell’hotel, è pronta a produrre l’effetto di una bomba atomica sulla monotona routine di Titta. Che da subito si rende conto del pericolo, da qui l’appunto ad imperitura memoria: “progetti per il futuro. Non sottovalutare le conseguenze dell’amore”.
Facile a dirsi.
Il film prosegue fino al suo epilogo tra scene bellissime (menzione d’onore alla consegna delle valigie piene di contanti in banca) ed una fine che, probabilmente, è il miglior lieto fine possibile. Grandissima colonna sonora. L’ultima scena è magnifica.
Il corpo di Titta scende per essere inghiottito nel cemento, ma il pensiero vola alto, su un traliccio dell’Enel in Trentino Alto Adige “una cosa sola è certa. Io lo so. Ogni tanto in cima a un palo della luce, in mezzo a una distesa di neve, contro un vento gelido e tagliente. Dino Giuffrè si ferma, la malinconia lo aggredisce e allora si mette a pensare e pensa che io Titta Di Girolamo sono il suo migliore amico”.
Marruca Incassato
32. Le mani sulla città (Gianfranco Rosi, 1963)
Compendio senza tempo di come funziona la gestione della cosa pubblica in Italia, specialmente al Sud e soprattutto in materia di edilizia, è superlativamente angosciante accorgersi di come, ancora oggi, le dinamiche raccontate da questo meraviglioso film siano identiche a quelle di 50 anni fa. Non c’è però, in Le mani sulla città, soltanto la descrizione minuziosa della sporcizia umana del potere, che contraddistingue gli affaristi della costruzione in questo lavoro, ma anche un impegno terminale nel narrare le vicissitudini minime di palazzo, il dietro le quinte personale che si nasconde nella coscienza di chi utilizza lo Stato per il suo unico interesse. Gianfranco Rosi è un maestro e riesce a dare ritmo e potenza, anche quanto il racconto rischia di scivolare verso l’ovvio. Rod Steiger mitico. Pietra miliare.
Mocio Miteda
31. Sacco e Vanzetti (Giuliano Montaldo, 1971)
Sarei tentato di sputare veleno su un paese che dal punto di vista culturale ed etico detesto, parlo degli Stati Uniti e della loro arroganza politica e culturale ma sarebbe ingiusto; sarebbe ingiusto per i milioni di onesti cittadini americani che vivono, soffrono, stentano la vita tra un “welfare” scadente e una morale religiosa arcigna e infame. Tra quei milioni di cittadini onesti, la maggioranza del mondo, Nic and Bart, tentavano di sopravvivere difendendo i principi che avevano abbracciati, stretti l’un l’altro per far fronte comune alla solitudine di semplici immigrati che nessuna fortuna avevano trovato all’America. Già perché, volente o nolente, la fortuna è sempre dei ricchi e dei furbi, fugge gli onesti, quasi li deride.
La colonna sonora scritta da Ennio Morricone Here’s to you cantata da Joan Baez (di cui ha redatto le parole) per il film di Giuliano Montaldo Sacco e Vanzetti (1971) racconta poeticamente il principio poc’anzi espresso: nessuna fortuna per voi, Nic and Bart, ma siamo qui per voi, riconosciamo la vostra povertà che ci ha aiutati a capire cosa significa lo sfruttamento e cosa significa l’onestà, la sedia elettrica. Detta così è certamente ambigua la mia affermazione, quasi a dire: be, allora essere onesti e credere nell’anarchia condanna a morte; no, significa molto più semplicemente che il capitalismo non accetta moralismi di sorta, solo tribù moralizzanti e moralizzatrici, autoreferenziali.
Il lavoro di Montaldo è un buon esempio di “filmografia giudiziaria” su cui poi hanno proseguito registi importanti come Sidney Lumet, Marco Bellocchio (cos’è Il traditore, 2019, se non un esempio di filmografia giudiziaria) ma che conserva certamente la matrice antropologica: come gli uomini giudicano i propri simili sta tutta nell’interpretazione delle leggi che si son dati come comunità, non nell’applicazione. Cos’è il razzismo se non un’interpretazione delle leggi? Nic and Bart non erano semplicemente anarchici (probabilmente nemmeno avrebbe influito troppo sulla disposizione della giuria) erano italiani immigrati di prima generazione, in un’America sporca e bianca di cui Alexander Mitchell Palmer era il rappresentante esecutivo. Ecco, Montaldo fa un ottimo lavoro proprio nel raccontare la sfumatura sostanziale della vicenda dei poveri anarchici italiani, nemmeno riconosciuti dai white trash, di cui avevano conservato tutte le componenti sociali: povertà, fatica, anonimato. Non va menzionata soltanto l’interpretazione pura di Gian Maria Volontè, nel discorso finale ripreso parimenti dalla vicenda reale, ma credo meriti encomio l’interpretazione di un attore, più o meno famoso in Italia, all’anagrafe Riccardo Cucciolla, scelto da Montaldo per la sua “origine” pugliese e che, a mio avviso, restituisce drammaticamente una interpretazione molto realistica, stanislastica.
Ad onor del vero sui due anarchici protagonisti del film si sono scritte e consumate lodi, creati omaggi, lo stesso governatore del Massachusetts, Michael Dukakis, dichiarò per legge che nessuna orda o infamia potesse più pesare sul nome di Sacco e Vanzetti, ma la domanda cui mi piacerebbe rispondere è la seguente: cosa fece l’Italia a quel tempo? Avevo letto da diverse parti che il paese, fascista, restò silente, muto, indifferente, in fondo due anarchici nemici non meritavano alcuna considerazione ed invece non è vero, è un falso storico. In un articolo degli anni ’80 Andrea Camilleri raccontò una versione che sovvertì la mia idea: il giorno dell’esecuzione capitale tutti i giornali, orgogliosi e fascisti, scrissero dell’enorme ingiustizia che i nostri connazionali stavano subendo nel grande plutocratico paese, come a dire: viva, comunque, l’Italia.
Antonello Pesce
30. Mediterraneo (Gabriele Salvatore, 1991)
Qualche anno fa ho avuto la fortuna di assistere ad una giornata di riprese sul set di un film di Gabriele Salvatores. Al di là del fatto che si è personalmente rivolto alla mia umile persona per chiedermi di libere un attimo la sedia su cui sedevo, lasciandomi l’onoratissima sensazione di essere appena stata interpellata da una qualche divinità, ricordo con magia un momento in particolare, in cui ha parlato a tutte le decine di comparse in scena quel giorno (tra cui me). In un capanno del porto vecchio di Trieste in cui si stava girando un tristissimo momento, in una mensa siberiana, Salvatores ha fatto ascoltare a tutti un valzer per qualche minuto, per farci entrare in armonia, prodigandosi successivamente in una dimostrazione danzata di come la distribuzione del cibo doveva essere percepita, più che osservato, sottolineando che le scene di un film siano in alcuni casi un’elegantissima danza, da ascoltare, sentire e vivere, oltre che guardate. Questa immagine di Salvatores danzante, che si estranea dal contesto ed eleva la realtà su un piano di mistica fantasia, quasi nostalgica, e assolutamente armonica in ogni componente, ritengo che possa descrivere benissimo anche Mediterraneo. Non solamente un film, ma una compagna di ballo da prendere sotto braccio e far condurre, godendoci la danza ogni volta come se fosse la prima.
Caterina Coral
29. La meglio gioventù (Marco Tullio Giordana, 2003)
Non è uno straordinario esercizio di cinema fotografato. Narrativamente è quasi noioso ed è pensato, in maniera del tutto evidente, per la televisione, con i personaggi che ogni tanto dialogano a vuoto per fare il punto su quello che è già successo. Eppure, questo è un film importante. Quello che di straordinario resta è il tentativo colossale di raccontare cinquant’anni di storia italiana utilizzando lo strumento cinematografico. Ci passa davanti tutta la vita ed è impossibile che, qua e là, non ci sia un piccolo pezzo di racconto nel quale riconoscersi. Con garbo e un’attenzione ai personaggi per niente scontata su un prodotto di queste proporzioni, Giordana ha composto un ritratto imperfetto, doloroso, un po’ scontato eppure coraggioso, dell’Italia e degli italiani. Che piaccia o meno, La meglio gioventù è un lavoro entrato definitivamente nella cultura popolare del nostro paese.
Masedolina Miccigetto
28. Il buono, il brutto e il cattivo (Sergio Leone, 1966)
Furbi, arroganti, caparbi, scellerati. Un’America selvaggia e senza regole: quella di Sergio Leone.
L’arte filmica di Leone è una sorta di rivincita, di schiaffo, di cazzotto sul muso di una stucchevole cinematografia a stelle e strisce che raccontava di un finto, troppo finto, epico west.
Leone ha preso a sberle (in senso metaforico s’intende) il cinema sopravvalutato di Ford, la stocastica moralità vuota del racconto, per certi versi romantico, dell’industria americana. Leone ha inventato, cinematograficamente, il genere western; che poi non è nemmeno un genere a mio avviso, è un’epica e secondo questa fisionomia egli l’ha resa reale. C’è tanto di Rabelais, c’è tanto di Omero, come lo stesso autore ha spesso dichiarato del cinema di genere western e cioè la realtà parallela cui appartiene il romanzo, che non è mai realistico, non è mai realizzabile in senso puro. Al di là della critica al film che è incriticabile, perfetto in ogni sua parte, è importante raccontare due aneddoti.
Quando l’Italia divenne, dopo la guerra, a tutti gli effetti protettorato americano le fu imposto che le produzioni filmiche passassero sotto una supervisione hollywoodiana, soprattutto per ciò che concerneva i quattrini (le produzioni).
Leone coi suoi film è stato uno dei problemi che ha indotto la legge Corona in merito ai finanziamenti per le opere cinematografiche: basta inglese maccheronico e contenuti che avrebbero potuto inficiare la forza dell’industria americana.
Leone ha distrutto e rimontato il racconto di un genere che, orgogliosamente, rappresentava i buoni (americani) contro i cattivi (gli altri) nel mondo. Leone ha raccontato l’umanità in un mondo favolistico che però è reale, umana per l’appunto. Non esistono morali o visioni di tribù ma una psicologia antropologica che non risponde a contesti culturali, l’uomo non è buono, brutto o cattivo l’uomo si adatta al contesto e non viceversa. Ripeto, Leone è incommentabile, già i titoli di testa sono esponenziali narrativamente.
Carlo Verdone racconta, in uno speciale di Sky, la sua conoscenza diretta col grande regista (è stato suo produttore) e tra i tanti aneddoti ne condivido uno: il cimitero costruito nel film è un’opera d’arte studiato da registi come Lucas, Coppola e Leone l’aveva fatto fare da un grande scenografo che non proveniva dal cinema ma era un architetto di case e si chiamava Carlo Simi, e fu Leone a portarlo nel cinema. Nella corsa tra le tombe Ely Wallach deve trovare quella dove sono nascosti i soldi, Leone pretese che, nell’errore, si aprisse una bara con uno scheletro; Leone disse: prendiamo uno scheletro vero. Venne fuori un addetto alla produzione che si ricordò di un suo conoscente la cui madre attrice, nel testamento aveva fatto scrivere che voleva recitare anche dopo morta. Presero le ossa di questa defunta signora spagnola e la interrarono.
Sempre citando Verdone: Leone aveva una passione per i dettagli.
Guarda che non stiamo al circo, stiamo al cinema, sè vede tutto.
Parola di Sergio Leone.
Antonello Pesce
27. La classe operaia va in paradiso (Elio Petri, 1971)
Un manifesto più che un film. Una dichiarazione politica che ancora oggi affascina per onestà intellettuale e per lo sguardo limpido sulle cose del suo tempo. Spesso malamente considerato un film di parte, da cineforum di sinistra con le sedie scomode, è invece un lavoro nel quale non soltanto si pensa, ma ci si diverte anche. Non per quello che accade, e non nel senso comico del concetto. Ma nella riflessione affascinante e involontaria che si è portati a costruire quando si ammirano le azioni impossibili del mitico Lulù, un Gianmaria Volonté volutamente sopra le righe, che ritrae con dolore grottesco il protagonista di questa pellicola che davvero è “d’altri tempi”. Lo odiarono tutti questo film. Borghesi e proletari, maoisti e seguaci di Almirante. Eppure, era “solo” un film sulla classe operaia, con l’ambizione di raccontare in modo provocatorio le mille storie di chi si alza ogni mattina per andare in fabbrica.
Mestogerimo Mareliaro
26. L’avventura (Michelangelo Antonioni, 1960)
Svariati mesi di lockdown e serie tv dopo, abituati a ritmi veloci e ad episodi di 20 minuti, (ri)vedere queste due ore e di Antonioni è una sfida sconsigliata alle fasce deboli.
L’Avventura, primo capitolo della cosiddetta “trilogia dell’incomunicabilità”, è infatti un film lento, lungo e (volutamente) noioso.
Un gruppo di amici, giovani e benestanti, parte per una vacanza in barca. La protagonista, Anna, scompare nel nulla; l’azione è minima, così come è minima “l’avventura” stessa.
Ci sono diversi elementi che rendono questo film uno dei capolavori degli anni 60’: in una sorta di esperimento cinematografico, Antonioni mescola paesaggi enigmatici e alieni (alcune scene del film sono girate in un villaggio fantasma nella Valle dell’Alcantara), e una borghesia (o meglio, un’umanità) vuota, annoiata, robotizzata e incapace di comunicare, mentre tutto si svolge ad un ritmo molto lento.
La protagonista sparisce, ma col passare del tempo non ha più importanza, né per i suoi amici né per lo spettatore; in quest’ultimo subentra lentamente una sensazione di alienazione, uno spaccato cinico di un’umanità in perenne (invana) ricerca, che compie stupidi inutili tentativi, ma resta paralizzata nella sua condizione di solitudine e incomunicabilità.
Federica Scalise
25. Amore Tossico (Claudio Caligari, 1983)
Per raccontare Amore Tossico occorre unire tre puntini fondamentali: Ostia, Claudio Caligari e l’eroina. Un triangolo.
Partiamo dalla trama: un gruppo di tossici romani trascorre le proprie giornate nel più tipico dei modi, ovvero pensando di poter cambiare la loro situazione, ma di fatto non riuscendoci mai. Si aggirano tra il quartiere di Centocelle e le spiagge di Ostia, facendosi, compiendo furterelli, procurandosi la dose quotidiana e facendosi nuovamente, in un loop inconsapevolmente infinito. Non è questo, però, ciò che il secondo puntino – Caligari – determina maggiormente nella sua idea di film, bensì lo spaccato di una micro-società in un determinato momento storico italiano e lo fa attraverso il dialogo. Fondamentalmente Amore Tossico è un lungo dialogo fra tossici di eroina.
È riduttivo, lo so, ma è anche la forza del film, è ciò che poi l’avrebbe resto il film culto che è ancora oggi.
Caligari, che nasce come documentarista, ha per tutta la vita lottato per fare emergere la sua ricerca sociale, questo soprattutto attraverso “solo” tre film, spalmati nell’arco di tre decadi, di cui per l’ultimo riesce solo a chiudere le riprese.
C’è l’ultimo puntino da raggiungere, che chiude il cerchio: l’eroina.
È proprio attraverso e grazie e a causa di quell’intenso e reale dialogo che compone il semplicissimo intreccio di Amore Tossico che Caligari compie l’impresa di dare uno spazio diverso al grande tema degli anni 80 italiani. È probabilmente azzardato, forse coraggioso, oppure semplicemente una missione, ma la verità, ad unire gli anni che ci porta dall’83 ad oggi, è che niente come Amore Tossico e come Claudio Caligari, è riuscito a definire meglio una società suburbana, dei margini e marginale, infilandola a forza nella testa e nel cuore di chi c’era e di chi è venuto dopo.
Mattia Grigolo
24. Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini, 1975)
Dopo aver concluso con Il fiore delle mille e una notte (1974) la sua trilogia della vita, Pasolini si dedicò a una nuova trilogia, dedicata stavolta alla morte. Dopo aver finito di montare il primo lungometraggio, Salo’ o le 120 giornate di Sodoma, iniziò a lavorare febbrilmente al secondo, Porno-Teo-Kolossal, che avrebbe avuto come protagonista il fido Ninetto Davoli, stavolta al fianco di Eduardo De Filippo. Un film che avrebbe trasferito la mitica citta’ di Gomorra a Milano. Un film che Pasolini aveva già tutto in testa, ma che non riuscì a realizzare, perché il suo corpo rimase immobile sulla sabbia di Ostia.
Salo’ è rimasto così solo a fare le condoglianze, con tutto il peso dell’Abiura di quella prima trilogia, nella quale si legge tra l’altro: “Ora tutto si è rovesciato. La lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberazione sessuale è stata vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta quanto falsa tolleranza; la realtà dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: anzi tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana” (PPP, Abiura 1975).
Per capire il Salo’ di Pasolini bisogna quindi partire da qui, dalla sua nuova relazione col corpo, diversa da quella dichiarata nelle pellicole appena precedenti. Una relazione ormai condannata alla totale disillusione, per lui cittadino in cerca di un sottoproletariato da proteggere come unico interlocutore possibile, come unico corpo al quale stringersi. E’ un film pieno di liturgie, Salo’, ed è esso stesso una liturgia, una serie di gesti formali, canonici, ripetitivi come quelli dei regimi totalitari del secolo breve. Un funerale, per la precisione, durante il quale si seppellisce tutto ciò che rimaneva di umano, come profetizzato dal marchese De Sade, svuotando i corpi dalle feci e dal sangue, pulendoli, igienizzandoli, rendendoli fantocci sventrati dal potere, estranei alla vita.
Nella grande villa del massacro fascista, non c’è nulla di drammatico, nonostante la violenza brutale: vi è il grottesco, la menzogna mal camuffata, quasi clownesca, e non c’è traccia del tragico, tanto caro alla sua poetica. Pasolini conosceva troppo bene il mondo classico per poterne usare i canoni al fine di rappresentare la farsa repubblichina, la decadenza consumistica. Non poteva esserci più gloria per nessuno, del Cristo palestinese del Vangelo, di cui non rimane traccia, come di Bach, sostituito dalle canzonette da tabarin.
Piera Ghisu
23. La strada (Federico Fellini, 1954)
Parliamo di un film del 1954 (che diede notorietà internazionale a Fellini, fra l’altro) che affronta dei tempi incredibilmente attuali come il disagio psicologico e la violenza contro le donne in un modo che definire moderno sarebbe riduttivo.
Non era facile raccontare la vicenda di Gelsomina e Zampanò nell’Italia del secondo dopoguerra, un paese desideroso di storie felici e a lieto fine che distogliessero i pensieri dalle misere difficoltà quotidiane di una nazione ancora in ginocchio.
E invece Fellini prende una giovane donna con un probabile disagio psicologico e ci racconta di come la famiglia la venda per pochi soldi a un bruto di strada intenzionato a sfruttarla per i suoi spettacolini circensi ambientati nelle più remote piazze del paese. Ci viene descritto un rapporto simbiotico, evitabile ma sostanzialmente inevitabile tra i due, fatto di minacce, urla, botte e umiliazioni nei confronti della gentile Gelsomina: sono immagini difficilmente accettabili ai giorni nostri ma che dobbiamo cercare di guardare in un contesto storico e narrativo profondamente diverso.
“La strada” è un film di formazione, ma non si sa per chi. Forse, in parte, per Gelsomina ma in maniera drammatica. Certo non per Zampanò, incorruttibile nella sua brutalità per tutta la durata della pellicola, con un cedimento solo negli attimi finali. Redenzione o rimorso? Ce lo stiamo chiedendo da sessantasette anni.
Leonardo Paci
22. Paisà (Roberto Rossellini, 1946)
Troppo cristiano per i comunisti, troppo comunista per i cristiani. Sembra un documentario a volte e in effetti lo è, e si mischia con la finzione in una strana anarchia funzionale, da cui esce uno sguardo più realista del reale. Paisà non è soltanto un occhio che cattura le vicissitudini dell’Italia liberata, ma una sovrapposizione di elementi che da un lato enfatizzano, dall’altro sommergono, le molteplici contraddizioni umane dei personaggi che via via si fanno largo. Rossellini ama il tema dell’Italia dilaniata e divisa, perduta nel suo scontro di lingue e culture all’indomani della fine della guerra. E non si stanca di disegnare pezzi di esistenza con la macchina da presa. Come tutti i Rossellini, non è certo un film semplicissimo da guardare, ma se si ha il gusto dell’osservazione, se ci si dimentica per un momento il piacere vacuo e contemporaneo della velocità, allora è difficile non innamorarsene.
Miyiyurre Mokaka
21. Caro diario (Nanni Moretti, 1993)
Caro Diario appartiene a quei film definibili “da gustare con la giusta ambientazione”. Precisamente, è perfetto per le tiepide serate della prima estate, possibilmente da vedersi al cinema all’aperto con un tagliere di salami, formaggi e un bicchiere di vino.
La formula è questa: tre capitoli ed un personaggio, Michele. Michele, figura che si fonde e confonde col vero Nanni per tutta la narrazione, ci fa passare dalla dimensione personale a quella impersonale, il dialogo interiore e l’esperienza condivisa.
Davanti a noi troviamo il capolavoro di ciò che in termini tecnici viene definito Montaggio intermediale. Il che equivale a dire che la narrazione va a mischiare gli elementi del neorealismo col documentario. Perché questa scelta stilistica? Perchè Moretti vuole farci entrare in un diario, con le sue parti visive, le sue parti di riflessione, il bisogno di razionalizzare e mettere in ordine.
“In vespa”, “Isole” e “Medici” sono capitoli di vita, pagine di un diario personale che andiamo a percorrere insieme a Michele/Nanni. Sono momenti crudi della vita ma anche leggeri vagabondaggi per Roma, spezzoni di pensieri contorti e momenti al limite tra il sarcasmo più puro e la confusione più totale. Il tutto condito dalla schiettezza morettiana, quella capacità di fare sempre un sacco di domande (che non si sa mai bene se siano domande ad altri o a se stessi) anche inappropriate, assurde, ma che sicuramente non sono banali.
“In Vespa”, ci porta a esplorare Roma, in vespa, sotto al sole. Non è un’esplorazione stile giro turistico ma più un tour emozionale, dettato dal puro desiderio di esplorare, conoscere. Quel giro in vespa che vorremmo magari sempre fare ma “non abbiamo mai tempo”, quello rilassante. E poi, la musica!
“Isole” è anch’esso un viaggio, ma più di “ricerca della pace”, dell’isolamento attraverso la ricerca di un luogo per star soli con se stessi. Una riflessione sull’incapacità di adattarsi agli altri – tematica onnipresente nelle opere di Moretti – e anche un po’ sull’assurdità di come talvolta sono i luoghi più inusuali quelli che diventano i nostri luoghi di pace.
Per finire troviamo “Medici”, capitolo che ci viene introdotto attraverso scene indecifrabili per poi evolversi, lasciarci capire il contesto, le circostanze di ciò che ci accoglie all’inizio. Passiamo al chiuso, in studio e in ospedale.è una riflessione sul dolore, la confusione. “Medici” è il capitolo più crudo dei tre, chiude il cerchio della storia e del Diario.
Cario diario è solo un mix di sequenze e sarcasmo? Perché ci prende così tanto, perchè come negli altri film di Moretti sentiamo che tocca qualche corda scoperta? Caro diario è un film che non vuole essere una di quelle grandi metafore borderline manuali di sopravvivenza bohemien alla vita, insopportabili e pesanti. Caro diario non si basa sul simbolismo, non ci vuole aprire gli occhi su qualche realtà sconosciuta o farci indagare sui misteri dell’esistenza.
Questo è un film della calma, della vita reale, dell’uomo medio. Fa parte di quei film che mentre lo si guarda fa provare a tratti malinconia, voglia di prendere un traghetto per un’isola deserta e tuffarsi in mare, e prendere una vespa e partire per macinar chilometri e chilometri in una sera d’estate con la calda brezza estiva che ci avvolge. Ogni volta.
Michele/Nanni non è null’altro che uno di noi, uno di noi che vaga, che si interroga, che magari si fissa un po’ troppo con qualcosa e deve per forza parlarne a tutti fino allo sfinimento, che vuole stare da solo, che delle volte deve fare ordine nella sua vita quando prende una porta in faccia di quelle belle pesanti.
Vediamo il “Mondo alla Moretti”, troviamo Flashdance e Pasolini, spezzoni che sembrano girati con poca cura ma intenzione, ed altri prettamente cinematografici.
E se passeggiando con gli amici vi chiederanno, “ma di cosa parla Caro Diario?” la risposta giusta sarà sempre: è “un musical sul pasticcere trotzkista nell’Italia conformista degli anni 50”.
Luisa Barbero
20. Il bidone (Federico Fellini, 1955)
Nemmeno sapevo esistesse questo film. Poi lo vidi, al cinema Excelsior di Padova, che era un cinema in una piccola via che si chiama Vicolo Santa Margherita e se eri studente universitario pagavi solo 3 euro.
E così una sera, dopo una mangiata alla mensa di via San Francesco, dove c’erano le spine delle bibite (vino e birra inclusi), a libero e infinito accesso, mi accomodai fra le scomodissime poltrone della sala e scoprii che Fellini non è sempre stato ridondante e esagerato, ma ha avuto pure un’epoca “classica”, durante cui metteva insieme un cinema composto, pulito, semplice, con tocchi di poesia inattesi e un pizzico di torsioni verso il surreale stralunato che sempre ha tanto amato. Tutto, comunque, straordinario. L’approfondimento psicologico dei tre personaggi chiave de Il bidone è sorprendente, ci si ritrova dentro le sensazioni degli attori, intorno alle loro paure. Ancora oggi è considerato un film minore di Fellini. E invece no: è un film bellissimo e struggente.
Morgano Monotelatico
19. I soliti ignoti (Mario Monicelli, 1958)
In una scena iniziale vediamo il bolognese Capannelle (Carlo Pisacane) che cerca il ladro Mario (Renato Salvatori) in una borgata romana in mezzo a ragazzini che giocano.
«Dimmi un po’, ragassuolo, tu conosci un certo Mario che abita qua intorno?»
«Qui de Mario ce ne so’ cento!»
«Oh sì, va bene, ma questo l’è uno che ruba.»
«Sempre cento so’!»
Questa Roma sfacciata e caustica esiste ancora. Anche le borgate ci sono ancora, solo un po’ più in là rispetto a quelle degli anni Cinquanta. Le vediamo nei film dei gemelli D’Innocenzo e in Sacro GRA di Gianfranco Rosi.
Penso spesso a Roma.
Alla mia Roma degli anni Ottanta e Novanta e siccome anch’io me ne sono andato, mi torna spesso in mente una poesia di Remo Remotti:
«Me andavo da quella Roma addormentata, da quella Roma puttanona, borghese, fascistoide, quella Roma der volemose bene e annamo avanti, quella Roma delle pizzerie, delle latterie, dei sali e tabacchi […].
Me andavo da quella Roma dei pizzicaroli, dei portieri, dei casini, delle approssimazioni, degli imbrogli […].
Me andavo da quella Roma […] delle fontanelle, degli ex-voto, […], delle mille chiese […], delle suore, dei frati, dei preti, dei gatti.[…]
Me andavo da quella Roma che ci invidiano tutti, la Roma caput mundi del Colosseo, dei Fori imperiali, di piazza Venezia […], quella Roma sempre col sole, estate e inverno […].
Me andavo da quella Roma dove la gente orinava per le strade, quella Roma fetente e impiegatizia, dei mille bottegai […], quella Roma dove non c’è lavoro, dove non c’è ’na lira, quella Roma der còre de Roma.Me andavo da quella Roma […] di Campo de’ Fiori, di Piazza Navona, quella Roma che c’hai ’na sigaretta? e prestame cento lire, quella Roma del Coni […], quella Roma del Foro che portava e porta ancora il nome di Mussolini.
Me n’andavo da quella Roma di merda.
Mamma Roma, addio!»
Flavio Villani
18. Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948)
Caposaldo assoluto del grande cinema italiano, rappresentazione plastica del neorealismo nazionale, racconta una storia semplice e potente, quella di uomo che ha bisogno di lavoro, che prima lo trova e poi lo perde e che lentamente affonda nella disperazione della sua condizione di povero e proletario. Qualcuno l’ha etichettata come favola marxista, ma in verità questa di De Sica è una storia amara e morbida, da cui si esce sempre, inevitabilmente, sconfitti. La mia scena preferita è quella in cui, in barba alle difficoltà, padre e figlio entrano in un ristorante e si concedono un momento di felicità, qualcosa che, per tutto il film, sembra non possano raggiungere mai. Uno di quei film che si ha sempre paura di guardare, perché lo si pensa “pesante”. E invece no, è un film meraviglioso e nient’altro.
Mosdera Maharu
17. Per un pugno di dollari (Sergio Leone, 1964)
Scontro di occhi. Quelli stretti, gelidi e pallidi di Joe, l’americano in cerca di soldi e di fortuna, e quelli profondi, vivi, appassionati di Ramón, la carta vincente di una famiglia impegnata in una faida senza sconti.
Sullo sfondo un paese messicano assolato e bianco, in primo piano la musica di Ennio Morricone.
Ramón è carnale, suda, desidera, ride, si dispera. E’ un provinciale che vive di convinzioni che dispensa come certezze e dell’ammirazione di amici e nemici. “I Rojo sono i più forti quando c’è Ramón”. “Questo è un paese tranquillo finché non torna Ramón”. “Con un fucile in mano Ramón non ha avversari”.
L’americano, invece, è un senza famiglia, di sicuro non gli manca qualche buon sentimento e tanti traumi.
Quando Joe e Ramón dopo essere stati alleati naturalmente si scontrano, Joe non vuole solo ucciderlo, ma vuole mettergli la morte nell’anima, dimostrargli l’assurdità delle solide convinzioni.
“Al cuore Ramón, se vuoi uccidere un uomo devi colpirlo al cuore, tu lo hai detto”. Ramon, che lo aveva detto davvero, scarica l’intera cartucciera contro il petto dell’avversario, che continua, però, a rialzarsi. L’americano, infatti, ha una lastra di metallo nascosta sotto il poncho e una pistola. Quando Ramon si trova con il fucile scarico di fronte a Joe armato, non gli resta che seguirne le istruzioni. “Prendi il fucile, carica e spara. Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto. Tu lo hai detto. Vediamo se è vero” E anche questa volta Ramón aveva torto.
I suoi occhi da animale si velano e si confondono e Ramon muore davvero.
Stefano Boring
16. Amici Miei (di Mario Monicelli, 1975)
Prematurata la supercazzola o scherziamo!?!? E’ indubbio che Amici Miei debba rientrare in questa classifica; magari non si guadagnerà la prima posizione ma certamente quintana o setta. D’altronde questa pellicola del 1975 diretta dal maestro Monicelli, ebbe sin da subito un enorme successo di pubblico, risultando campione d’incassi nella stagione, per poi diventare con il passare degli anni un vero e proprio cult, amato e postergato dalle generazioni successive.
Seguirono poi altri due episodi a completare la trilogia: nel 1982 con Amici miei – Atto IIº, sempre con la regia di Monicelli, e nel 1985 con Amici miei – Atto IIIº, con la regia di Nanni Loy. La trilogia di Amici miei è, senz’altro, un caposaldo della cinematografia italiana degli anni settanta. Un film generazionale che non invecchia mai. E’ difficile descrivere questo film senza sfociare in una sfacciata podemia, dettata certamente dal vissuto di ognuno di noi. Confesso dunque a scanso di lettorie difformi che Amici Miei ha un valore speciale per il sottoscritto, dicotomico rispetto a quanto visto in precedenza ma, allo stesso tempo, fortemente influenzato da un’eredità differenziale.
Amici Miei narra la storia di quattro amici (il Conte Raffaello Mascetti interpretato dall’immenso Ugo Tognazzi, l’architetto Rombaldo Melandri impersonificato da un’esilarante Gastone Moschin, il giornalista Giorgio Perozzi tasteggiato magistralmente da Philippe Noiret e il gestore di bar/tabacchi Guido Necchi posterdato un po’ a sorpresa da Duilio Del Prete), quattro zingari della vita, come se fossero antani anche per noi o soltanto in due, per esempio, cui poi si unisce il Prof. Sassaroli (interpretato dal grandissimo Adolfo Celi). I protagonisti della pellicola sono, ognuno a proprio modo, stucchevoli prigionieri delle loro esistenze e, quindi, l’unico occhiello di privilegio è quello di concedersi una zingarata che possa illuderli, anche solo per un breve attimo, di poter essere ancora felici. Liberi. Zingari.
Ed è su questo doppio binario che sbrinzellona il regista, qualcosa come ispettore tombale del grottesco, sebbene allo spettatore permanga poi il registro alto del genere cinematografico stesso. Un climax che stuzzica, che fa su e giù come un indice che stuzzica anch’esso, senza rispetto alcuno per l’autorità, neanche fosse uno spaccato dell’esistenza di un vicesindaco che ha clacsonato. Una pellicola certamente difficile da scappellare senza una home in cui inserire una progettazione del layout di pagina che abbia dei riferimenti chiari, precisi, lettere granitiche che lo spettatore possa sottoporre a revisione mentre visualizza il tutto nitidamente. Questa recensione non vuole dunque essere un copia formato ma quanto più un titolo che trova e sostituisce ciò che lo spettatore stesso seleziona.
Se ci prematura, però, di definirlo con una categoria adesiva, Amici miei è senz’altro una commedia dolcemara dove la tarapia tapioco si mescola con i fuochi fatui, qualcosa come le cappelle per intenderci.
No! No! Attenzione! Pastène soppaltate, come giustamente osserva il Mereghetti a pag. 35 dell’omonimo confadino, non si tratta di un canone cinematografico da posterdare per due ma più semplicemente, a nostro umile avviso, di uno spaccato di una realtà sociale che si sbiriguda anni dopo, come se fosse antani. In senso anafestico, potremmo definirlo esso stesso una grande zingarata, in capitoli, che porta alla maturazione della rappresentazione dell’amicizia, quella vera, da difendere anche quando, come all’abbozzo dell’autorità nei titoli di testa, ha purtroppo perso i contatti con il tarapia tapioco.
Ma non si tratterà di una perdita duratura: lo spettatore, fotogramma dopo fotogramma, continuerà a chiedersi se la supercazzola come se fosse antani debba blindare con scappellamento a destra, a sinistra o con doppio scappellamento.
Parte della critica, tra cui il compianto filosofo britannico Alan Shearer, vorrebbe ridurre il tutto alla nozione stessa di “genialità” che per il luminare può essere così riassunta: “Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione.”
Negli ultimi antipodi, invece, ha preso sempre più corpo una differente visione che, muovendosi dalle riflessioni giovanili del sociologo slovacco Hvania Picciottar, giunge a noi (trovando d’accordo anche il sottoscritto) cristallina e plastizzata; la chiave di lettura della trilogia può essere agevolmente definita mediante una semplice parafrasi del pensiero che il Perozzi rivolgerebbe a tutti noi, lasciandoci soli nel buio della sala: ”io restai a chiedermi se l’imbecille ero io, che la vita la pigliavo tutta come un gioco, o se invece eravate voi che la pigliavate come una condanna ai lavori forzati; o se lo eravamo forse tutti quanti”.
Pier Attilio De Luca
15. Il Gattopardo (Luchino Visconti, 1963)
Io mi sono innamorato a prima vista di questo film. Di Claudia Cardinale mi sono innamorato. Di Alain Deloin mi sono innamorato. Di Serge Reggiani così a suo agio nelle campagne siciliane, fra i muri a secco e gli ulivi antichi, che ancora oggi hanno gli stesso colori, mi sono innamorato. E poi di Burt Lancaster mi sono innamorato. Di un amore infinito, per ogni istante passato sullo schermo. Ma soprattutto, per il ballo, quello famoso, certo, e per la maniera gentile e distante con cui gli attori si muovono dentro ogni azione. Cartoline da un altro tempo, dure ed emotivamente intenso, sgorgano da questo film che stringe forte al petto. Il cinema come non si fa più, epico ed elegante, formale e con un senso di dolce rigidità per l’immagine. Il piacere infinito della visione.
Monio Mertyni
14. Novecento (Bernardo Bertolucci, 1976)
Novecento di Bernardo Bertolucci: non esiste modo migliore per spiegare il ventennio fascista. Ambientato nella ricchissima provincia parmense, la stessa dove nacque il regista, iniziato al cinema dal padre poeta e alla campagna dal nonno, il film mostra con epica naturalezza le dinamiche sociali che alimentarono il regime di Mussolini, e lo portarono inevitabilmente alla sua rovina.
Novecento (1976) è fenomenologia del fascismo, nel senso più inevitabile, quello che rimanda alla dialettica servo-padrone, nelle sue varie declinazioni. Le facce dei protagonisti ne seguono l’evoluzione, il movimento, in senso a tratti osmotico: il vecchio faccione ottocentesco di Burt Lancaster, che incarna la conservazione museale del potere, dovrà cedere il passo al futuro militante splendidamente rappresentato dal volto senza spigoli, modiglianesco e abissale di Stefania Sandrelli, passando attraverso il naso contadino di Depardieu, i tratti affilati di De Niro, e l’orrendo e satanico ghigno della coppia Sutherland-Betti, protagonista di una scena agghiacciante, che una volta vista, sarà difficile scacciare dalla mente. Sono loro, meglio di chiunque altro nel film, a interpretare l’Italietta fascista, quella a quattro zampe quando irrompe il capo, e pronta a rialzarsi quando ci son da punire i fragili e disarmati.
Dedicato ai contadini emiliani, Novecento sarà per Bertolucci un ritorno a casa dopo i successi internazionali de Il conformista e di Ultimo tango a Parigi, una casa dalla quale sarà difficile andar via, come testimoniato dai 315 minuti di irrinunciabile girato, con i quali entrerà in competizione Ford Coppola, che in contemporanea girava il suo film della vita, Apocalypse now. In partenza per le Filippine, disse a Bertolucci: ”il mio film sarà di almeno un metro più lungo di Novecento”.
Alle prese con la loro ombra, alla fine degli anni Settanta, i due cineasti sapranno farne capolavori perfetti per raccontare non solo loro stessi ma anche gli spettatori incollati allo schermo, osservatori partecipi di lunghissime metamorfosi e grandiose liberazioni, che diventeranno da subito oggetto di culto. Basti pensare al bel documentario girato da Gianni Amelio Bertolucci secondo il cinema, attraverso il quale Novecento, visto da dietro le quinte, assumerà una tridimensionalità che lo renderà ancor più bello, ancora più vero.
Piera Ghisu
13. Mamma Roma (Pier Paolo Pasolini, 1962)
Tutto molto pasoliniano: le periferie romane, il paradigma degli esclusi, l’impossibilità di riscatto sociale, Franco Citti, un finale tendente al tragico. Semplificando al massimo (con crudeltà, va detto) potremmo ritrovare ripetuta in ogni film del regista questa sequenza, quasi senza variazioni.
Eppure “Mamma Roma” qualcosa in più ce l’ha: l’interpretazione di Anna Magnani. Solo lei poteva impersonare con un realismo incredibile l’ex prostituta “in pensione” Roma Garofolo, farci credere nella sua folle speranza di salvezza e redenzione per il figlio Ettore, inghiottito però da un abisso di malaffare e confusione adolescenziale che non gli lascerà scampo.
Di “Mamma Roma” si è scritto: “Film costruito sull’incantevole debolezza dell’umanità disagiata che sogna il riscatto della propria condizione attraverso un impossibile avanzamento sociale”.
Non potremmo aggiungere di meglio.
Levante Quarini
12. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970)
Questo è il film che ha aperto la mia finestra sul cinema italiano degli anni ’70. Mi prestò la videocassetta mio zio, in un’edizione bellissima de L’Unità, allora diretta da Walter Veltroni. Per me, a lungo, è stato il film preferito, quello da guardare e riguardare ancora, per capire le cose del mondo e immergersi nel gusto puro del cinema, nella leggenda del racconto esagerato di una storia. Non c’è soltanto l’ennesima prova imponente di un Gian Maria Volonté irraggiungibile per forza e tensione, per la dedizione con cui costruisce un personaggio del quale riusciamo a percepire persino l’odore, ma anche un contorno di facce che non si possono dimenticare, una meravigliosa Florinda Bolkan e le musiche perfette di Ennio Morricone, temi che, come sempre nel suo caso, ti entrano in testa e giocano in maniera viziosa con il ritmo delle immagini. Storia del cinema.
Mentolata Mupo Merluzzo
11. Amarcord (Federico Fellini, 1973)
Partiamo dal presupposto che, per chi scrive, Fellini è una sorta di dio, ma non quel tipo di dio a cui concedi la fede, ti affidi e lo aspetti. Per me Fellini è qualcosa in cui non serve credere, talmente è immenso. È la certezza, è lui stesso il presumo per il quale.
E quindi, fine del presupposto.
Amarcord, dunque.
Non voglio parlare di tutte le altre, innumerevoli volte, che l’ho guardato per il desiderio e il bisogno di vederlo. Voglio parlare della prima volta. Quella in cui non l’ho capito perché ero troppo giovane, ma anche quella che.
Che sono rimasto folgorato dalla capacità di portare gli attori oltre lo schermo, nella mia stanza di allora, seduti con me sul divano a guardare l’estensione di loro stessi attraverso il tubo catodico: come delle ombre fantasma.
Che nonostante non riuscissi a capire molte delle sotto-cose che Fellini stava facendo e, in parte, mi annoiasse la mia condizione, non riuscivo a smettere di guardare e di sapere. Provate a pensare ad una condizione simile: sei annoiato ma non riesci a smettere. Una condizione impossibile o quantomeno rara.
Più di tutto quella prima volta fu quella in cui compresi una cosa che poi mi portai dentro negli anni e nella mia formazione: il desiderio di scavare, attraverso quello che avrei fatto nella e della mia acerbissima vita, nelle radici. Con il dialetto, con le storie personali di chi non siede o non vive o non dice sul palco, ma sotto, tra i comuni, tra i semplici.
Mi pare di aver scritto una recensione talmente egocentrata che quasi mi indispettisco da solo. Ma non mi riesce altro modo.
Dopotutto, sono partito dichiarando che per me Fellini è un dio.
Gli dei servono a questo: alimentare, rassicurare, gonfiare, appagare, proteggere. Insegnare.
Un’ultima cosa, slegata finalmente dall’io-io-me-io: la colonna sonora è di Nino Rota, in particolare questo. Non serve altro.
Mattia Grigolo
10. Dogman (Matteo Garrone, 2018)
La città è Berlino, è forse autunno inoltrato, il cinema è uno di quelli ricavati da una stanza, 20 posti al massimo, quelle sale di proiezione che solo alcuni posti o scantinati a Berlino sanno darti.
La birra di certo non manca, anzi, la porti in sala e all’ingresso c’è una cassa vuota affinché tu possa lasciare la bottiglia una volta finita. E poi c’è il film: Dogman.
Siamo tutti molto curiosi, molti italiani e qualche tedesco.
La storia è una storia vera e per alcuni sconosciuta, prima di sapere che Matteo Garrone l’avesse iniziato a girare, la storia del “canaro” è una storia di vendetta.
Garrone non la riporta fedelmente sullo schermo, ma ci mostra comunque come, in una desolata provincia laziale – magnifica nella scelta della location, che poi è la stessa di uno dei suoi primi film, lo splendido Imbalsamatore – dominata da agenzie di scommesse e negozi di ‘compro Oro’ un povero e solo uomo, proprietario di una piccola toelettatura per cani, con dipendenza alla cocaina e al gioco, è incapace di non farsi sottomettere da Simoncino, un delinquente di quartiere con il quale intraprende rapporti illeciti che lo spingono addirittura alla rapina dei suoi “vicini” di bottega; tutto pur di un minimo di sostanza stupefacente.
Marcello, questo è il nome del canaro, si concede un unico e solo lusso, immersioni subacquee con sua figlia una tantum, un impegno che diventa quasi un toccasana per la sua triste vita, una parvenza di normalità rispetto a tutto quello che la sua triste vita gli propone.
Ed è proprio dopo l’ennesimo torto di Simoncino, il quale non perde tempo a lasciarlo solo e senza aiuto quando le cose si complicano, che Marcello decide di liberare lui e la disastrata fauna di personaggi di cui si circonda, dal mascalzone Simoncino. Come? Con la vendetta (spoiler), chiudendolo in gabbia proprio come i cani più inquieti con cui ha a che fare ogni giorno, torturandolo nella sua bottega per poi, in un certo senso, decidere di riscattare tutti e liberarli da quel peso che Simoncino era stato sino ad allora.
Il finale è un finale scenico di tutto rispetto, una camminata in riva al mare, su una battigia invernale piena dei segni di mareggiate, distinta dalla mancanza di cura eppure bellissima nelle sue ombre, nei suoi colori.
E poi l’urlo disperato di Marcello a chiudere il tutto come una liberazione totale “ce l’ho fatta, guardate, siete liberi”.
Elena Arcidiacono
9. Il secondo tragico Fantozzi (Luciano Salce, 1976)
Il secondo tragico Fantozzi è un film che si guarda su tanti livelli. È la storia di un inetto, di un pusillanime, la “quintessenza della nullità” – così come lo descrive il suo interprete ad autore – di cui siamo capaci di ridere solo a denti stretti, perché in lui non possiamo non vedere un po’ del nostro vicino di casa, dei nostri genitori, e perfino di noi stessi se abbiamo abbastanza onestà. È la storia di un Paese cominciata cinquant’anni fa e non ancora finita, bloccata nella corsa allo status e nella burocrazia kafkiana, fondata sulla mediocrità piccolo borghese in tutta la sua foga ignorante, incapace di alzarsi a qualsiasi ambizione spirituale e culturale. È un manifesto politico radicale contro il falso mito della famiglia da cui lo stesso Fantozzi vorrebbe fuggire, contro l’assurda alienazione del lavoro, contro la borghesia e il suo sogno venale dell’arricchimento facile. Il modo in cui il film è raccontato, poi, attraverso l’iperbole e l’esagerazione grottesca, è anch’esso un livello di lettura, perché per Paolo Villaggio questo era l’unico modo per penetrare nelle menti ingrassate e assopite dell’italiano medio. E Paolo Villaggio stesso fa parte del quadro semiotico del film: intellettuale fuori dagli schemi e icona anti-moralista, protagonista defilato della scena italiana del Dopoguerra e oltre.
Ma c’è un motivo più importante di tutti gli altri perché il film si merita di stare in questa classifica, e manda Fantozzi il perdente dritto fra i vincitori.
È quell’urlo lanciato contro la Corazzata “Kotiomkin”.
Per anni si è discusso sul significato della ribellione fantozziana contro la pellicola, ma solo effettivamente vedendo La Corazzata Potëmkin si capisce quale sia il bersaglio di Salce e Villaggio. Il bersaglio non sono le opere pesanti, non sono gli intellettuali di sinistra e il loro feticismo per i film esasperatamente lenti e complicati; il bersaglio è il potere. Il potere rappresentato dalla Megaditta che ingloba e svuota la cultura, anche la cultura della rivolta. E questo basta per fare del Secondo Tragico Fantozzi un film importante, addirittura uno dei più importanti: ci insegna a guardare le nostre miserie, ci dice della complessità delle cose e ci sprona a urlare senza mezzi termini contro il potere, quando ce n’è bisogno. E di bisogno, lo sappiamo, ce n’è sempre in abbondanza.
Margherita Seppi
8. L’eclisse (Michelangelo Antonioni, 1962)
Può un film essere così sereno, eppure così doloroso? Può un film ragionare in maniera talmente profonda sui temi dell’esistenza umana, e allo stesso tempo avvolgersi in un lenzuolo di vaporosità modernista, in un’aria morbida ed essenziale, dentro una Roma così melliflua e geometrica, che ti domandi se esiste davvero? L’eclisse è per me il film di Antonioni del cuore, ne amo ogni secondo e resto sempre in stato di adorazione quando Monica Vitti – così bella, così leggera, così intima – si muove per le vie della città, o fra il divano e il letto nel suo appartamento. Alain Deloin è all’apice del suo fascino perfetto, eppure qui la sua bellezza viene trasformata dentro un gioco di pensieri non raccontati, di parole non dette, che la svuotano, pian piano, sino all’astrazione. Film perfetto per una domenica pomeriggio di pioggia.
Middusa Middatissima
7. Roma Città Aperta (Roberto Rossellini, 1945)
La Roma delle immagini che scorrono in questa pellicola monumentale sono quelle, più vere del reale, della capitale italiana subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Una città ferita, disorientata, lontana dallo spirito gioioso e caotica dentro cui è sempre ritratta, un luogo indifeso e durissimo, nel quale sembra ci sia spazio solo per le difficoltà. Roberto Rossellini firma il capolavoro del neorealismo portando la sua camera in giro per le vie distrutte, costruendo tensione spassionata attraverso la recitazione combinata di attori non professionisti e di due grandi come Anna Magnani e Aldo Fabrizi. La violenza, la durezza, rimangono impresse e continuano a colpire duro anche a quasi 80 anni di distanza. Cinema estremo, cinema che non si dimentica.
Molli Mistretta
6. C’era una volta in America (Sergio Leone, 1984)
C’era una volta in America rappresenta la summa dell’idea del cinema di Sergio Leone.
Un racconto americana diretto da un italiano che conosce gli USA meglio degli stessi americani, una fiaba nera che sembra voler fermare il tempo, tratta dalla storia vera di un criminale italo-americano, tale David Aaronson, cresciuto durante gli anni ’20, e che arriva fino all’epilogo del dopoguerra.
Noodles, interpretato dall’inarrivabile De Niro, ci racconta dell’ascesa e del declino tragico di un personaggio abbandonatosi a se stesso, terrorizzato dalla vita e dal tempo, e del suo cerchio magico di amici con cui, cresciuto tra le strade di Chicago, riesce a mettere su un business super fruttuoso e non molto nobile. Il film é una pellicola fondamentale, una storia giocata sempre sul filo del reale. Quello che abbiamo visto è successo davvero? Oppure la memoria, come spesso accade, prende altre forme?
Leone ci ha regalato 3 ore leggendarie, senza sbavature. Quando finisce senti il bisogno di continuare a sapere cosa succede, a domandarti dei destini dei vari personaggi, dagli amici di sempre.
Amerigo Biadaioli
5. La dolce vita (Federico Fellini, 1960)
Non è semplice scrivere di un film di cui si sa qualsiasi cosa, un lavoro che è andato ben oltre il cinema, diventando cultura, società, prendendo forma in tutte le esistenze che ne hanno replicato alcuni momenti nella loro vita quotidiana. La dolce vita è un film esagerato, ultraterreno, un film che esplode di verbosità e situazioni, incontenibile eppure con una sua strana dolcezza, una corsa fortissima che ogni tanto si ferma e ti lascia incantato, attonito. Un’immersione pura in un’idea di cinema, quella di Fellini, in cui forma estetica e struttura narrativa si distendono quasi parallelamente, si cercano e si tengono a distanza, come due capricciosi innamorati. E se non vi siete invaghiti, se non vi siete invaghite, di Marcello Mastroianni dopo questo film, allora è il caso ragioniate sul vostro ideale oggettivo di fascinazione.
Moggio Moffa
4. Nuovo Cinema Paradiso (Giuseppe Tornatore, 1988)
“Nuovo Cinema Paradiso” lo vidi per la prima volta nella sua versione ridotta, senza le scene di Elena e Salvatore da adulti. Sono sempre rimasta affezionata a quella versione. Quella integrale svela troppo. “Nuovo Cinema Paradiso” è un album di famiglia i cui ricordi devono essere conservati senza troppe rivelazioni, senza ulteriori sconvolgimenti. Nel dubbio del “chissà come sarebbe andata se…”. È nella malinconia che si perde la bellezza del dolore, in tutte quelle strette al cuore di ciò che non poteva essere diverso, per quanto ingiusto, alla fine, giusto così.
Mi ricordo che “Nuovo Cinema Paradiso” lo guardavo con i miei ogni volta che lo passavano alla TV, frammezzato dalle pubblicità. Forse avevamo appena finito di cenare e papà passava in salotto mentre io e mamma restavamo in cucina per non perdere le prime scene. Ho nelle orecchie lo scricchiolio della sedia nel cambiare posizione, scivolando sul tavolo con le braccia a fare da cuscino.
Su quello schermo piccolo vedevo svolgersi la vita lenta della Sicilia, calibrata sull’affetto tra Totò e Alfredo. Il violino del tema principale composto da Ennio Morricone percorreva tutte le strade di campagna e le vie del paese e la piazza del cinema, e a rincorrerle c’erano Totò e sua madre e Alfredo e l’attacchino e lo scemo del villaggio. Il prete censurava i baci nei film facendo trillare una campanella ad ogni scena peccaminosa e Totò rideva nascosto dietro la tenda scura della sala del cinematografo. Poi veniva giù la pioggia e Totò, che ormai era Salvatore, restava a fissare la finestra da cui Elena non s’affacciava mai.
Finiva sempre tutto con un sorriso nostalgico; quei personaggi li avrei tutti voluti abbracciare, come si fa con uno di famiglia. Soprattutto Alfredo, quando disse al figlio che non aveva mai avuto: Vattinni Totò. Non voglio più sentirti parlare, vogghiu sèntiri parlare di tia.
Greta Canestrelli
3. Il sorpasso (Dino Risi, 1962)
Roma assolata e deserta, la Lancia Aurelia B24 decappottabile di Bruno Cortona, il suono impertinente di un clacson che taglia a folle velocità le strade di campagna, la timidezza di Roberto, la costa toscana, gli scogli di Calafuria.
Bastano sei particolari per raccontare un pezzo di storia del cinema italiano.
Chi ha visto “Il sorpasso” sa di cosa sto parlando e non lo dimentica.
Chi non l’ha visto si faccia ispirare da tanta bellezza e corra a recuperarlo.
Melchiorre Natali
2. 8½ (Federico Fellini, 1963)
La tendenza stilistica di Fellini di enfatizzare le immagini oltre le idee ci cristallizza in questo film più che in qualsiasi altra opera del mitico Federico. Un lavoro complesso, nel quale il gusto per le descrizioni è spinto fino all’ennesima potenza, sovraccaricato da una struttura narrativa che fa la spola fra realtà e immaginazione. Un film pieno di ispirazioni e di momenti, costruito attraverso una sceneggiatura meticolosa e ritmica, da cui è impossibile non farsi travolgere. La camera di Fellini si muove dolce e morbida, sempre accompagnata dalla musica, fra motivi pop e la colonna sonora originale del grande Nino Rota. I personaggi, come di consueto, vengono spesso seguiti in movimento, un grande classico felliniano, che utilizza gli spazi come forse nessun altro nella storia del cinema.
Maria Muhytre
1. Una giornata particolare (Ettore Scola, 1977)
In un pomeriggio possono succedere tante cose.
Persone appartenenti a mondi distanti possono avvicinarsi e conoscersi profondamente, fraintendersi, lasciarsi, persino volersi bene.
È questa la premessa di Una giornata particolare, film di Ettore Scola che si svolge il 6 maggio 1938, giorno dell’attesa visita di Hitler a Roma.
Antonietta (Sophia Loren) è la moglie fascista ideale: casalinga, ignorante, madre di sei figli, fervente ammiratrice del Duce, tanto che ne conserva un album di figurine. Gabriele (Marcello Mastroianni) è un radiocronista che, licenziato dalla radio di Stato perché omosessuale, vede la fine vicina. Poco prima di suicidarsi, però, scopre che il pappagallino di Antonietta è volato via. Lei non riesce a catturarlo, urla, lui decide di aiutarla; ed ecco che inizia una tenera danza, dove due anime sulla carta inavvicinabili si studiano, si criticano e si corteggiano, il tutto mentre il resto della città stagna obbediente tra le parate del regime.I due deragliano per qualche ora da quei ruoli – madre fertile, nemico del regime – che il fascismo non permette a nessuno di negoziare. Si scoprono per ciò che sono veramente. Si desiderano.
Una giornata particolare è un film che svela con tatto la sofferenza inflitta dal fascismo alla sua popolazione, e lo fa senza mostrare né la devastazione della guerra né grandi figure storiche. Il film si svolge in un caseggiato. Qui il fascismo è un’aria viziata che schiaccia la naturale bellezza del quotidiano. Che deforma le persone, la loro identità, i loro bisogni, e lo fa giorno per giorno.
Ma Una giornata particolare è soprattutto la celebrazione di come un incontro inaspettato può far cambiare prospettiva. Perché a volte gli sconosciuti possono davvero concederci una vacanza dal nostro destino, anche se per poco.
Djo Žalpya
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Wale Café
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