L’illustrazione di copertina è di Lucrezia Chiarle
La composizione del pezzo è a cura di Mauro Mondello
Abbiamo chiesto a tutti i membri della redazione di inviarci una lista con i cinque film girati negli anni’60, nel decennio 1960-1969, secondo loro più belli e importanti. Per provare a rendere la rilevazione ancora più oggettiva, abbiamo ampliato il parterre di contributi, aggiungendo al conto oltre venti liste inviate da esperti esterni, scelti in un intervallo vario e trasversale di età, occupazione, residenze e interessi.
E’ una decade cruciale per il cinema, quella del Sessanta, un periodo nel quale nascono e si rinnovano i generi e in cui sono tanti i registi che raggiungono il loro momento di definitiva consacrazione: da Hitchcok ad Antonioni, passando per Godard, Kubrick, Leone, Fellini, Pier Paolo Pasolini. Anche in questo caso, sono rimasti fuori tanti film che sarebbe stato bello inserire. Vale la pena citare, fra gli esclusi, Hollywood Party, Il mucchio selvaggio, Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide, Jules e Jim, La vita agra, Il buio oltre la siepe, L’angelo sterminatore.
La scelta definitiva è stata così realizzata:
1) I ventuno film che hanno effettivamente accumulato più voti;
2) Sei film che sono stati votati, non ce l’hanno fatta ad entrare fra i primi venti, ma che la giuria di qualità ha ripescato perché considerati meritevoli;
3) Sei film che non ha nominato nessuno e che sono stati scelti dall’eccezionale giuria di qualità, di cui non possiamo rivelare i nomi per questioni di privacy e prestigio (fra i componenti e le componenti vi sono grandi nomi della critica cinematografica mondiale, che non possono, per contratto, comparire su Yanez).
Le liste non accontentano mai nessuno, e sono difficili da stilare, ma noi ci abbiamo provato.
Si tratta di un divertissement, e come tale va preso.
Avvertenze: gli scritti che accompagnano i film nominati sono di vario stile e forma, non seguono la regola statica della recensione e si propongono, piuttosto, come dei commenti aperti, dei racconti, dei ricordi, delle cronache di visione.
Qui la lista dei 33 migliori film degli Settanta.
Qui la lista dei 30 migliori film degli anni Ottanta.
Qui la lista dei 30 migliori film degli anni Novanta.
33. Blast of Silence (Allen Baron, 1961)
Un film nero, rapido, poetico. Un neo-noir che racconta l’odissea umana e professionale di un killer che combatte con le oscure profondità della sua anima. Sullo sfondo, una New York che abbraccia, ammicca, allucca, ritratta nel tempestoso caos d’irrequietezza molle del periodo natalizio. Il protagonista si muove solitario, cupo, fra le vie piene di essere umani a lui così distanti. Non ci sono mai dubbi, sulla sua natura di uomo destinato a rimanere con sé stesso e basta. Le immagini scorrono potenti, senza un attimo di pausa. Si resta avvinghiati dentro i momenti alternati di attesa e azione. Finisce il film e possiamo ricominciare a respirare. Allen Baron, nell’unico vero lavoro cinematografico della sua carriera (si consegnò a una comoda e dignitosa esistenza di regista di episodi di serie televisive, da Charlie’s Angels ad Hazzard, oggi è vivo e ha 93 anni), ci trascina, senza soldi ma con poderosa energia, in un frastuono di immagini dolorosamente splendide. In un universo emotivo che non ci lascia scampo.
Metra Menedrelli
32. La notte dei morti viventi (George A. Romero, 1968)
Tutto ciò che sapete sugli zombies lo dovete a un signore che si chiama George Romero.
Dovete a quell’uomo se gli zombies (ne La Notte dei Morti Viventi prendono l’appellativo di Ghoul) si mangiano la gente, si muovono lenti come lumache e sono dinoccolati come uno sbronzo, che muoiono anche se sono già morti solo colpendoli alla testa e, cosa molto importante e rivoluzionaria, che contagiano mordendo. Romero ha di fatto, nel 1968, creato un nuovo mostro. Ma ha fatto di più, ha trasformato questo nuovo essere malefico nella metafora, malefica, dell’essere umano. Se vi siete mangiati tutte le unghie con quella soap opera di The Walking Dead, se avete saltato sulla sedia guardando 28 Giorni Dopo, se vi vantate di sapere cosa sia il gore, lo dovete a George Andrew Romero, il Maestro.
E’ infatti quando cinema horror, impegno politico e critica societaria incontrano Romero, che nascono gli zombi. A uno stadio ancora pienamente antropomorfo, la presenza di questi non-esseri di tradizione voodoo è in realtà relegata a poche (ma indimenticabili) scene in proporzione all’intera durata del lungometraggio, sebbene restino i protagonisti indiscussi del capostipite degli zombi-movie. È piuttosto la loro presenza, la loro ombra, la loro esistenza a incombere e incutere terrore sui personaggi che tentano di sfuggire al tocco di un’immortalità non voluta. Il loro eterno avanzare e proliferare avviene tramite una metanarrazione televisiva a mezzo di un telegiornale, che fornisce una cronologia dettagliata degli avvenimenti richiamando ciò che nello stesso iconico anno, il 1968, accadeva per la Guerra del Vietnam. Per certi versi ancora acerbo ma al contempo eternamente attuale, questo cult dai tratti gore e splatter ha dato il “la” al cinema e alla letteratura di genere per uno sviluppo, tuttora in evoluzione, di questa specie di redivivi, metafora senza tempo della perdita di individualità umana nella società capitalista.
Ambra Cavallaro e Mattia Grigolo
31. Playtime (Jacques Tati, 1967)
Forse, uscisse oggi, nemmeno lo definiremmo cinema, questo, ma videoarte. Tati era un mimo, prima di passare alla regia cinematografica, e il suo gusto astratto per la rappresentazione dei tempi e degli spazi non rende difficile immaginarlo. Meravigliose azioni coreografiche si snodano in perfetti meccanismi di movimento che quasi mai prendono il centro dell’inquadratura. Un film che va guardato due, tre, quattro volte, da diverse distanze, concentrandosi a ogni visione su particolari differenti, per poterlo cogliere fino in fondo. Una follia costata 17 milioni di franchi (quasi totalmente investiti per la costruzione delle straordinarie scenografie) e l’indebitamento perpetuo di Tati, passata alla storia come uno dei flop più straordinari di sempre nel cinema. L’ambizione sconfinata di Tati proietta questo film ben aldilà dei concetti classici di immagine. Playtime è un continuo quadro mobile in cui si mischiano comicità surreale, gusto geometrico degli spazi, teatro dell’assurdo e tecniche di ripresa avanguardiste e che influenzerà generazioni di registi, da Wes Anderson ad Aki Kaurismaki, non solamente con le precise suggestioni creative che scatenerà, ma per il senso innato di libertà autoriale che simboleggia.
Manalaccio Mepligidininini
30. Divorzio all’italiana (Pietro Germi, 1961)
“Le serenate del sud, le calde, dolci, snervanti notti di Sicilia… durante tutto il tempo che ne ero stato lontano, il ricordo di quelle notti, o meglio di una notte, aveva popolato le mie ore di rimpianti, di nostalgia.” Con queste parole Marcello, aka Fefè, accompagna il suo ritorno in Sicilia, nella prima scena del film, sul mitico treno a lunga percorrenza che da generazioni accompagna noi emigrati negli interminabili viaggi da e per la Trinacria. E la nostalgia è il sentimento predominante che ha segnato la mia ennesima visione di questo film. Da un lato perché Mastroianni è stato una colonna portante del cinema italiano e la sua mancanza, tra le altre, si sente ancora oggi.
Dall’altro perché Divorzio all’italiana è stato girato a Ispica, in provincia di Ragusa, mio paese di origine: le innumerevoli chiese in stile liberty e il corso Garibaldi, sul quale ho passato gli anni della mia infanzia e dell’adolescenza, nella biblioteca comunale di cui mio padre era il direttore (tra l’altro comparsa in questo film), sono presenti per gran parte dei 105 minuti di pellicola. Le enormi spiagge ormai corrose e quasi inesistenti a causa dell’intervento dell’uomo. E le calde notti di Sicilia, quelle in cui si sta fuori fino a tardi, cercando il fresco della notte, la brezza fresca del mare. Anche dopo essere stata vent’anni via da quella terra, è di lei che è ancora pregna la mia anima, come lo è questo capolavoro degli anni ’60.
Elisa Barrotta
29. Branded to kill (Seijun Suzuki, 1967)
Suzuki fu licenziato dalla mitica Nikkatsu a causa di questo film. “Non si capisce niente, è incomprensibile”, gli disse il suo capo, Kyūsaku Hori, consigliandogli di cambiare mestiere. Ma Branded to kill ha resistito alla prova del tempo, ha affascinato migliaia di spettatori in tutti gli angoli del mondo e fatto innamorare filmmaker di ogni epoca, da Melville a Jim Jarmusch, passando per John Woo. Un film anarchico, che si prende gioco del modello americano di rappresentazione della criminalità e smonta pezzo per pezzo – con un approccio visivo eclettico, con un coraggio satirico ed erotico meraviglioso – le fondamenta di base dei film d’azione dell’epoca. Il protagonista dalle gonfie guance di scoiattolo si eccita quando annusa l’odore di cottura del riso, ingaggia una battaglia epica sul fronte del porto contro un nugolo di sanguinari assassini, colpisce obiettivi con il suo fucile di precisione sparando attraverso tubature idriche. A tutti quelli che dicono di non trovare il filo logico, consiglio di non cercare sempre le certezze, ma di lasciarsi prendere dal ritmo fulmicotonicamente algido di Suzuki, dal fascino facondo delle immagini, dall’opima profondità dei suoi irregolari personaggi.
Mela Motogna
28. Il laureato (Mike Nichols, 1967)
Come spesso succede con il famoso “senno di poi”, riguardare Il laureato a distanza di oltre cinquant’anni dalla sua uscita provoca quella malinconia indulgente che suscitano le vecchie fotografie seppiate che saltano fuori da chissà dove mentre si sta facendo tutt’altro, con la testa da un’altra parte. Avresti voglia di dare un pugno in faccia a quel tizio tronfio che con l’occhietto furbo ammicca al futuro glorioso della plastica, togliere Ben dalle grinfie di tutte quelle mani ingioiellate che se lo contendono, liberarlo da quella cravatta soffocante o da quello scafandro asfissiante in cui lo costringono e dirgli: «Su, su, ché non è niente. Peggio verrà, tesoro mio! Salvati finché sei in tempo!».
Ma, da bravo americano, Ben è capacissimo di salvarsi da solo. Mette a segno un colpo ambito da qualsiasi maschio alfa (pur non essendolo affatto), costringe finalmente al silenzio quella coscienza che lo tiene sempre sul baratro di un attacco di panico e si tuffa nell’ipocrisia della vita adulta preparata e impacchettata per lui. Personalizzandola però con un colpo di reni finale: la boccata d’ossigeno di chi riemerge finalmente da tutta una vita passata in apnea.
Ma quello sguardo vacuo, fisso, perso nel vuoto, non convince fino in fondo. Sebbene sia corollato da un bel sorriso sornione, lo sguardo della fine rimane inquietante tanto quanto quello dell’inizio e toglie di nuovo il fiato. L’aereo, il nastro trasportatore, il bus, viaggiano diretti verso un’unica direzione e non ammettono deviazioni. Una sola via. Una sola strada. Un solo modo di varcare il confine verso la vita adulta. È tutto già scritto. O magari no?
Va be’, della colonna sonora non c’è bisogno che dica niente, giusto?
Claudia Valentini
27. L’eclisse (Michelangelo Antonioni, 1962)
Sono tutti splendidi i film della tetralogia che Antonioni dedicò all’incomunicabilità, ma questo è il mio preferito. Ricordo di averlo scoperto tardi, L’eclisse. Era un classico pomeriggio berlinese d’autunno, quello nel quale feci partire il dvd preso in prestito dalla mitica Amerika-Gedenkbibliothek di Hallesches Tor, una delle più grandi biblioteche della capitale tedesca. Tante cose mi rimangono impresse ancora oggi di questa pellicola. I paesaggi della periferia romana – vuoti, freddi, silenziosi – che si alternano al caos del centro; Alain Delon che conversa, in una notte tenera, con Monica Vitti, lei al balcone, lui appoggiato alla ringhiera del giardino sulla strada; una lunghissima scena in cui i due protagonisti si rincorrono, dentro una stanza, e ridono, e si amano, e piangono, e si mischiano tutte le emozioni. Antonioni riempie le sue inquadrature lunghissime di angoscia e di bellezza. L’architettura diventa nevralgica nel racconto delle esistenze. E poi quei 10 minuti, quegli ultimi 10 minuti.
Markarona Mijatovica
26. Mary Poppins (Robert Stevenson, 1964)
In pochi, probabilmente, menzionerebbero questo film fra i loro preferiti. Eppure, quando si parla di pellicole “importanti”, è difficile tenere fuori uno dei lavori simbolo della Walt Disney, forse il più famoso di sempre. Il significato culturale, estetico, tecnico, di Mary Poppins, va molto oltre il semplice gusto cinematografico. Questo è un film che ha rivoluzionato la storia del cinema, con le sue coreografie, gli effetti speciali, le scenografie, la recitazione, trasformando in maniera definitiva l’idea di “cinema per ragazzi”. Mary Poppins combina il meglio della fantasia animata a momenti di azione strepitosi. Ma non solo. E’ un film sofisticato, elegante, passionale, con un cast di attori che si muove sinfonicamente e una Julie Andrews semplicemente dell’altro mondo. E non mi dimentichiamoci la cosa più importante: supercalifragilistichespiralidoso!
Miltonante Maiketchuosuel
25. The Cremator (Juraj Herz, 1969)
Kopfrkingl è un uomo di famiglia mite e inquietante. Dirige un crematorio con lucida dimestichezza, ma viene risucchiato via dalle influenze antisemite dell’ideologia nazionalsocialista, idee che si combinano con visioni deliranti che lo portano a progettare piani diabolici per la sua famiglia.
Ma The Cremator è molto di più che quattro righe a compendio della trama. Questo è un film monumentale, un’ossessione meravigliosa di inquadrature distorte e personaggi ambigui, che si distendono dentro un fortunatamente interminabile crescendo di lugubre passione. Viene spesso etichettata come commedia nera, ma è in verità la rappresentazione stilisticamente perfetta di un incubo, un horror psicologico in cui esplodono, quando a contatto, i toni morbidi della surrealtà e le atmosfere infernali, nei luoghi e nella mente, che si ripetono.
Morino Moridonbi
24. Il Sorpasso (Dino Risi, 1962)
La commedia all’italiana sembra ormai un piatto tipico. Che si accoda alle campanilistiche tendenze del Bel Paese.
Scopare, da dove viene? Perché significa amplesso, coito, copula? Qualche idea arriva dal latino, che di greco ha tenuto la cultura (Saffo ad esempio), poiché col manico della scopa si arriva a pulire gli anfratti, angoli o pertugi (e non v’è alcun bisogno di proseguire).
Commedia all’italiana e scopate (o scopare), le accezioni divengono sinonimi, tanto nell’intenzione quanto nel guaido volere, nell’intenzione dell’italiano focoso e sempre pronto, in cerca, cacciatore di amplessali intenti o qualsivoglia velleità.
Ne Il sorpasso (Italia, 1962) il regista lombardo guida uno stile di vita post bellico di una borghesia per nulla alla ribalta, anzi, di una borghesia che torna ad essere, diciamo pure guittescamente, ciò che era: guascona e individualista. Chiaro, conoscendo Risi attraverso le interviste e chi l’ha conosciuto: il personaggio di Bruno rappresenta egli stesso, viveur e godereccio, tanto per dirla alla romana.
Ma perché sceglie Roma come sfondo, come scenografia? Roma è la dolce vita, Roma è la città bellissima e arrogante, vuota e allo stesso tempo impura, imperfetta; Roma è la vita che presta le proprie vestigia antiche, fatta di strade e sempreterni sassi, alla spasmodica ricerca del presente verso cui ogni borghese è incline.
A detta di Risi l’italiano medio è arrivista e qui nasce la metafora del sorpasso, la velocità di arrivare ovunque e a ogni costo. L’italico medio, che si definisce un perditore (sconfitto) di successo, che tra intrallazzi di vita e la simpatia dei modi riesce a sopperire al peccato della disfatta, cattolica e ipocrita mancanza di successo; un anti-americanismo (self made man) che ci riguarda: gli italiani hanno, come distrazioni contro la famiglia moralmente giusta, macchine veloci e fregna: scopate, tanto per intenderci.
Vivono di velocità e sorpassi, generazioni senza storia, combattenti e perdenti di fronte alle colpe dei padri. Intrisi di un presente che vede il tempo un unico presente senza futuro: l’età più bella è quella che uno ha fino a che non schiatta.
Proviamo a non essere d’accordo, proviamoci adesso dopo tutto ciò che ci hanno imposto.
Proviamoci adesso, se ci riusciamo.
Antonello Pesce
23. Repulsion (Roman Polanski, 1965)
Si aprono crepe. Si aprono crepe nei marciapiedi della città. Si aprono crepe nelle pareti, che divengono poi spaccature sempre più grandi, capaci di inghiottirti. E si aprono crepe nella mente dell’uomo, che poi diventano abissi.
Carol, giovane belga trasferitasi a Londra e impiegata in un negozio di manicure, è tanto attraente e ingenua quanto mentalmente instabile. Respinge il ragazzo innamorato e respinge le avances di qualunque uomo. Non le tollera. Non tollera neppure le visite occasionali dell’amante della sorella, neppure la semplice presenza del suo spazzolino da denti in bagno.
È repulsione per il sesso, quella di Carol, certo. Ma è anche, più nel profondo, repulsione per qualsiasi aspetto della fisicità. Carol è travolta dalle percezioni, che, attraverso quelle crepe della mente di cui si diceva, la colpiscono con un’immediatezza insostenibile. Si tratta di percezioni legate alla sfera sessuale, ma non solo. Così sono per lei intollerabili i gemiti di godimento della sorella nella camera accanto, ma pure il ticchettio della sveglia, lo scampanellio del vicino convento, le gocce d’acqua che cadono dal rubinetto e persino l’allegra musichetta dei tre mendicanti per strada. Tutto è amplificato in una ripetitività che diviene ossessione.
Intanto anche la realtà visiva si deforma, allungandosi e assottigliandosi: si dilata nelle dimensioni, ma perde di consistenza, tanto che le pareti non offrono resistenza al corpo e mani si protendono dai muri ad afferrare la ragazza. Carol alla fine, si ripara sotto il letto, per sfuggire ai suoni e alle immagini.
Le novizie giocano allegre nel convento, luogo di una (illusoria) protezione dall’attacco dei sensi, mentre Carol, sopraffatta, precipita nel nulla.
Elisa Leonzio
22. Le mani sulla città (Francesco Rosi, 1963)
Ho provato a raccontare Le mani sulla città a un amico scozzese. La prima cosa che mi è venuta in mente di dire è che si tratta di un film tremendamente attuale sulla mentalità politica italiana. Mi sono resa conto di quanto sia facile parlare di speculazioni, potere fine a se stesso, amministrazioni avvelenate, popolo che dà voti in cambio di promesse. Perché è la realtà sociale italiana di oggi, tale e quale. E se parlarne è stato facile, non so quanto io sia riuscita a farlo comprendere fino in fondo a un uomo cresciuto in un paese anglosassone. Portarlo con le parole a Napoli, nelle strade chiassose dopo il crollo di un palazzo e nelle stanze del Comune dove si decide cosa è legale e cosa non lo è. Dove le questioni morali non sono mai all’ordine del giorno. Alla fine del lungometraggio di Francesco Rosi c’è una didascalia: “I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”.
Dal 1963 non è cambiato niente.
Solo, se fosse stato girato oggi, sarebbe un film a colori.
Domenica Morabito
21. L’appartamento (Billy Wilder, 1960)
Shut up and deal!
L’appartamento è la culla/prigione di C.C. Baxter, colletto bianco pavido che riscopre se stesso e quindi l’umanità attraverso l’amore.
Questo film è stato una felice scoperta. L’ho snobbato e scopro che in tanti e ancora più scimmiati di me nel cinema avevano fatto lo stesso. È uno di quei grandi film che non si fa riconoscere subito, ma che rimane ambiguo, almeno nella prima parte, per poi far mergere un retrogusto amarissimo. Un regista, Wilder, che amava andare contro le convenzioni di Hollywood, è riuscito a raccontare un dramma attraverso gli stili della commedia, alleggerendo i meccanismi narrativi e mai i toni della materia.
In queste sensibili e segrete alchimie, annegate tra le pieghe del racconto e quindi del tutto assimilate alla struttura dei suoi film, sta la grandezza del regista: un genio disancorato dalle convenzioni, libero pensatore di un cinema dalle radici antiche e dall’impianto sempre assolutamente moderno. Mancano come panda gli artisti così. Cerchiamo di goderci ogni secondo personaggi che possono anche sbagliare, come Tarantino, Nolan, Lynch, Noè e altri liberi pensatori, perché quando si stuferanno o non ci saranno più, sarà un mondo meno libero, meno fantasioso. E meno innocente.
Amerigo Biadaioli
20. Dry Summer (Metin Erksan, 1964)
Ci sono film che non vengono considerati “grandi” solo perché non hanno avuto il privilegio di essere adeguatamente distribuiti. Il pubblico, in questi casi, non ha voce in capitolo.
Ecco, Dry Summer fa parte dei grandissimi film, un lavoro che deve un mancato riconoscimento di grandezza, accanto a capolavori come Ladri di biciclette, Morte di un ciclista, L’albero degli zoccoli (per indicare tre film con cui, in maniere molto diverse, Dry Summer ha delle contingenze), solo perché non considerato all’altezza degli incassi che una pellicola, a quell’epoca, avrebbe dovuto garantire per poter essere mandata in giro per l’Europa.
E dire che vinse l’Orso d’Oro al Festival del Cinema di Berlino. Ma non servì a molto.
Delle tantissime cose splendide che potrei raccontare di questo film, ce n’è una che mi prende dentro.
E’ la descrizione impetuosa, potente, della campagna turca degli anni’60. Un quadro cinico e duro di uno sperduto villaggio dell’Anatolia centrale, girato in un bianco e nero granuloso, con un protagonista scolpito nella roccia scura emersa dalla terra. Te li senti addosso, il sudore e le mani di Osman. Non te lo dimentichi, Osman.
Mecoride Montologici
19. Easy Rider (Dennis Hopper, 1969)
Nato da una idea di Peter Fonda e Dennis Hopper, Easy Rider racconta la storia di due motociclisti, il più riflessivo e introverso Wyatt (Fonda) ed il più instabile ed allucinato Billy (Hopper). Inutile dirlo, i due nomi sono un omaggio a Wyatt Earp e Billy The Kid ed effettivamente l’intero film è un western moderno su due ruote. Due outlaws in giro per gli USA in sella alle loro Harley Davidson, destinazione New Orleans per il Mardi Gras. Un viaggio caratterizzato da incontri bizzarri, paesaggi mozzafiato, droghe, arretratezza, violenza e George Hanson (interpretato magistralmente da Jack Nicholson).
Il candore di George si muove in direzione opposta alla fine che fa, ucciso a bastonate, senza colpa alcuna, da un gruppo di bifolchi. La stessa fine la faranno Wyatt e Billy, uccisi a fucilate sulla strada per la Florida.
Ci sarebbe tanto altro da dire sul film. La sceneggiatura praticamente inesistente (tanti dialoghi sono per lo più improvvisati), il chilo di marijuana acquistato dalla produzione (pare che ogni droga che si vede nel film sia “autentica”….e la faccia di Jack Nicholson mentre parla attorno al fuoco ne è una prova lampante), l’utilizzo di persone comuni per girare la scena nel bar (sembra che Hopper volesse far durare la scena oltre trenta minuti, perché le gemme regalate dagli autoctoni erano numerose e notevoli). Perché Easy Rider, per me, è questo. Non un film sulla ribellione e la libertà, ma un lavoro simbolo della fine di un’epoca.
Girato nel ’68 ed uscito nel ’69, il film coglie perfettamente la fine degli anni sessanta e la perdita dell’ingenuità che li aveva caratterizzati.
Menzione d’onore al direttore della fotografia, Laszlo Kovacs, ed alla colonna sonora, superba.
Marruca Incassato
18. Z – L’orgia del potere (Costa-Gravas, 1969)
Intanto è un film che ha un valore storico enorme, perché si tratta del primo vero lavoro che racconta la dittatura dei Colonnelli, al comando in Grecia dal 1967 al 1974. Ma si va molto oltre le etichette in questa pellicola di Costa-Gravas. Film politico, certo. Ma thriller prima di tutto, con un ritmo serratissimo, una sceneggiatura perfetta, attori scelti con un’attenzione maniacale, in ogni piccolo ruolo (un titanico Jean-Louis Trintignant, una maestosa Irene Papas, un contenuto Yves Montand e tantissimi altri), e un seguito di avvenimenti che si rincorrono sullo schermo e lasciano con il fiatone addosso. Z è eccitante, tonico, quasi sibaritico nel suo eccesso di volume cinematografico. E dimostra una cosa molto importante: si può fare cinema impegnato, alto, d’autore, senza dover rinunciare alle prerogative tipiche del film di genere d’azione. Z contro le dittature, Z contro i fascismi, Z che racconta senza paura e arriva a un pubblico di massa. Una curiosità: i colonnelli greci non autorizzarono le riprese, così il film venne girato in Algeria, grazie all’interessamento di uno degli attori, Jacques Perrin. Z quell’anno vinse l’Oscar come miglior film straniero: l’unico della storia per il paese maghrebino.
Munzio Mingeri
17. La notte (Michelangelo Antonioni, 1961)
La Notte è una concrezione di momenti (s)fortunati che passando per un attimo di libertà e respiro, tornano a mettere l’eroe in catene dorate. Giovanni Pontano è uno scrittore di successo che sta facendo i conti con un blocco creativo proprio nei giorni in cui il suo nuovo romanzo viene presentato al pubblico. Fin qui niente di esotico, da che mondo è mondo la sindrome dell’impostore segue ogni scrittore (o wannabe) con fedeltà morbosa. Quella stessa notte Pontano cerca di risollevare il greve con il lieve e insegue un divertimento dietro l’altro. Un cabaret in cui una bellissima donna si spoglia con suspense, mentre rotea intorno a un bicchiere di vino che tiene in equilibrio sul capo, e poi una giovane Monica Vitti che fa le fusa su una scacchiera a grandezza umana e sfugge perché sa che Pontano vuole prendere, non vuole che gli si offra.
Tutto ciò che è alla sua portata è fonte di noia. La fama, il denaro, i soldi di una moglie raffinatissima e ricca.
Questa Notte è un momento di perdizione in cui Pontano è istintivo, svecchiato – direi possibilista.
Ma quando il giorno torna, il piano della perfezione riacquista i suoi contorni ben definiti.
Il bacio risveglia il principe e lo riporta alla sua noia quotidiana.
Giorgia Bernardini
16. Frank Costello faccia d’angelo (Jean-Pierre Melville, 1967)
Agli inizi del Novecento un medico scozzese trovò un sistema semplice e macabro per rivelare in anticipo le fughe di monossido di carbonio che provocavano vittime tra i minatori: portare nelle miniere dei canarini in gabbia. Per via del loro metabolismo, questi uccelli hanno bisogno di tantissimo ossigeno. E nel caso di una fuga di monossido sarebbero morti molto prima degli uomini. L’interruzione del loro canto era il segnale d’allarme.
Il samurai è un lupo solitario, che della realtà raccoglie solo i segnali necessari a determinare le proprie azioni. Non c’è spazio per altro. L’emozione è assente e gli occhi di Alain Delon fissi. In una camera-tana che sembra in bianco e nero, anche se il film è a colori, ha anche lui un canarino in gabbia.
Non un vezzo, ma una sentinella.
Fedele all’impermeabile e al fedora, conosce perfettamente il territorio in cui si muove e sa far perdere le proprie tracce senza bisogno di camuffarsi. “Perché si è tagliato i baffi?” recita con tono intimidatorio il commissario. “Non li ho mai portati in vita mia”. Gli crediamo. E in quello scambio di battute si affrontano due diversi approcci al mondo.
Ma la fedeltà al personaggio e ai suoi codici è il vezzo di cui forse non sa liberarsi. E il mondo è dei branchi, non dei solitari.
Ivano Talamo
15. La battaglia di Algeri (Gillo Pontecorvo, 1966)
La battaglia di Algeri è un film complesso, crudo, spietato, ma che si snoda attraverso gli sguardi: il primo, disperato, è quello di Sadeq, appena “nazionalizzato” dopo un brutale interrogatorio. Ha perso se stesso, non gli resta niente, se non una divisa militare nemica e piaghe sul petto.
Il secondo sguardo è quello del Colonnello Mathieu durante la parata di arrivo ad Algeri: gli occhi sgranati, risoluti sotto gli occhiali fumée, ci fanno rabbrividire e intuire quelli che saranno i metodi per arrivare a controllare la casbah.
Gli ultimi sguardi sono quelli incrociati, lontani ma vicini, della popolazione algerina e di Alì La Pointe prima di andare incontro al suo destino: rabbia e disperazione per una battaglia persa, con la consapevolezza che altre ne verranno e la guerra sarà lunga.
Quattro anni di preparazione e riprese, quasi ottocentomila tra comparse e membri della troupe impiegati durante la realizzazione, rendono solo in parte l’idea di un film in cui la ricostruzione della verità e il realismo sono le colonne dell’idea del regista Pontecorvo. E poi i retroscena, forse leggendari, che riportano la pellicola come documentario usato da Black Panthers e IRA per addestrare i propri affiliati alla guerriglia urbana.
La vita, così come il cinema, è talvolta ciclica: molti anni fa ho visto per la prima volta “La battaglia di Algeri” perché avevo letto che era fondamentale vedere “La battaglia di Algeri”; a distanza di anni sono io a consigliare di vederlo perché sono convinto sia davvero necessario.
Francesco Somigli
14. Persona (Ingmar Bergman, 1966)
Parole crudeli e arroganti, lette di nascosto nell’abitacolo di un auto.
Rabbia. Ora provo solo una profondissima rabbia davanti alla lettera insensibile e giudicante che la paziente invia alla sua psichiatra, a discapito della povera infermiera. La paziente è un’attrice di successo, che all’improvviso è diventata muta, ha rinunciato alla parola e alla comunicazione, ma solo a metà.
Non parla, ma scrive. Comunica, ma non permette il confronto. Le sue parole così sono saette e hanno il carattere dell’assoluto. Parole cattive. Sono forse l’estremo tentativo di evitare e non permettere il contatto?
Perché ha lasciato la busta aperta? Era forse il tentativo di allontanare da sé qualcuno che in qualche modo si stava avvicinando?
Il doppio legame ci sommerge. Il volto impassibile, ma mitigato da sorrisi e gesti di vicinanza e compassione. “Il volto è dolce, ma lo sguardo severo”.
Il doppio legame è quel meccanismo psicologico, indagato da Gregory Bateson, per cui la comunicazione fra due persone con una forte connessione emotiva è inficiata da un’incongruenza tra il livello verbale (in questo caso la lettera) e quello non verbale, lasciando il destinatario del messaggio disorientato. Un doppio legame che annienta la giovane infermiera.
Ragionando su Persona sarebbe stato interessante parlare di identità, dell’impossibilità di avere confini definiti, dell’ambiguità insita nel concetto di verità e autenticità.
A me, però, quella lettera provoca un’immensa rabbia, che mi inficia il pensiero.
Stefano Boring
13. Il gattopardo (Luchino Visconti, 1963)
Visconti porta sul grande schermo il romanzo di Tomasi di Lampedusa con tutta la maestria fotografica che lo contraddistingue. I dialoghi che si consumano negli interni sono dei veri acquerelli di scene di vita aristocratica opulenta e al tempo stesso decadente. Eppure anche nella rifinitura dei protagonisti – Burt Lancaster, calato benissimo nel ruolo del vecchio nobile pure al culmine di una carriera fatta di film di gangsters, working class e guerra – c’è una vistosa perdita del sentiero. Il film tenta di riassumere le grandi contraddizioni che la Sicilia vede nel passaggio dal sistema aristocratico borbonico e agrario feudale a quello agrario-capitalistico e latifondista dell’Italia unificata sotto l’egida sabauda. Il vecchio Don Fabrizio gioca il ruolo del personaggio del vecchio ordine consapevole e disilluso, che asseconda le smanie di grandezza del nipote Tancredi per tramandare nel nuovo ordine ciò che rimane del precedente. La sua figura di nobile “morale”, che parte della pellicola sembra voler far trasparire, cozza continuamente con il suo stanco e realista adattamento al rampantismo che gli cresce intorno, tra affaristi privi di scrupoli e personaggi in odore di mafia. La vecchia nobiltà non è affatto innocente rispetto a quanto accade, e il gran rifiuto del Principe di candidarsi al Senato del nuovo Regno, appare un ipocrita dolersi di un cambiamento che non arriva mai e che lui medesimo sta contribuendo a rendere non possibile. La costante della pellicola che ne risulta è l’assenza di un soggetto votato al miglioramento o anche solo a rompere gli schemi dei rigidi ruoli sociali. Solo Angelica e l’amore per Tancredi, appaiono una fonte di sincera genuinità umana, in mezzo ad un palcoscenico gremito di maschere.
Federico Giamperoli
12. Gli uccelli (Alfred Hitchcock, 1963)
“Vedi le Città: è per i nemici, non per gli amici, che hanno imparato a costruirsi sudando mura gigantesce e a procurarsi navi da guerra.“
Aristofane, Gli uccelli, 414 a.C.
Terzo film di Hitchcock adattato dalla penna di Daphen de Murier. Si parte con Melania Daniels (Tippy Hedren) che si reca nella quieta Bodega Bay per ritrovare Mitch Brenner (Rod Taylor, conosciuto in un negozio di animali). E poi, senza motivo, senza spiegazione, l’apocalisse. Superba prova di amplificazione di ipotesi reale. Dopo aver inventato il thriller moderno con Psycho, Hitchcock crea il “natural disaster movie” con un’opera che racconta la fragilità degli esseri umani e il ritorno alla radice instintuale per riconnettersi con la natura. Black Mirror è un lavoro grandioso, ma 50 anni fa c’era già qualcuno che ci urlava quanto siamo disabituati e affamati di dialettica autentica, che stia al passo dell’immediatezza animale e della natura. (Sì, esatto, lo pensi anche tu, è quella roba lì, sta tutto lì). Ogni santissima volta che mi siedo all’aperto e vedo uno o due uccelli di qualsiasi genere a riposo su un filo o su qualsiasi punto di appoggio, mi vengono dei piacevoli brividi. Non credo esista una persona con un minimo di conoscenza di questo regista a non aver avuto questa sensazione.
Girarsi da una parte.
Stacco.
Gli uccelli sono 10.
Stacco.
Gli uccelli sono 100.
Stacco.
Sedersi su una panchina e osservare qualche volatile non è stata più la stessa cosa. Solo Povia, forse, qualche anno fa mi ha tranquillizzato. Mi ha ricordato che l’umanità è fatta di idioti: sì, vivere senza essere Hitchcock e, negli uccelli, non vedere la fine del mondo.
Amerigo Biadaioli
11. Per un pugno di dollari (Sergio Leone, 1964)
Dal 1964 il film con la colonna sonora più fischiettata della storia del cinema, Per un pugno di dollari è il capolavoro che anche per i profani del genere rappresenta il Western con la maiuscola.
Iconico, appartenente alla Trilogia del Dollaro, ha rilanciato il genere Western – o meglio Spaghetti Western – in Italia, e non solo. Rappresentazione massima estetica del genere – coi suoi paesaggi, i casolari bianchi, la Taverna – grazie all’occhio di Sergio Leone, e mito musicale attraverso le note di Ennio Morricone, genio indiscusso e maestro assoluto delle sonorità western.
Le musiche non solo conferiscono ritmo, ma costituiscono significato e si fondono perfettamente col linguaggio “alla Hemingway” – non una parola al di là dell’essenziale – lasciando lo spettatore incollato fino all’ultimo minuto, anche quando il film lo si conosce a memoria dall’età di 5 anni.
In sé è la narrazione del concetto di “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto”: due famiglie rivali, un villaggio, tanto oro, tensione, Marisol, rivalità, un Gringo stratega (un giovanissimo Clint Eastwood dallo sguardo penetrante) ed un becchino dall’occhio allenato a prender le misure.
Non il pioniere degli Spaghetti western, ma certamente il Pilastro.
“Divertiamoci! Finchè siamo vivi”.
Luisa Barbero
10. Rosemary’s Baby (Roman Polanski, 1968)
Roman Polanski ha vinto con il suo nuovo film il premio César di quest’anno, l’equivalente dell’Oscar francese, e la cosa ha, per le accuse e i reati che lo riguardano, scatenato un’ondata di proteste. La regista Céline Sciamma, non appena la vittoria di Polanski è stata annunciata, è scattata in piedi gridando “Bravo la pédophilie!” e uscendo immediatamente dalla sala, furiosa, seguita da altri ospiti, anch’essi indignati. E’ giusto che un uomo giudicato colpevole di violenza sessuale, e che per di più si sottrae alla pena, vinca un premio rinomato come il César? Il premio va all’uomo, o alla sua arte? Dovremmo boicottare i suoi film? Secondo Sciamma, dare il premio a Polanski è come dire che violentare le donne non è in fondo una cosa così disdicevole. Io credo lei abbia ragione.
Ciononostante, le colpe non possono essere pregresse. Rosemary’s Baby è un film del 1968, e qualunque sia la nostra opinione sul premiare un regista colpevole, non credo sia giusto estendere questa sua colpevolezza agli anni che precedono i reati che lo riguardano, perché fino a prova contraria all’epoca Polanski era ancora innocente. Siamo portati a credere che questo suo film parli di satanismo, “witchcraft” come dicono in lingua originale, tradotto in italiano come “stregoneria”.
In realtà, e sorprendentemente, è un film davvero interessante soprattutto per come mostra la completa, assoluta, soffocante vulnerabilità di una donna in un mondo in cui il potere è gestito dagli uomini: e forse sarebbe naturale domandarsi se, col senno del poi, quest’aspetto dei rapporti uomo-donna Polanski lo conoscesse già bene. Rosemary – una giovanissima Mia Farrow – è quella che si può definire in tutto e per tutto una “brava ragazza”. Innanzitutto è molto bella, il che non guasta mai. Di quella bellezza però che caratterizza le donne “giuste”, quelle da sposare: è fine, vestita sempre in modo elegante e sofisticato, ma mai eccessivo; è gentile, ha un tono di voce e un modo di parlare dolce e delicato, sorride ai vicini anche quando sono invadenti e ficcanaso, prepara a suo marito gli spuntini quando rientra a casa dal lavoro e gli salta al collo dalla felicità ringraziandolo di affittare la casa che piace a lei, come se fosse una concessione. La sua vulnerabilità è dovuta anche al suo buon cuore: lei non sospetta mai di nessuno ed è pronta a dare la sua piena fiducia a chiunque, anche alle persone che non la meritano. Quando finalmente, dopo un grande patire, si rende conto che quasi tutti quelli che la circondano sono marci e la usano, non c’è modo per lei di uscirne: si trova stretta dalla morsa di una macchina che la obbliga a essere sottomessa e mai le concederà quei diritti che sono invece legittimamente suoi. È la sensazione di totale soffocamento e rabbia che si prova quando si capisce che Rosemary non ha alcuna via di fuga che secondo me rende il film una grande pellicola: quando ci fa percepire la completa impotenza, la bruciante disperazione e la grandissima rabbia che si prova nei confronti di un sopruso che nessuno è pronto a riconoscere come tale. Proprio quel tipo di ingiustizia che spesso, in una società patriarcale, avviene a spese delle donne, come gli stupri e le violenze sessuali.
Virginia Patrone
9. Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966)
È un decennio strano, quello degli anni ’60. Io sono che nata nella seconda metà degli anni ’80, ho spesso fantasticato di aver vissuto nel decennio cattivo e incredibile degli anni ’70. Gli anni ’60, invece, no. Sospesi fra il benessere puritano e conformista del decennio che li ha preceduti e la virulenza e il fervore politico che li ha seguiti, è un decennio che, io che non posso ricordarlo, ho difficoltà a comprendere. Osservo la produzione musicale, cinematografica, la moda, la cultura pop. E c’è qualcosa di, non so come dire, estremamente votatile, inafferrabile, che è privo di climax e non si esplicita mai: eppure mi dice qualcosa. Un che di superficiale e al tempo stesso profondo, relativo ad un infinito che non si vede mai. Un implicito interrogativo di senso che, non venendo mai formulato, non solo non riceve risposta, non solo non viene mai neanche pronunciato: non si realizza mai. Ma chi, fra i grandi artisti, lo ha sentito, questo interrogativo di senso, cosa può aver provato? Quello smarrimento sfuggevole e inafferrabile, io credo, che lascia Blow-Up (1966), il grande capolavoro di Michelangelo Antonioni.
Ispirato al racconto di Julio Cortazar “La Babas del Diablo”, vincitore della Palma d’Oro, Blow-Up è uno strano film fra il surreale e il misterioso. Un film, in realtà, filosofico ed esistenzialista. Thomas (David Hemmings), un fotografo londinese di moda che indulge nelle licenze di comportamento che si accordano agli artisti glamour (promiscuità sessuale, ménage à trois, atteggiamento arrogante e violento nei confronti delle modelle), si convince di aver colto in foto un tentato omicidio. Si lancia quindi in un’indagine. Ma più va avanti nelle ricerche, più la realtà gli sfugge: si scompone, sparisce alla vista. O forse, semplicemente, diventa sempre più banale.
Thomas cerca un senso chiaro, una risposta. Ne è del tutto inconsapevole, ma lo fa sempre, in tutto: cerca una sincera eccitazione sessuale (ma non la trova – il ménage à trois non va un granché e lui si addormenta); vuole essere davvero temuto e alza la voce con le modelle (ma loro – finte e surreali nelle loro ciglia lunghissime, nei loro abiti coloratissimi e assurdi, nella loro sensualità esagerata ed esibita – rimangono impassibili: non gliene frega niente); vuole scoprire il mistero della foto, vedere chi ha salvato e da chi. Vuole scoprirsi un eroe, un fotografo che non è solo glamour, ma un artista che vale la pena stimare.
Invece, alla fine, trova solo un gruppo di mimo. Hanno il viso coperto da una maschera bianca. Siamo tutti così, alla fine: in verità, siamo tutti uguali. Se si tolgono le ciglia finte e si smette di recitare la parte dei fotografi di successo, non siamo niente di speciale. I mimo, in un campo a caso, giocano a tennis. Non c’è pallina, non c’è racchetta. Loro mimano, e c’è il tennis. Ci sono loro che fanno finta. Se Thomas decide di credergli, può perfino sentire il rumore della pallina. E lo fa, alla fine. Lo facciamo anche noi.
Enrica Fei
8. 2001: Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968)
Ci sono alcuni film nella storia del cinema che, per i temi che affrontano, sono delle straordinarie occasioni per accedere a contenuti altamente filosofici attraverso la rappresentazione cinematografica.
Ci sono stati filosofi nel passato – Schopenhauer, Nietzsche, Kierkegaard, Heidegger, la tradizione ermeneutica – che sono più di altri andati al di là della razionalità puramente logica a indagare aspetti del mondo che non sembrano essere percettibili senza l’apporto dell’elemento affettivo. In questo senso il cinema offre un linguaggio più appropriato rispetto alla parola scritta. Il filosofo argentino Julio Cabrera parla di «comprensione logopatica», al tempo stesso razionale e affettiva, e distingue i concettidea, quelli della filosofia scritta, dai concettimmagine, i “concetti visivi” espressi dal cinema. 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, uscito nel 1968, è sicuramente uno dei film più speculativi mai realizzati. Il film fu scritto insieme allo scrittore Arthur C. Clarke, che nello stesso anno fece uscire l’omonimo romanzo. Lo stesso Kubrick ebbe modo di dichiarare più di una volta che a lui interessava molto di più la percezione che gli spettatori avevano avuto delle cose, piuttosto che la rappresentazione delle cose stesse. Per Cabrera, tutta la prima parte del film, interpretata solo da scimmie, si può vedere come un unico concettimmagine della nozione di “Rapporto con l’intelligibilità del mondo”.
Alessandro Borscia
7. 8½ (Federico Fellini, 1963)
«Vuoi vedere un film assieme?»
«Tipo?»
«Un film italiano che non hai visto. Uno di cui parlano tutti.»
«Non lo so: 8 e 1/2?»
«Su ImdB?»
«No, è il titolo del film.»
Dopo tre minuti di traffico romano e stridii in bianco e nero, il mio coinquilino ha lasciato il salotto; è andato nella sua stanza a sedare la confusione con Conduct Together, un videogioco sui treni dove tutto scorre. I vagoni si fermano, raccolgono passeggeri, vanno alla prossima stazione, il giocatore accumula stelle in meno di tre minuti; ogni traguardo è corredato di fanfare. Io, invece, il salotto non l’ho lasciato.
A visione finita non posso che pensare che proprio niente, sulla faccia della terra, sia più distante dalla scena di apertura di 8 e 1/2 di Fellini che questo gioco. Il film che ha spaventato i buoni propositi del nostro appartamento si apre con una sequenza di cacofonie e claustrofobie varie.
Si vede Guido Anselmi, un regista asfissiato dai suoi stessi pensieri, che abbandona la gravità dei frastuoni urbani per librarsi nel cielo, in cerca di ispirazioni che però non arrivano. E mentre si svincola dagli obblighi della realtà materiale, qualcuno gli ricorda i suoi doveri di regista: un avvocato afferra la sua caviglia con una fune, e consegna l’inerme Guido al suo produttore cinematografico, pronto a tirarlo «giù, giù definitivamente».
Ma è tutto un sogno: o meglio, un incubo, che non finisce mai e non ha mai risoluzione nella realtà.
È con il più classico dei cliché narrativi – l’incipit onirico – che si apre il magnum opus di Fellini, abile tessitore capace di permettersi qualsiasi lusso tecnico, anche l’inizio scontato con un finto sogno. Bastano poche scene per mettere a disagio lo spettatore, costretto a navigare tra immagini surreali (che in questo film sono tante), le donne della sua vita, i suoi timori d’artista, sogni, realtà e una struttura narrativa convoluta.
8 e 1/2 non è un film facile: né da vedere, né da spiegare.
È un film intriso soprattutto di egoismo, nel senso più puro del termine: è uno specchio deformato dei tormenti interiori di una persona sola. Un artista che vive delle sue menzogne, delle relazioni con le persone che ha amato e che lavorano per lui, della sua ingenua fame di attenzione, di insoddisfazione, ingenuità e stanchezza. Il film è egoista anche nelle immagini indulgenti con cui questi tormenti sono resi; vuole disorientare, intenerire, far patteggiare con i personaggi solo per il gusto di farlo. Un carosello di figure si alterna tra una scena e l’altra, prima della fatidica conferenza stampa finale: 8 e 1/2 è, stilisticamente, un festival di bizzarrie.
Intrappola e libera al tempo stesso.
Libera perché è originale ed espressivo; intrappola perché si prende spazio e non risolve niente. Assorbe tutta l’attenzione dello spettatore senza preoccuparsi dello stordimento, è un film che vuole essere visto e ascoltato, ma non ammirato; un film che vuole insediarsi nella testa di chi lo guarda. Paradossalmente, l’effetto del film tradisce l’obiettivo del suo protagonista: Guido vorrebbe fare «un film onesto, senza bugie di nessun genere», un film capace di seppellire «tutto ciò che di morto ci portiamo dentro»; ma il risultato è un film sul fallimento e sui rimpianti, fatto di persone, pensieri ed emozioni passate, artificioso, che finisce per «non avere il coraggio di seppellire proprio niente».
Se c’è un film che non è per tutti, è proprio questo.
Vuole essere una commedia grottesca, ma si prende sul serio a intermittenza. Mischia meta-narrazione e psiche come nessuno aveva fatto fino ad allora: è un film sul fare film, fatto da chi fa film mentre pensa alle persone della sua vita, e le deforma nel raccontare le loro storie.
Il cinema adesso è un’arte più che centenaria, i gusti moderni sono cambiati; dagli auteur si è passati ai franchise che devono piacere a tutti; dalle serie ripetitive, adesso si privilegiano archi narrativi che si protraggono per stagioni intere, innovativi per tematiche, ma inevitabilmente scorrevoli per facilitare il binge-watching.
Se molti cineasti hanno sperimentato, però, è anche merito dei lasciti di questo film, un esperimento rischioso creato da artisti al top del settore: il suo coraggio ha influito su generazioni di cineasti. Insomma: 8 e 1/2 è un film da vedere soprattutto per il candore con cui affronta i suoi temi e per come gioca col linguaggio visivo. Per come dice tutto e non spiega niente. È forse il film più influente degli anni Sessanta: sfugge le definizioni, e anche io ho faticato a riassumerne l’essenza. Chi ama il cinema non può non concedersi un paio d’ora nella vita di Guido.
A chi preferisce giocare ai treni o divorare Netflix, 8 e 1/2 non ha molto da dire; per chi riesce ad abbandonarsi al suo circo, 8 e 1/2 può rivelarsi un atto d’anarchia.
Djo Žalpya
6. Il dottor Stranamore (Stanley Kubrick, 1964)
“Io cammina!”, ecco come ho conosciuto Il Dottor Stranamore.
Era la fine degli anni ’90, mi avvicinavo ai vent’anni e cominciavo a scoprire e a definire la persona che sono adesso con la filmografia, tra le altre cose.
Avevo un amico scemo che ogni tanto urlava questa frase, che io non capivo. Poi ho chiesto: “ma che farnetichi?” e lui mi ha detto: “Io cammina!”.
Allora ho indagato, perche si sa che se vuoi una cosa fatta bene devi fartela da solo. E mi sono innamorata.
Di tutto: dei titoli di testa, quel dissoluto accoppiamento tra aeroplani; dei titoli di coda, con quella splendida canzone (We’ll meet again) che ti fa pensare a tutto tranne che alla fine del mondo; e di tutti i personaggi presenti nel film: presidenti, militari, alte cariche dello stato, gente infantile e inadatta a guidare un paese da una parte, folli frustrati e paranoici con manie di grandezza dall’altra.
Il Dottor Stranamore è datato 1964 ed è buffo – o inquietante – notare come molte delle macchiette rappresentate nella pellicola ci possano ricordare tanti personaggi politici e militari contemporanei.
Non mi stupirei se uno di questi giorni, leggendo il giornale, scoprissi che qualche grande stratega militare ha dichiarato alle folle: “Io cammina!”.
Elena Arcidiacono
5. Il buono, il brutto, il cattivo (Sergio Leone, 1966)
«Sin dall’inizio volevo parlare della guerra di Secessione, descrivere l’imbecillità umana in un film picaresco dove avrei mostrato anche la realtà della guerra. Avevo letto che centoventimila persone erano morte nei campi sudisti […]. Ma sapevo pure che i nordisti si erano comportati allo stesso modo. Si conoscono sempre solo le cifre della vergogna dei vinti. Mai quelle dei vincitori. Così, ho deciso di mostrare questo sterminio in una prigione nordista.»
È la voce di Leone in C’era una volta il cinema (Il Saggiatore, 2018), libro-intervista scritto con Noël Simsolo nel 1986.
Il ruolo principale è affidato a Clint Eastwood. «A quel tempo, Clint prendeva già duecentocinquantamila dollari. Includendo il suo cachet, Il buono, il brutto, il cattivo è costato un milione di dollari.» Eastwood all’inizio è scettico. «Dopo aver letto la sceneggiatura, mi ha detto: “Nel primo, ero solo. Nel secondo, eravamo due. Qui siamo tre. Se continua così, nel prossimo sarò accompagnato da tutta la cavalleria americana”. In realtà, pensava che il ruolo di Tuco (interpretato da Eli Wallach) avesse troppa importanza.» Leone lo convince ad accettare la sceneggiatura così com’è ed è un bene, perché «il film ha avuto un successo fenomenale negli Stati Uniti e Clint è diventato una star».
Ma la gelosia di Eastwood non è infondata. «La mia simpatia più profonda va a Tuco.» racconta Leone «Dà una descrizione perfetta di sé nel battibecco che ha con il fratello […], quando gli dice: «Tu ti credi meglio di me, ma dalle nostre parti se uno non vuole morire di fame o fa il prete o fa il bandito. Tu hai scelto la tua strada, io ho scelto la mia. È la mia la più dura. […] E adesso sai cosa ti dico? Tu ti sei fatto frate solo perché sei troppo vigliacco per fare quello che faccio io». E suo fratello lo capisce, da buon cristiano all’antica. Arriva pure a scusarsi. Allora Tuco riparte, con quella meravigliosa idea della famiglia che gli infervora la mente.» E cosa fa?
«Dice al Biondo che suo fratello è un uomo meraviglioso».
Flavio Villani
4. Mamma Roma (Pier Paolo Pasolini, 1962)
E’ davvero difficile scrivere di Pasolini, del suo cinema, della sua poesia e della sua prosa. Tralasciando la grandezza di tutta la sua produzione, forse lo è perché tutto pare sia stato detto, dai critici e in prima persona. Sono state frequenti le sue esternazioni, sui temi più diversi, compresa la sua stessa arte, e il tragico contrappasso è stato il mistero della sua morte, che ancora oggi non ha colpevoli certi.
Potremmo quasi definire Pasolini un libro aperto, come la Roma rosselliniana, come le esistenze irredimibili e dalle fini tutte uguali raccontateci nei suoi primi film. Eppure resta tutt’ora la questione del suo conservatorismo eterodosso, che ne’ destra, ne’ sinistra riescono a spiegare.
Mamma Roma è il secondo lungometraggio di Pasolini, esce nel 1962, va al festival di Venezia, poi al cinema Quattro Fontane di Roma, dove avverrà pestaggio del regista da parte dei fascisti. Al centro del film, brilla la luce cupa di Anna Magnani, i suoi occhi che sono come un grande fazzoletto nero, incastonati nella luce accecante della periferia romana. Annarella è Mamma Roma, una prostituta in cerca di riscatto per il figlio. Anna è Giocasta, ma il suo Edipo non diventerà cieco: morirà in carcere, legato al letto, dopo aver saputo come si guadagna sua madre da vivere.
Pasolini amava invocare le forze del passato, come fa il suo Welles ne La Ricotta. E’ quella la stessa forza che risucchia i destini di Mamma Roma e di suo figlio Ettore? Che non gli consente di andare avanti, di fare il salto verso una nuova vita? Una forza alla quale bisogna abbandonarsi, pena la punizione per hybris, l’hybris sottoproletaria, suburbana, implacabile nel rivelarsi inadatta alle esistenze piccolo borghesi?
Sembrerebbe di sì: solo la tradizione è rivoluzionaria per Pasolini, che la ammanta di totale sacralità:
“i borghesi non amano nulla, le loro affermazioni di amore per il passato sono semplicemente ciniche e sacrileghe: comunque, nel migliore dei casi, tale amore è decorativo o monumentale, come diceva Schopenhauer, non certo storicistico, cioè reale e capace di nuova storia.”
La nuova storia che vorrebbe scrivere Mamma Roma per sé e suo figlio, è impossibile proprio per questa ragione: il borghese non ama la sacralità della vita, che è invece la cifra dei sottoproletari pasoliniani. Essi hanno una sola possibilità di riscatto: acquisire una coscienza di classe, profondamente storica, senza rinnegare la loro appartenenza alla vita inseguendo impossibili ideali.
Forse fu proprio per questa ragione che Pasolini non poté che scegliere la Magnani:
“Dall’aria di sfida di Anna, può nascere qualsiasi cosa: ma quello che ci si aspetta sempre, comunque, è che canti. Uno stornello. Di quelli vecchi, appena rinnovato da qualche allegra invenzione, e che finisce ridendo. Lei non può che esprimersi cantando, perché ciò che ha da esprimere è una cosa indistinta e intera: la pura vita, sua, e delle generazioni di donne romane che sono state al mondo prima di lei…”
Piera Ghisu
3. La dolce vita (Federico Fellini, 1960)
Non avevo mai visto veramente La dolce vita. Mai dall’inizio alla fine. Mai con lo sguardo critico di chi si ripropone di coglierne le sfumature, apprezzarne le eccellenze, farsi avvolgere dalla grandezza di quello che è considerato uno dei capolavori del cinema italiano.
In un angolo della mia mente, però, era rimasta (e credo resterà per sempre) l’immagine di una donna bionda, bellissima, un vestito nero ed una frase che riecheggia nello splendido sfondo della Fontana di Trevi: “Marcello. Come here!”
Marcello è Marcello Rubini, interpretato da un superbo Mastroianni, fotoreporter scandalistico che voleva fare lo scrittore. La donna, invece, è Sylvia (Anita Ekberg) un’attrice americana molto in voga in quel momento. Forse proprio per quest’immagine, quando mi è stato chiesto di indicare i migliori cinque film degli anni ’60, senza troppo arrovellarmi ho subito incluso La dolce vita nella mia lista.
Non è però un film facile La dolce vita. Non è uno di quei film su cui ti soffermi in un pigro pomeriggio mentre fai stancamente zapping dal divano.
Devi scegliere di vederlo. Devi dedicarti alla visione. Scegliere di lasciarti trasportare da Marcello nel suo peregrinare incessante nelle notti della “dolce vita” romana a cavallo tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, girando con lui per le strade della città eterna, tra ristoranti, feste sfrenate e caotica mondanità. Osservare con lui quell’umanità variopinta, caricaturale, sfacciatamente allegra ma, al contempo, drammaticamente vuota. Un’accozzaglia di volti a tratti surreale, circense: felliniana. Una giungla di vite ed anime di cui Marcello è, in fondo, inesorabile complice. Provate dunque ad empatizzare con questo antieroe, con questo vitellone disincantato ed insoddisfatto.
Innamoratevi anche voi per un breve attimo delle sue donne, condividetene l’effimero piacere della conquista, parentesi nella sua continua e stanca ricerca di un briciolo di felicità.
Solo allora avrete accesso alla dolce vita. Non biasimate però il nostro Marcello se vi sembrerà che l’agognata “dolce vita” lasci, alla fine, un retrogusto sfacciatamente amaro, in evidente contrapposizione rispetto all’immagine stereotipata che, specialmente all’estero, si associa paradossalmente all’espressione “dolce vita”.
Osannato ed odiato dalla critica e dal pubblico, La Dolce Vita ha fatto la storia del cinema. Le musiche di Nino Rota, la fotografia iconica di Otelli e la caratteristica regia di Fellini confezionano un’autentica pietra miliare che, esattamente 60 anni fa, conquistò la Palma d’oro a Cannes.
E se queste righe non vi bastassero, ne hanno scritto, di certo meglio, Moravia, Calvino, Pasolini. Non mi sembra dunque il caso di aggiungere altro.
Pier Attilio De Luca
2. Fino all’ultimo respiro (Jean-Luc Godard, 1960)
À bout de souffle esce nel 1960, a due anni di distanza da Le beau Serge, il film di Claude Chabrol col quale tradizionalmente si fa iniziare la Nouvelle Vague. Jean Luc Godard ha trent’anni, ha già subito un ricovero psichiatrico per cleptomania, e bazzica la redazione dei Cahiers du cinéma di Andre’ Bazin, insieme tra gli altri, a François Truffaut, al quale chiederà di scrivere il soggetto per il suo primo lungometraggio. Il soggetto, non la sceneggiatura: perché una vera e propria sceneggiatura, il film in questione non l’avrà. Godard decise infatti di assegnare le parti di Michel e Patricia a Jean Paul Belmondo e Jean Seberg, affidandosi pressoché completamente all’estro dei due, perfetti nel vestire i panni del killer e della sua graziosa girl friend.
Il film fu girato in 23 giorni, a Parigi. Segnò una tappa importante per la storia del cinema, perché Godard fece largo uso del jump cut: una tecnica di montaggio sostanzialmente schizoide, che consiste nel tagliare parti del girato facendo saltare le immagini e frammentando i dialoghi, a un ritmo sincopato. Sincope è una delle parole chiave del film: niente risulta fluido, tranne la celebre passeggiata di Patricia e Michel sugli Champs Elysées. Lei col suo taglio alla Edie Sedgwick prima di Edie Sedgwick, lui con la faccia da schiaffi da gangster marsigliese dopo i gangster americani. Tutto il resto è una lunga jam session jazz, in bianco e nero, che non ha precedenti nella storia del cinema, così come non ha precedenti quel modello di donna: emancipata, senza essere vamp, e bella, senza diventare oggetto. In punto di morte, Michel la chiama degueulasse: un po’ come quei maschietti di oggi, poco conciliati con modelli che si discostano da quelli di madre o puttana, che ricorrono agli epiteti più triviali per definire le donne quando queste tradiscono.
Poiché Patricia tradisce, À bout de souffle è un film sul tradimento: aldilà del giudizio tranchant di Michel, questo fa la sua donna. Ma lo è soprattutto in senso metafilmico: Godard con il jump cut, l’assenza di sceneggiatura, il rifiuto di utilizzare mezzi di produzione tradizionali come gli studi, tradisce il cinema per renderlo ancora più vivo e reale. Truffaut parlava di Danger de l’arbitraire: quella relazione ambivalente e fragile tra fiction e realtà, film e documentario, per la quale la maggior naturalezza, al cinema, si ottiene con il massimo dell’artificialità. E proprio così vanno le cose per l’opera prima di Godard, che infarcisce infatti il film di omaggi a un certo tipo di cinema, quello di Jean-Pierre Melville e dei B-movie della Monogram, inaugurando al contempo il suo lungo diario della contemporaneità.
Scrive Goffredo Fofi nel Cinema del no:
“in Godard l’esplorazione delle forme non esclude mai l’ambizione alla definizione del proprio tempo, delle sue evidenze come delle sue contraddizioni.”
Con Fino all’ultimo respiro insomma, l’idea di contemporaneo si fa cinema.
Piera Ghisu
1. Psycho (Alfred Hitchcock, 1960)
Norman Bates (Anthony Perkins) siede su una sedia. Si è fatto tardi e sua madre chiede una coperta. Anche Norman, in effetti, ha freddo; mother è anziana, però, e la coperta è una.
Norman, sulla sedia, si piega in avanti, le braccia incrociate sul grembo, a riposo. Alza il volto, lo sguardo fermo e concentrato. Con attenzione persecutoria, fissa un punto preciso di fronte a sé: qualcuno ascolta; qualcuno vede. Norman guarda lui, l’interlocutore. Lo spettatore. Lo guarda negli occhi e sorride, soddisfatto. “Now they know, I can’t even move a finger. And I won’t. I’ll just sit here and be quiet”. Mother è al sicuro.
Il cinema è un’arte giovane: ha l’età di un secolo o poco più. È forse per questo che ci si può guardare indietro e individuare, nella sua storia, due o tre registi che, da veri artigiani e al contempo intrattenitori, uomini dello spettacolo (è il pubblico per questi registi che è al centro: il loro è cinema d’autore e al contempo di pubblico), lo hanno tirato su, costruito, immaginato. Non hanno fatto solo la storia del cinema; hanno fatto il cinema. Sono pochissimi, questi registi. Non so se il grandissimo Stanley Kubrick si possa considerare fra loro, perché non è una questione di genio, è qualcosa di più. È il genio che rielabora le acquisizioni tecniche e teoriche di millenni di arti più antiche (d’élite e non-élite: letteratura, pittura, musica; teatro e spettacolo, anche dozzinale, circo) e lo assembla e trasforma in una cosa nuova: il film. Charlie Chaplin, Akira Kurosawa, Alfred Hitchcock. Alfred Hitchcock.
60 anni di carriera e un decennio – tra il 54 e il 63 – che ha visto la produzione di La Finestra sul Cortile, L’Uomo che Sapeva Troppo, La Donna che Visse Due Volte, Psycho, Gli Uccelli. Il fondatore del giallo cinematografico: prima di lui c’era stato Murnau, con Nosferatu, che è tutta un’altra cosa. Prima di Hitchcock, i film di suspense, l’horror psicologico, il poliziesco, non c’erano. Psycho (1960) è stato il primo thriller.
Hitchcock, da bambino, giocava da solo, guardingo e riservato. Rielaborava le sue paure (le punizioni dei gesuiti, con i quali è cresciuto) inventando giochi solitari, d’immaginazione. Psycho è questo: un gioco. È un gioco perfetto, dove niente è accidentale e tutto è necessario. Hitch – si sente – si diverte: come giocando a scacchi, muove la vicenda, le inquadrature, i personaggi. Crea un marchingegno volto a, come avrebbe detto anni dopo con François Truffaut, “avere un effetto sul pubblico (…) l’emozione di massa (…) È l’esperienza più interessante che ho fatto di gioco con il pubblico”. Lo conduce su piste false, lo distrae con le inquadrature – “era appassionante per me usare la macchina da presa per ingannare il pubblico”.
Psycho è un capitolo della storia del cinema. Un film breve che, nella memoria degli spettatori, è complesso, articolato, quasi due film: un terzo di quell’ora e quaranta, infatti, è un intenzionale red herring. La vicenda iniziale, cioè, (Miss Crane, una segretaria – interpretata da Janet Leigh – ruba un’enorme somma di denaro e scappa) è volta solo a distrarre e a seminare indizi tematici: la doppiezza, l’inganno (la relazione con l’uomo sposato, John Gavin); la fuga, il pensiero persecutorio (Miss Crane, fuggitiva, immagina i dialoghi di chi la sta cercando – Norman Bates farà qualcosa di simile, più avanti). Per poi, in un momento di finale relax (Miss Crane è riuscita a fuggire e si rilassa in motel con una bella doccia calda), un improvviso e violento cambio. Il focus narrativo non è Miss Crane che scappa, ma il suo feroce assassinio. La scena della doccia: una pagina della storia del cinema. 7 giorni di ripresa e 70 posizioni di macchina per 45 secondi (quarantacinque) di film: una scena di nemmeno un minuto che, nella sua perfezione, è diventata iconica. Tutti la conoscono, anche chi non ha visto il film. Di una violenza, per quei tempi, inaudita: fa paura ancora oggi dopo più di 50 anni di horror e slasher. Qualsiasi altro regista avrebbe messo Vera Miles a recitare Miss Crane, la donna uccisa: Janet Leigh era la star e Hitchcock la faceva fuori (sono tutt’ora pochi, i film così). Hitch ha rivoluzionato il cinema anche perché, con Psycho, ha messo su una grossa polemica. Ai tempi si arrivava al cinema spesso in ritardo. Con Psycho, però, starebbe stato impossibile per volere del regista. I ritardatori non erano ammessi. Come si poteva perdere l’inizio e trovare la star già morta? Che diamine di thriller sarebbe stato?
Nessun personaggio è davvero “simpatico”, ci si affeziona in modo relativo: è la vicenda ad essere al centro, una vicenda che, con assoluta razionalità, segue i movimenti della “psycho” – la mente, la psiche di Norman Bates. Imbocca cunicoli che, talvolta, sono vicoli ciechi e come tali finiscono (il poliziotto motociclista che ferma Miss Crane mentre è in fuga e la pedina, poi sparisce). A volte, al contrario, si perdono in distese sconfinate di cui non si vede l’orizzonte. Cosa avrebbe fatto Miss Crane con quei soldi? Li avrebbe usati per raggiungere il suo amante, uomo sposato? Quest’ultimo avrebbe mai lasciato la moglie come le promette nella prima scena? Domande che lo spettatore si pone, ma che non riceveranno mai rispost).
E siccome Hitchcock è un artigiano, che faceva disegni delle scene che aveva in mente e scriveva, nella sceneggiatura, ogni singolo movimento della macchina da presa, è la cinepresa che segue questi movimenti: le inquadrature di Psycho sono le manifestazioni del genio di Hitch. Non sono solo perfette; seguono punti di vista differenti. E come in tutte le grandissime narrazioni, il punto di vista cambia: a volte è quello del personaggio (che sia Norman Bates, Miss Crane o l’investigatore privato); a volte è quello del narratore onnisciente (che in questo film in cui la vicenda è al centro e l’affezione ai personaggi relativa, si sente, è percepito: come una voce fuori campo che non parla mai); a volte è quello dello spettatore (quando Norman Bates pulisce la doccia con lo straccio, ci sembra di essere lì e di stare tenendo noi la cinepresa).
La scrittura di Psycho è all’apice nella storia della sceneggiatura. I personaggi, anche secondari (come la moglie dello Sceriffo), fortemente caratterizzati e quindi indimenticabili (Norman Bates balbetta tutte le volte che l’interlocutore, senza saperlo, solleva le contraddizioni della sua psiche, e mangia noccioline tutte le volte che si sente tranquillo); i dialoghi serrati, ritmati, e al contempo evocativi e simbolici nell’immaginario che sollevano (quello sugli uccelli impagliati fra Norman Bates e Miss Crane, ad esempio). E c’è un personaggio, fra tutti, che svetta nell’Olimpo. Lo ha scritto Bernard Herrmann, che Hitchcock ha dovuto pregare perché Psycho era una scommessa (Hitch se lo sarebbe prodotto da solo e il budget era molto basso). Forse è proprio questo personaggio che fa il narratore onnisciente, la voce fuori campo che anticipa, spiega, guida fra i cunicoli della vicenda e della psiche di Bates. Lei. La colonna sonora. Il 50% del film è muto: non ci sono dialoghi. C’è lei, però, che tiene per mano lo spettatore e gli indica cosa guardare o quando chiudere gli occhi. Fa salire la suspense quando deve salire, tremare di paura quando si deve tremare.
Dialogando con Hitch, François Truffaut avrebbe detto “Psycho è universale, tanto più che si tratta di un film muto al 50%. Ha 2 o 3 bobine senza alcun dialogo. Deve essere stato piuttosto facile da doppiare o da sottolineare…”.“Sì. In Tailandia, non so se lo sa, non adoperano né i sottotitoli né il doppiaggio, eliminano decisamente il suono e un uomo che sta in piedi di fronte allo schermo, legge tutti i dialoghi dei film con una voce che cambia a seconda del personaggio”.
Solo un genio come Alfred Hitchcock poteva rispondere così.
Enrica Fei
Hanno collaborato alla realizzazione di questo pezzo, in ordine sparso: Nunzio Gringeri, Giuseppe Cassone, Ercole Gentile, Mattia Grigolo, Cavezzi, Loris Rizzo, Gianluca Palma, Viola Mondello, Francesca Dallasta, Pietro Romeo, Davide Grimoldi, Nora Cavaccini, Caterina Coral.
L’illustrazione di copertina è di Lucrezia Chiarle
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