L’illustrazione di copertina è di Luisa Barbero
La composizione del pezzo è a cura di Mauro Mondello
Abbiamo chiesto a tutti i membri della redazione di inviarci una lista con i cinque film girati nel decennio 1980-1989 secondo loro più belli e importanti. Per provare a rendere la rilevazione ancora più oggettiva, abbiamo ampliato il parterre di contributi, aggiungendo al conto oltre venti liste inviate da esperti esterni, scelti in un intervallo vario e trasversale di età, occupazione, residenze e interessi.
La scelta definitiva è stata così realizzata:
1) I venti film che hanno effettivamente accumulato più voti;
2) Cinque film che sono stati votati, non ce l’hanno fatta ad entrare fra i primi venti, ma che la giuria di qualità ha ripescato perché considerati meritevoli;
3) Cinque film che non ha nominato nessuno e che sono stati scelti dall’eccezionale giuria di qualità, di cui non possiamo rivelare i nomi per questioni di privacy e prestigio (fra i componenti e le componenti vi sono grandi nomi della critica cinematografica mondiale, che non possono, per contratto, comparire su Yanez).
Le liste non accontentano mai nessuno, e sono difficili da stilare, ma noi ci abbiamo provato.
Si tratta di un divertissement, e come tale va preso.
Avvertenze: gli scritti che accompagnano i film nominati sono di vario stile e forma, non seguono la regola statica della recensione e si propongono, piuttosto, come dei commenti aperti, dei racconti, dei ricordi, delle cronache di visione.
Qui la lista dei 30 migliori film degli anni Novanta.
30. 1997:Fuga da New York (John Carpenter, 1981)
1988. L’indice di criminalità negli Stati Uniti è aumentato del 400%. La Grande Mela è diventata il carcere di massima sicurezza della nazione: è questo il prologo (in pillole) di Fuga da New York.
L’Air Force One è stato dirottato e il Presidente ha trovato la salvezza in una capsula che atterra a Manhattan. Jena (Snake nella versione inglese, da cui il tatuaggio di un cobra del protagonista) Plissken, ex membro delle forze speciali, arrestato durante una rapina in banca e condannato all’ergastolo (ovviamente da scontare a New York), viene contattato dal capo Hauk, che gli offre la libertà in cambio del salvataggio del Presidente e del prezioso nastro che porta con sé. Per non farsi mancare nulla, gli viene iniettato un micro esplosivo che verrà disattivato se entro 24 ore porterà il Presidente in salvo.
E poi.
Snake che vola su un Gullfire atterrando su una delle Twin Towers.
Snake che se la deve vedere con un gruppo di cannabili che vivono nel sottosuolo.
Snake che, con l’aiuto di un tassista (perché i tassisti nei film ambientati a New York non mancano mai), trova Brain (il compianto Harry Dean Stenton), un vecchio sodale del crimine.
Snake che viene catturato dagli uomini del “Duca” (la Cadillac del Duca…poesia).
Snake che è coinvolto in una lotta all’ultimo sangue con mazze ferrate.
Snake che prova a salvare il Presidente e scappa attraversando un ponte minato.
Snake che, dopo aver ricordato al capo Hauk di chiamarsi Plissken (per l’intero film gli aveva pervicacemente ricordato di chiamarsi Snake…perché non si fraternizza con il capo Hauk), se ne va distruggendo il nastro magnetico recuperato e sostituito con un nastro di musica jazz (la faccia del Presidente quando scopre lo scambio non ha prezzo).
Un film unico.
Non puoi non amare Snake Plissken, un uomo che non è così coglione da non capire che non ci sono poteri buoni.
Un capolavoro di John Carpenter, l’ala sinistra del cinema americano.
Marruca Incassato
29. Leningrad Cowboys Go America (Aki Kaurismaki, 1989)
Va bene, a me Kaurismaki piace assai, e questo è un fatto. Però come si fa a non includere un film del genere in una classifica con il meglio del cinema anni ’80? Questo forse non è nemmeno il più bello, fra i lavori di Kaurismaki di quel decennio (Calamari Union e Ariel, per non parlare di Ombre nel paradiso, raggiungono vette di surrealtà e malinconia dolce ancora più struggenti) ma è senza dubbio il più significativo. Ecco, anche quanti non amano le narrazioni surreali, o quelli che sono della scuola “il filo del discorso ora e sempre”, devono, per forza, passare attraverso la visione di un capolavoro assoluto come Leningrad Cowboys Go America. Un road movie assurdo, in cui seguiamo le peripezie di una rockabilly band russa in viaggio lungo le strade degli Stati Uniti, capitanata da un agente che ha un sacco di difetti, ma che porta con sé una cassa da morto sempre piena di birre. Un film per i parrucchieri e le parrucchiere. Per i sognatori e le sognatrici. Per chi ama le storie e il loro infinito.
Marcel Marx
28. Fuori Orario (Martin Scorsese, 1985)
La prima volta l’ho guardato nella mia stanza a Provinciale, in uno di quei sabati sera nei quali, avendo una partita presto il giorno dopo, ero rimasta a casa, invece di uscire con Antonio e chiudere la serata con un bel caffé corretto al bar della galleria Vittorio Emanuele. Era spaventoso, divertente, eccitante, scoprire i capovolgimenti di fronte continui cui il protagonista si sottoponeva e dirsi, sempre più spesso “no, non farlo, ma sei fuori di testa” e poi però lui lo faceva lo stesso. L’ho rivisto ancora, ogni due o tre anni, e sempre mi sono appassionato ai personaggi, alle luci notturne di Soho, ai toni striduli della colonna sonora. Le notti in cui alla fine uscivo, invece di rimanere nella mia stanza a guardare film strani, in fondo volevo solo ritornare a casa, come Paul Hackett. Anche perché, nelle mie peregrinazioni notturne a bordo dell’NRG grigio del mio amico, non ho mai incontrato la mia Marcy.
Miuccia Mao
27. Non ci resta che piangere (Roberto Benigni, Massimo Troisi, 1984)
Quando il mio amico Mauro mi ha chiesto di scrivere di questo film non è che fossi particolarmente esntusiasta. I say I sto cca è il motivo che l’accompagna; toccando quello che non ho è il verso che mi rende (loro) onore: parliamo di un film che mi restituisce un pezzo di passato.
I say ì sto cca, e ‘a paura se ne va, la paura di non fare un buon film (o una buona recensione). Eppure resta, la paura, soggiace al pretesto di una qualche velleità spasmodica di abusare, così come Troisi e Benigni che, senza sceneggiatura e un soggetto, hanno portato avanti un progetto spoglio di senso narrativo: ci atteniamo al canovaccio e poi discutiamo del resto.
Pino Daniele va nelle cuffie (l’omaggio a Massimo è dovuto, mi sembrava troppo poco rappresentativa una recensione senza le parole o, ahimè la musica, di Pino Daniele) e concordo, dice che la tristezza se ne va (retaggi andati); tralasciando ogni velleità registica, senza pensare a cosa sarebbe potuto uscirne, anzi, sicuri della riuscita, il film si dispiega tra dialoghi e qualcos’altro che non è certamente cinema (boutade teatrale) ma solo qualche immagine del voler essere, spregiudicata o camuffata critica al sistema. Non ci resta che piangere è il film della creatività, forse l’ultima possibile. E’ un film retorico, dialettico, di battute iconiche. È un film registrato col talento di due guitti che si contendono la scena, l’improvvisazione che diviene approssimazione. L’ingegno non manca, i paragoni sarebbero d’uopo, non ne faremo.
Troisi e Benigni hanno creato qualcosa che resta nella storia. La metafora del viaggio che comincia senza una fine è la metafora della conoscenza, di un naufragio che non conosce alcun approdo, che si lascia scoprire, che lascia da parte scoperte e alcun logico assoluto: se ci chiedete cosa dire noi taciamo, diciamo quello che più illogicamente conta, o non conta per principio. Rivediamo il passato come un futuro senza essere, il futuro è solo la sintesi, forse ironica, di un presente troppo assente per esistere.
La collettività mutamente attende ma ignara non pretende, e Leonardo concede: trentatrè, trentatrè, trentratrè.
Antonello Pesce
26. The killer (John Woo, 1989)
Ci sono migliaia di proiettili, sparati all’impazzata, a ricoprire ogni centimetro dello schermo. Ci sono gli inseguimenti a tutta velocità, le corse a piedi in una Hong Kong al neon, le cantanti di pianobar che si dilettano nei classici della musica d’amore cinese, gli incontri fra malavitosi negli appartamenti spogli e male illuminati, mentre fuori piove e la camera indugia sul tubo di scolo dell’acqua piovana. Ci sono i completi a righe rosa e bianche dell’ispettore di polizia, la chiesa criminale che ti ricorda il miglior Abel Ferrara, le sigarette risucchiate sino all’ultimo respiro. Eppure, quello che resta, più di ogni altra cosa, è la rappresentazione dell’amicizia, spinta fino al limite della follia. Le Samourai (che film, mi viene da piangere a pensarci) certo, ma senza la bellezza perfetta di Alain Deloin. Qui sono le incertezze a tessere lo straordinario. Quando, finalmente, cala il silenzio, tutto diventa ancora più difficile.
Mogilio Mihailov
25. Nostalghia (Andrej Tarkovskij, 1983)
Un regista pesante. Non di quelli che la sera pensi “quasi quasi metto un film”.
No. Tarkovskij no. Meglio una serie. Meglio Narcos oppure Breaking Bad. Ci vuole il coraggio della convinzione, per immergersi nella poetica delle immagini, nel cuore delle piccole cose, nel sentimento incerto del raccontare attraverso la battaglia continua fra astrazione e immedesimazione. Perché è questo che avviene in tutto il cinema di Tarkovskij, e che esplode, più di sempre, in questa storia meditativa ed estetica, i cui tempi, piano piano, ci fanno precipitare come dentro un’ipnosi.
Bisognava volergli più bene a Tarkovskij, ma lo abbiamo capito troppo tardi.
Maccursio Miraglia
24.Fa’ la cosa giusta (Spike Lee, 1989)
Nel 1989 Do The Right Thing è in concorso al Festival del Cinema di Cannes, dove la giuria capitanata da Wim Wenders non gli conferisce nessun premio. In un’intervista al giornalista canadese Brian Linehan, Spike Lee ammette con impenitente e liberatoria sincerità che il festival aveva derubato il film di ciò che gli spettava. Sarà l’attrice americana Sully Field, parte della giuria, a spiegargli, sul volo di rientro per New York, che il film non era piaciuto molto alla maggioranza dei giurati e a Wim Wenders in particolare, che ne criticò il finale, non abbastanza eroico.
Concediamo a Wenders il patetismo del suo commento.
Concediamo a Do The Right Thing la sua ruvida, sensuale, concatenata, irascibile ed afosa bellezza.
Un film epico che denuncia il problema sistemico del razzismo, della povertà, della marginalità, della convivenza e della violenza spietata della polizia statunitense nell’uccidere impunita gli afro-americani e le comunità di colore. Un caldo torrido, bipolare. Amore e odio. Sudore e scale d’emergenza. Rap e hip hop. Spike Lee denuncia la gentrificazione prima che la parola gentrificazione venga rubata e venduta come propria dalle bianche accademie di architettura. E’ tutto un appropriarsi ed espropriare. Tutto si ripete in cerchio. Ruggine. Dammi due pezzi di pizza. Siamo in bilico tra appartenenza e identità saccheggiate. E’ morto perché aveva una radio. Diossido di carbonio e marciapiedi. Michael Griffith ed Eric Garner. I cannot breathe! Do The Right Thing!
Endi Tupja
23. Blood Simple (Joel e Ethan Coen, 1984)
Il debutto al lungometraggio dei fratelli Coen è senza dubbio il loro film più imperfetto, ma anche il più unico, perché ci racconta una maniera di approcciare la narrazione, di muoversi dietro la camera da presa, che non rivedremo ancora nei lavori dei due fratelli più famosi del cinema contemporaneo made in U.S.A.
Blood Simple è un film brutale, violento, oscuro, una pellicola che non ti aspetti da due ragazzi di 30 anni che diventeranno famosi con una rivisitazione pop della commedia americana.
Ci sono dei personaggi, come l’investigatore Visser, in cui ritroviamo le cadenze, i toni, le eleganti e rapide finezze, che hanno fatto innamorare in tanti dei film coeniani. La musica accompagna il ritmo impaurito, lentamente asfittico, della narrazione, in una provincia texana in cui è il bar, ancora una volta, a farla da padrone.
Macarena Montana
22. Kamikaze 1989 (Wolf Gremm, 1982)
Confuso e scassato, irresistibile e improbabile, questo film, ancora oggi quasi introvabile, è l’apoteosi definitiva dell’irrazionalità distopica. Siamo immersi in una cultura totalitaria, dove sono vietate le verdure e il protagonista, un detective della polizia sempre vestito in completi leopardati, gioca a tennis in una discoteca militare durante le ore di riposo. A metà fra l’animazione e il thriller fantascientifico, con musiche durissime, che spaccano le scena, eseguite dai Tangerine Dream, questo film è una follia e racconta la fine del futuro. In uno dei suoi rari ruoli d’attore, troviamo un Fassbinder ormai alle corde. Pallido, a corto di fiato persino per dire le battute, morirà a pochi mesi dall’uscita del film nelle sale.
Morgana Montalto
21. Daunbailò (Jim Jarmush, 1986)
La vita guardata fuori dal finestrino. Le case scorrono di lato, a ritmo di un blues urbano. Le attitudini di chi guarda fuori sono diverse.
Zack si sofferma sulle cose. Scruta il presente fino al confine eretto dalla lunghezza dello sguardo. È uno che mette fuori la mano per sentire l’aria fresca sui polpastrelli, qualche refolo a scompigliare i capelli ricci.
Jack invece il limite lo mette vicino e guarda solo oltre, non vede davvero ma immagina il futuro, progetta, inventa, un visionario cieco. All’improvviso un incidente. La musica si interrompe, la macchina si ferma. Il presente è bloccato e il futuro ha cambiato percorso. I due uomini ora vedono lo stesso corridoio, dalla stessa prospettiva con le sbarre.
“I muri non esistono. Il pavimento non esiste. Questo stress non è qui. Queste celle non sono qui. Le sbarre non sono qui. Niente di tutto ciò è veramente qui.”
A sorpresa, ecco l’inaspettato che si presenta nella stessa cella, sottoforma di uno straniero con un passato del tutto diverso e un presente che non capisce. L’amalgama è difficile all’inizio, non si riesce a convivere in uno spazio tanto piccolo fino a che non ci si arrende all’accoglienza, in una melodia cantata insieme.
“I scream, you scream we all scream for ice-cream”.
Lo straniero disegna una finestra sul muro, una finestra inutile ma dove si imprimono tutti gli sguardi in un obiettivo comune. Fuga. Si collabora per sopravvivere e un po’ di queste storie iniziano ad intrecciarsi. Il tempo per un momento scorre uguale per tutti, estremamente presente disegna un futuro condiviso. Durante la marcia la vita si guarda a passo d’uomo, non ci sono case, ma solo la strada e il bosco, in uno spazio sconosciuto. Alla fine, il reale si riaffaccia dalla porta di una piccola locanda, l’orologio torna ad avere delle lancette e le direzioni delle destinazioni. Le tre anime si separano, tornano al punto di partenza, ma prima di riprendere il loro cammino solitario si scambiano la giaccia, confondendosi un po’ l’uno nell’altro, perché in fondo niente sarà più come prima. Musica.
Caterina Coral
20. L’attimo fuggente (Peter Weir, 1989)
«O Capitano, mio Capitano!»
Un film poetico.
Un film educativo.
Uno dei film preferiti di mio padre.
Ambientato in un college molto tradizionale del New England nel 1959, appena prima del decennio che avrebbe cambiato per sempre i costumi della società occidentale, il film narra l’impatto sulla vita di un gruppo di studenti dell’arrivo di un professore di letteratura decisamente anticonformista, il Prof. Keating (magistralmente interpretato da Robin Williams). Attraverso la poesia ed uno stile d’insegnamento rivoluzionario per un’istituzione scolastica profondamente tradizionalista e conservatrice, il professore cercherà di spronare quelle giovani menti ad inseguire i propri sogni e a pensare con la propria testa.
Ma L’attimo Fuggente non è solo il racconto visivo di una storia ben diretta e recitata.
E’ un inno alla poesia, alla ricerca della bellezza e al senso profondo della vita. E’ un invito a guardare il mondo da angolazioni diverse, ad essere liberi pensatori, a strappare le pagine dei libri ed inseguire le proprie passioni fino in fondo. E’ una chiamata a cogliere l’attimo che fugge, a succhiare il midollo stesso della vita fino a far risuonare il proprio barbarico yawp!
Mi piace pensare che mio padre ce l’abbia fatto vedere decine e decine di volte per provare ad insegnarci qualcosa. L’abbiamo rivisto insieme stamattina. In tempi di pandemia, ogni stimolo esterno ha forse un sapore diverso, precario, anche un classicone come L’Attimo Fuggente.
In attesa dell’agognata fase 2, citando Walt Whitman, credo che il professor Keating ci avrebbe letto questi versi: «Oh me, oh vita, domande come queste mi perseguitano. Infiniti cortei di infedeli. Città gremite di stolti. Che v’è di nuovo in tutto questo, oh me, oh vita? Risposta. Che tu sei qui, che la vita esiste, e l’identità, che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso.
Che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso. Quale sarà il tuo verso?»
Pier Attilio De Luca
19.The Blues Brothers (John Landis, 1980)
Secondo la definizione del dizionario Garzanti, un cult è un “oggetto o prodotto artistico o culturale ritenuto emblematico nel suo genere, che gode dell’ammirazione assoluta degli appassionati”. Un film appena uscito non è mai un cult, non può esserlo. Bisogna aspettare qualche anno perché lo diventi davvero, bisogna sentire per caso le sue battute rilanciate nei discorsi di tutti i giorni e non sempre in modo consapevole, riconoscerne i simboli, bisogna rivederlo e rivederci una generazione intera, un’epoca o anche una subcultura. The Blues Brothers è un grande concerto tenuto da divinità del soul in carne e ossa (James Brown, Ray Charles, Aretha Franklin, Cab Calloway, John Lee Hooker) o reinterpretate dalla band che John Belushi e Dan Aykroyd avevano fondato cinque anni prima l’uscita del film, per lo show televisivo Saturday Night Live. I Blues Brothers, per l’appunto. Persino L’Osservatore Romano provò a trasformare il film in un’espressione del cattolicesimo, con un articolo in cui enfatizzò il ruolo del personaggio di suor Mary (la “Pinguina”), la bontà dei fratelli Jake (Belushi) ed Elwood (Aykroyd) che vogliono salvare l’orfanotrofio che dirige, e la conseguente battuta di Elwood, forse la più citata anche oggi: “Siamo in missione per conto di Dio”. Probabilmente, si riferivano a Ray Charles.
Domenica Morabito
18. Thief (Michael Mann, 1981)
Il debutto al lungometraggio del maestro della luce è una combinazione di adrenalina e tecnicismi, durante cui restiamo spesso in silenzio e con il fiato sospeso, sperando che Frank il ladro, interpretato da uno straordinario James Caan, riesca a farla franca e a liberarsi da tutto quello che lo rincorre. La Chicago notturna ha un effetto claustrofobico e ineluttabile dentro il quadro ombroso intorno al quale si rincorrono i personaggi. Un neo-noir, certo, ma anche il ritratto profondo di un uomo che è un artista della sua professione criminale, alla ricerca disperata della sensazione più difficile di tutte da recuperare: l’umanità sentimentale. Strepitose e impossibili le scene degli scassi.
Marateo Manca
17. I Goonies (Richard Donner, 1985)
Siamo nella camera che divido con il mio fratellino che poi è anche la sala che dividiamo con i nostri genitori. Mio padre è seduto sul divano che poi è anche il divano-letto dove dormiamo io e mio fratello. È l’inizio del 1992. Ho dieci anni. Sto facendo qualcosa seduto sul tappeto, quando mio padre mi dice “ma tu l’hai visto i Goonies?” e io che gli rispondo “I Goonies?” e lui che mi dice “Sì, i Goonies. Quelli di Sloth”. Poi si alza, accende il videoregistratore, sfila una cassetta dal mobile. Me la mostra. “Questi sono i Goonies” dice e si volta per infilare la videocassetta nel registratore. Poi si volta di nuovo. “Non andare a chiamare tuo fratello, però” dice e io domando “E perché papà?”.
Perché non può vedere Sloth.
L’attore che interpreta Sloth, John Matuszak, ex giocatore di NFL, è morto nel 1989, quattro anni dopo l’uscita de I Goonies, per arresto cardiaco dovuto ad overdose di destropropossifene e cocaina. Durante l’adolescenza perde due fratelli per fibrosi cistica e una sorella, sempre per malattia. Durante le scuole viene bullizzato dai suoi compagni a causa del suo aspetto fisico.
Mattia Grigolo
16. Velluto Blu (David Lynch, 1986)
“Post fata, resurgo”. Dopo la morte, mi rialzo. È quello che deve aver pensato Lynch una mattina in cui, come direbbe lui, stava cercando di pescare il pesce giusto, la giusta idea. Un’idea che fosse solo autenticamente sua. Dopo il fallimento di Dune il regista torna alle origini, sperimentando di nuovo e partorendo la sua creatura più personale, autobiografica ed equilibrata. Un orecchio trovato in un giardino sarà per il giovane Jeffrey (Kyle MacLachlan) l’inizio e la fine di tutto. Il mezzo attraverso cui l’alter ego di Lynch si addentrerà nel lato oscuro di una solo apparentemente solare cittadina americana. Lynch ci prende per mano e ci accompagna in un altro sogno, come solo lui sa fare. Perché può turbare e spaventare, ma non ti lascia mai da solo, riuscendo anche a far commuovere. Dimenticavo: un Dennis Hopper sontuoso restituito al grande cinema. Si è rialzato anche lui.
Amerigo Biadaioli
15. Decalogo (Krzysztof Kieślowski, 1988)
I palazzi dall’architettura socialista, squadrati, severi e sempre uguali, sovrastano gli esseri umani che li abitano, rendendoli ancora più soli e smarriti nella loro vita quotidiana.
Nel Decalogo, serie in dieci episodi, c’è molta infanzia: bambini, gravidanze, giochi, ricordi, traumi, peluche, giostre e travestimenti. Un’infanzia che si interroga sul senso dell’esistenza e durante la quale si forma una morale che poi la vita inevitabilmente prende a picconate.
Il Decalogo indaga il concetto di individuo, cercando di delinearne i confini e, così facendo, ponendo interrogativi sul libero arbitrio. Che cos’è un individuo? Quanto è indipendente dalla realtà che lo circonda? Quanto spazio ha di autonomia decisionale? Cosa significa realmente decidere? Quanta casualità c’è in una decisione? Quanto dipende da una persona il ruolo che riveste e quanto sono labili i ruoli stessi? Puntata dopo puntata il concetto di individuo sfuma, sotto le illuminazioni ambientali che riverberano sui volti dei personaggi e ne colorano la pelle.
La luce verde del computer, quelle blu dei pompieri, quelle rosse dell’interno delle auto. Per non parlare di quelle gialle di una Varsavia irreale, dove è ambientato l’episodio dedicato al quinto comandamento, non uccidere. E’ proprio grazie a questo capitolo che forse Kieślowki ha ottenuto la sua più grande vittoria. La pellicola affronta il tema della pena di morte e al 1988, anno della sua distribuzione, risale l’ultima esecuzione capitale avvenuta in Polonia. Perché l’arte incide sulla vita e cambia la mentalità.
Stefano Boring
14. La cosa (John Carpenter, 1982)
Non vedo assolutamente il motivo per cui dover scrivere una presentazione di questo film. “La cosa” è LA COSA: maiuscolo perché in 109 minuti troviamo l’avventura, l’horror, la fantascienza e, soprattutto, vagonate di angoscia.
In alcuni momenti siamo così intensamente calati dentro la storia da sentirci anche noi isolati in uno dei posti più remoti e inospitali del mondo, costretti ad affrontare un pericolo sconosciuto. Sono questi gli ingredienti (più che gli effetti speciali di Rob Bottin, un po’ grezzi, se analizzati a posteriori) che hanno fatto diventare il film di John Carpenter un cult.
Riconosciuto dalla critica e dagli appassionati come una delle pellicole più spaventose della storia del cinema, ai tempi dell’uscita nelle sale fu snobbato dal grande pubblico in favore di “E.T. – L’extraterrestre”. Gli spettatori degli anni ’80 preferivano evidentemente appassionarsi di più alle avventure di un alieno somigliante ad una merda fossilizzata con una lampadina al posto del dito piuttosto che vivere l’ansia dell’ignoto che imperversa in ogni singolo minuto de “La cosa”.
Carpenter ci ha insegnato trentotto anni fa a guardarci intorno con sospetto, a diffidare di chiunque e temere persino quello che appare familiare.
Ce ne stiamo tristemente rendendo conto in questi tempi di pandemia.
Non resta che sederci, esausti come McReady nell’ultima scena, e aspettare qui ancora un po’ per vedere cosa succede (cit.).
Francesco Somigli
13. La storia infinita (Wolfgang Petersen, 1984)
Chi non ha mai sognato di volare su Falkor? O non ha mai pianto durante la scena di Artax nelle paludi della tristezza? Chi non ha mai provato a mordere un sasso sull’esempio di Mordiroccia (per rendersi poi conto, sputando schegge di dente da latte, che i sassi fanno schifo e sanno di sabbia e lerciume, mica di quella prelibata ambra di cui si parla nel film)? E chi non si è mai sinceramente cacato sotto mentre il tremendo Gmork scatta fulmineo in avanti per divorare Atreyu (io tremo di terrore ancora oggi)? Insomma, chi diavolo non ha mai visto la trasposizione cinematografica de La storia infinita?? E se davvero siete tra le fila dei pochissimi esseri umani del mondo occidentale che ancora non l’hanno fatto: rimediate. Ora. Non è mai troppo tardi per ricrearsi traumi infantili nuovi di zecca. O nuovi sogni. Basta un po’ di fantasia, e quella, si sa, non ha confini (citazione romantica).
Elena Cascio
12. Brazil (Terry Gilliam, 1985)
Come rappresentare meglio la burocrazia se non vedendo il gigantesco e spersonalizzante Ministero dell’Informazione del film di Terry Gilliam? La ripresa ci trasporta in una danza agitata, tra documenti timbrati, fogli che svolazzano e solerti impiegati che camminano in ogni direzione. Ci muoviamo con loro sulle note di Aquarela do Brazil, tema onnipresente del film e onirica colonna sonora di un mondo orribile in cui il protagonista, Sam Lowry, galleggia tra una madre ossessionata dalla chirurgia estetica, un amore impossibile e la schiacciante presenza di qualcosa che percepiamo e non vediamo mai. Ma che conosciamo benissimo.
Brazil era un po’ la nostra vita finora. Brazil sarà molto la nostra vita che verrà. Speriamo che Archibald Tuttle possa davvero arrivare a salvarci. E se neanche lui dovesse farcela, potremo comunque consolarci fischiettando all’infinito.
Brasil… ta tara tara tara ta…
Francesco Somigli
11. Paris, Texas (Wim Wenders, 1984)
Quando ci appare per la prima volta Travis, vediamo un tipo alto e secco secco, un uomo che sembra essere stanco di anni insonni, la pelle rossa e bruciata per un sole infernale, la barba lunga e maltenuta, veste abiti sporchi e sgualciti. Indossa un cappellino con la visiera rossa, anch’esso rovinato, che risalta con il cielo azzurrissimo e punteggiato di nuvole, sopra il deserto su cui cammina spedito, come un gatto. All’inizio facciamo fatica a capire che tipo sia: non sappiamo, infatti, se ci stia con la testa, se sia davvero muto o forse solo molto, molto disidratato.
Travis non ha paura di volare, ma ne ha molta di cadere, e niente e nessuno riesce a fare decollare l’aereo prima che lui sia sceso. A Travis piacciono i waffel con le fragole, ma se in quel momento non ne ha voglia non si sforza di mangiarli. È silenzioso, Travis. È delicato, creativo, alle volte completamente irrazionale e può anche essere crudele, nella sua maniera profonda e non violenta.
Si mette a lucidare le scarpe di tutta la famiglia sul terrazzo, aspettando che gli altri si sveglino, godendosi una mattinata tersa di sole, guardando la strada in lontananza. Baratta gli stivali nuovi che gli ha regalato suo fratello con un paio di texani usati, e li indossa subito con gusto. Non se la prende quando suo figlio non vuole tornare a casa con lui, all’uscita della scuola: si dispiace, certo, ma lo accetta. Il giorno seguente passa la mattinata a cercare il vestito e le movenze adatti per sembrare un “vero padre”, ma è soprattutto con il suo umorismo sottile che inizia a conquistare la fiducia del bambino.
L’amore, l’innamoramento, è riconoscere di vivere in uno stato non ordinario di coscienza, dove ogni cosa, fatto, azione, assumono connotati meravigliosi, extra-ordinari: per Travis è l’avventura di andare a fare la spesa al negozio di alimentari sotto casa, assieme alla donna amata. Amore è amare lei in una maniera di cui lui stesso si stupisce, perché è proprio l’amore che ci fa scoprire più grandi di quello che pensavamo di essere. Amore è farla ridere; è volere stare sempre e costantemente insieme e provare, una volta divisi, il male fisico della separazione. L’amore è rendersi conto che la società in cui si vive non è fatta per uno stato extra ordinario di coscienza, e che l’ordinarietà cui si deve sottoporre uccide il suo sentimento: accettandola, a poco a poco, Travis si sente morire. Come ogni gatto, anche Travis non ha sensi di colpa verso nessuno. Ogni sua decisione pare sia la migliore possibile nel microcosmo del suo universo personale, e quando alla fine vediamo Travis al volante, il muso della macchina che procede spedita su una superstrada, possiamo facilmente intuire dove sia diretta: Paris, Texas.
Virginia Patrone
10. E.T. l’extra-terrestre (Steven Spielberg, 1982)
Bisognerebbe lasciare il mondo in mano ai bambini. Gli adulti non credono nella magia e si perdono un miracolo dell’Universo come E.T.
E.T. cerca da subito un modo per tornare casa, perché tutti vogliamo tornare a casa, anche gli extra-terrestri lo vogliono, non senza però aver lasciato un dono a chi ha creduto in lui sin dal primo istante: il piccolo Elliot.
E.T. si ingegna e trova un modo per comunicare con il suo pianeta, per telefonare a casa. È ad un passo dal riuscirci se non che, ovviamente, sul più bello arrivano a catturarlo gli adulti vestiti da astronauta.
Elliot si oppone con tutte le sue forze e non basteranno le parole del capo dei soccorritori per farlo desistere: “E.T. non è stato lasciato qui intenzionalmente. È un miracolo che lo abbia trovato tu”.
E.T. verrà salvato, di nuovo, dal piccolo Elliot che crederà in lui ancora una volta: “I will believe in you all my life, every day, E.T., I love you”. Sono queste parole che arrivano dal cuore che faranno rinascere E.T., costretto a fuggire di nuovo.
Lo riporteranno nella foresta, dove lo hanno incontrato la prima volta. Lì, ad aspettarlo, ci sarà l’astronave che lo riporterà a casa.
I due si salutano con una promessa: “Stay, come, auch: I’ll be right here”.
Non ho pianto così tanto nemmeno quando l’ho guardato da bambina.
Silvia Caneva
9. Shining (Stanley Kubrick, 1980)
Capolavoro indiscusso al di là dei generi, Shining è un incubo introspettivo contaminato dal soprannaturale. L’alienazione progressiva di Jack Torrance, indotta dall’isolamento nel nido d’aquila dell’Overlook Hotel, diventa, progressivamente, un viaggio nella follia dell’umanità e nella ciclica emersione del male.
Mentre le settimane si succedono nell’inquietante edificio che lo intrappola insieme alla sua famiglia e che rigurgita i fantasmi delle persone che sono impazzite e morte nello stesso luogo, Torrance comincia infatti a perdere il contatto con la realtà. Il tempo convenzionale svanisce e passato, presente e futuro si fondono, mischiando i ricordi dell’uomo con quelli dell’hotel in cui è recluso, evocando allucinazioni e presagi sempre più terrificanti.
La bellezza del film, al di là dell’aspetto puramente narrativo, è nella potenza delle immagini. Impossibile liberarsi dai fantasmi delle inquietanti gemelle che si materializzano nei corridoi in cui il piccolo Danny sfreccia con il suo triciclo, dai suoni ovattati della festa che si anima davanti agli occhi di un Torrance ormai in preda al delirio o dal fiume di sangue che riempie gli ascensori dell’hotel, per poi riversarsi ovunque.
Sono visioni che si imprimono nella memoria collettiva, rendendo impossibile pensare a “Shining” senza pensare a Kubrick.
Forse anche per questo il film fu amato quasi da chiunque, ma non dall’autore del libro che l’aveva ispirato, Stephen King. Non è un segreto che King detestasse l’adattamento del grande regista, ritenendolo poco coerente con il libro che aveva scritto.
“Shining” di Kubrick tuttavia ha superato la storia che racconta, diventando qualcosa di più di una riduzione cinematografica e raggiungendo l’olimpo del “totalmente altro”, che spetta di diritto ad ogni opera d’arte.
Lucia Conti
8. Nuovo Cinema Paradiso (Giuseppe Tornatore, 1988)
Pensate che quando uscì “Nuovo Cinema Paradiso” non se lo filò nessuno. Tranne a Messina, dove il gestore del Cinema Aurora (struttura che ebbe poi un destino simile a quello del cinema della pellicola) decise di tenerlo comunque in programmazione, invitò la gente ad assistere alla proiezione gratuitamente e solo se avessero apprezzato il film avrebbero pagato il biglietto. E da lì, grazie anche ad una nuova versione più breve del film, Nuovo Cinema Paradiso ottenne piano piano il successo mondiale, fino alla vittoria del Premio Oscar come miglior film straniero nel 1990.
Giuseppe Tornatore firmò il suo capolavoro parlando dell’amore per il cinematografo, una vocazione per la quale il protagonista del film Salvatore Di Vita è “costretto” a lasciare la sua terra ed i suoi affetti, senza voltarsi indietro mai.
Ricordo quando feci vedere per la prima volta questo film un pomeriggio di un paio di anni fa ad un amico, sul mio divano di casa. Alla fine lui si gira verso di me, siamo entrambi con gli occhi lucidi e lui mi dice: “Se non ti commuovi con il finale di questo film significa che non hai un cuore”.
Ercole Gentile
7. The Elephant Man (David Lynch, 1980)
Un uomo mostruoso, “alla cui vista le donne non possono assistere”. Una donna “dal volto di angelo”, che vive tra le stelle, e in una foto. Un maestro del circo, che non ha niente se non il mostro, ed un bambino. Con The Elephant Man, David Lynch apre la sua carriera cinematografica; prima di questo, solo Eraserhead, un horror sperimentale che verrà scoperto solo successivamente. John Merrick (John Hurt), “l’uomo elefante”, è realmente vissuto a fine 1800, affetto da una rarissima malattia genetica che ne avrebbe causato l’aspetto orribile e deforme. Tenuto prigioniero in un circo da un uomo che lo espone al pubblico ludibrio (Wendy Hiller), viene salvato dal medico Frederick Treves (Anthony Hopkins), che decide di curarlo. Vibrante ed emotivo e al tempo stesso misurato e composto, The Elephant Man è diverso dai capolavori onirici di Lynch solo apparentemente. Il timbro fiabesco e sognante è quello dei nani del circo, delle fate in abiti bianchi (la moglie del medico – Hannah Gordon), delle streghe buone vestite di nero (la stella del teatro, Anne Bancroft), e del carillon della colonna sonora (di John Morris). Del volto della madre di John che appare come in sogno; delle cattedrali di carta, costruite perché “immagino, ciò che non vedo”. Diventa un incubo e si tinge di horror nei fumi della Londra vittoriana, nella donna che urla aggredita dalle bestie. Nelle gabbie, nei padroni, nei bambini che dileggiano un pover’uomo. Nel volto deforme di un uomo buono, ma elefante.
Enrica Fei
6. Scarface (Brian De Palma, 1983)
Mi piace una frase che ho letto. Sulla pagina Wikipedia dedicata a Howard Hawks dicono: “dopo aver diretto otto pellicole mute, ebbe la prima grande opportunità della sua carriera quando il produttore e milionario Howard Hughes gli affidò la regia del film Scarface – Lo sfregiato”. E’ la sua versione originale.
Lo sfregiato. Pensando in italiano, tutto il film potrebbe racchiudersi in questa parola. Personaggio sublimato da Al Pacino e dalla regia di Brian De Palma nell’anno 1983. Alla fine del film Toni Montana lo conosci troppo bene, lo senti, ti piace, quasi vorresti dargli un consiglio. Mi è sembrato un tempo cinematografico così giusto e lontano. Una rarità.
La faccia di Castro e il suo discorso al popolo della prima sequenza, quasi diabolico il volto. E tutti quei filmati originali degli sbarchi dei cubani a Miami, che parlano dell’Esodo di Mariel. Avevo dimenticato.
Toni li odia i comunisti. Ti dicono sempre quello che devi pensare, che devi dire, che devi fare. Lui è un prigioniero politico di Cuba, non un galeotto. A Miami ha il suo passato alle spalle, qui la sua esistenza non è abbastanza, Toni vuole il mondo ed è disposto a tutto per averlo. D’altronde è l’America che insegna: lavorare duro e non fermarsi mai.
Toni lavora duro e non si ferma davanti a niente. E alla fine ce la fa. Ottiene quello che vuole: un impero, soldi, potere, Elvira la donna che vuole sposare, una giovanissima Michelle Pfeiffer, magrissima, affascinante e nata per quella vita. Cocaina, montagne di cocaina. Così esagerato da rimanere impresso. Lui che affonda il naso nel cumulo di polvere bianca che ha davanti sulla scrivania. Credo sia rimasto il sogno di molti.
Due ore e cinquanta minuti di lui, un’esibizione da protagonista nella Miami del crimine, sorretto da una colonna sonora perfetta: Scarface è questo tipo di capolavoro.
Serena Montera
5. Toro Scatenato (Martin Scorsese, 1980)
“Era la sua faccia a rivelare in modo evidente chi fosse e che cosa facesse. Era la classica faccia del pugile, uno che alle spalle aveva ormai anni e anni di battaglie sul ring e dunque aveva sviluppato i tratti caratteristici dell’animale da combattimento, esasperandoli al massimo. Aveva lineamenti rozzi e – quasi a evitare che anche solo un loro tratto potesse sfuggire all’osservatore – s’era rasato di fresco. Le labbra erano informi e disegnavano una bocca dalla piega esageratamente aspra, un taglio attraverso il viso. La mascella era aggressiva, pesante, brutale. Gli occhi si muovevano lenti sotto le spesse palpebre ed erano privi d’espressione, incassati da sopracciglia folte e rientranti.
Era in tutto e per tutto un vero animale e il tratto più animalesco del suo aspetto erano proprio gli occhi, sonnacchiosi come quelli di un leone, gli occhi di una belva abituata a battersi”. E’ la stessa boxe a costruire i volti dei pugili. Chirurgia plastica senza anestesia. Jack London, autore di queste righe tratte da La bistecca, uno dei suoi celebri racconti di boxe, doveva saperlo bene. Allo stesso modo Robert de Niro sapeva esattamente cosa doveva fare per calarsi nei panni di Jake LaMotta, campione mondiale dei pesi medi tra il ‘49 e il ‘51. Doveva lasciarsi trasformare dalla boxe, con tutto ciò che si porta dietro: demoni, eccessi, ferocia. Nei confronti di se stessi, anzitutto. Una discesa agli inferi fatta di sangue e adipe, adipe e sangue. Di amori sbagliati, di corruzione, di molto nero, molto bianco e pochissimi colori. In fondo Jake LaMotta non fa altro che ripetere per i 129 minuti del film di Scorsese, la scena dello specchio di Taxi driver. E’ uno specchio deformante, paranoide, abissale. Umana troppo umana è la boxe, e umano troppo umano è il nostro Jake, destinato a fallire, a precipitare sul fondo fino a spaccare la cintura del campione per rivendere le gemme. Ci vide giusto, De Niro quando chiese al suo amico Martin di farne un film, della biografia di LaMotta. Entrambi sapevano cosa fosse il Bronx, sapevano come filmare la società italoamericana, sapevano che dovevano attraversare le tenebre dei tinelli tricolori e quelle del ring. Per Scorsese, provatissimo dall’insuccesso del musical New York New York, doveva essere l’ultimo film. Fu invece uno, se non il più alto, degli apici della sua carriera: un film assolutamente epico, visivamente potentissimo, indimenticabile. Ma soprattutto insuperato, nel mostrare tutte le contraddizioni della nobile arte e della vita.
Piera Ghisu
4. Blade Runner (Ridley Scott, 1982)
È ingenuo a dirsi, ma sarò sempre grato al mio maestro delle medie per avermi educato all’amore per il grande cinema. E uno dei film con cui l’ha fatto è stato questo, di Ridley Scott. Un film che, parafrasando Sergio Leone, “è un film sul tempo, sulla fame dei secondi di alcuni e lo spreco di anni di altri”. Signori e signore: qui abbiamo un film che è tutto, come solo i grandi capolavori possono essere. Non è semplicemente un film di fantascienza, ma una riflessione sulla libertà individuale, sulla fuga, sulla vita; sulla morte e la tolleranza. A differenza di tante produzioni che sono solo un puro esercizio di stile (e che di “puro”, per definizione, non hanno niente), Scott affianca al reparto tecnico e visuale una profondità, caratterizzazione psicologica dei personaggi, di rara potenza. Harrison Ford dimostra grande maturità per un ruolo che lo vede impegnato a cacciare ed eliminare degli androidi, fuggiti da una stazione spaziale. E poi sì, quei 4 minuti finali. Prova a scordarli.
Amerigo Biadaioli
3. Full Metal Jacket (Stanley Kubrick, 1987)
La prima volta che ho visto Full Metal Jacket è stato a Londra nel 1987, anno in cui il film è uscito nelle sale. Andai a vederlo e ovviamente non capii nulla, o quasi. Nelle altre sette od otto volte che l’ho rivisto, invece, non ho mai smesso di entusiasmarmi per la fenomenale sceneggiatura, per il realismo inquietante della scenografia, per la meravigliosa fotografia e per il sarcasmo tagliente con cui Stanley Kubrick descrive l’animo umano. Il film, che è considerato un capolavoro assoluto nella storia del cinema, è diviso in due parti: la prima è ambientata a Parris Island, centro di addestramento dei marines USA. La seconda parte, introdotta con uno stacco visivo e sonoro fulminante, si svolge in Vietnam, nei pressi della città di Hue. Kubrick mette lo spettatore nelle mani della voce narrante del soldato Joker, aspirante giornalista di guerra interpretato da un grandissimo Matthew Modine. Nella prima parte del film, dominata dalle figure gigantesche del sergente Hartman e del soldato Palladilardo (Vincent D’Onofrio), si assiste al tentativo del sergente di trasformare dei normali ragazzi americani in killer professionisti, nati per uccidere. Nella seconda metà del film, accanto a Joker viene messo Rafterman, il fotografo, e i due si uniscono ad un plotone comandato da Cowboy, un vecchio amico di Joker a Parris Island.
Da questo momento in poi, in compagnia dei Porci arrapati, scenderemo fino in fondo all’inferno della follia umana, per arrivare alla conclusione ironico-catartica della scena finale, dove i marines in marcia verso il fiume dei Profumi cantano in coro la canzone del club di Topolino.
Alessandro Borscia
2. Ritorno al futuro (Robert Zemeckis, 1985)
Ci sono almeno tre generazioni che, se pensano al viaggio nel tempo, hanno in mente la mitica DeLorean Dmc-12. Una macchina diventata leggenda grazie a Zemeckis, su cui tutti abbiamo immaginato di salire almeno una volta, per andare a vedere cosa succede nel futuro, cambiare qualcosa nel nostro passato o rivivere epoche andate. Un pensiero reso per me tangibile dalla straordinaria somiglianza di mio padre con Doc. Il capello bianco al vento, l’intelligenza fuori dagli schemi da scienziato pazzo, lo sguardo acceso e stralunato: tutti i miei amici chiamano mio padre Doc. Ancora oggi, nonostante gli effetti speciali antiquati, Ritorno al futuro rimane un film moderno, che diverte e fa sognare. Chi di noi non ha pensato almeno una volta di sfrecciare sullo skateboard del futuro di Martin McFly? Figurarsi io, che sono il figlio di chi l’ha reso possibile e che in skateboard non ci so nemmeno andare.
Gianluca Cedolin
1. C’era una volta in America (Sergio Leone, 1984)
In un bel saggio di qualche anno fa è sostenuta la tesi che l’Italia abbia raggiunto negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso l’akmé della fecondità culturale. Il saggio s’intitola Quando tutto era possibile (Manifestolibri, 2013). L’autore è Douglas Mortimer.
Alla maggior parte di noi il nome di Douglas Mortimer non dice granché. Infatti non esiste nessun autore con questo nome.
Chi è allora Douglas Mortimer? Perché figura come autore del saggio?
La risposta alla prima domanda è semplice: Douglas Mortimer è un personaggio interpretato da Lee Van Cleef nel western Per qualche dollaro in più (1965).
La risposta alla seconda domanda è meno immediata. Douglas Mortimer non è nom de plume di Lee Van Cleef (gli autori del saggio sono esperti di varie discipline coordinati da Massimo Ilardi). Douglas Mortimer sta a significare il regista di Per qualche dollaro in più, Sergio Leone.
Con una felicissima intuizione, Sergio Leone è stato scelto come rappresentante degli artisti che, dal vertice della parabola, hanno compiuto in quei due decenni opere di altissimo livello, dal cinema alla musica, dalla letteratura all’architettura. Sergio Leone poi si è espresso con tali forza e profondità, che i suoi film sono entrati nel Canone.
C’è solo una trascurabile differenza cronologica: il ventennio di Quando tutto era possibile è compreso tra il 1960 e il 1980, quello di Sergio Leone comincia quattro anni più tardi, nel 1964, con il suo primo western, Per un pugno di dollari, e termina nel 1984 con il suo ultimo film, C’era una volta in America.
Flavio Villani
Hanno collaborato alla realizzazione di questo pezzo, in ordine sparso: Nunzio Gringeri, Giuseppe Cassone, Elisa Leonzio, Claudia Valentini, Cavezzi, Elena Arcidiacono, Loris Rizzo, Gianluca Palma, Viola Mondello, Nora Cavaccini, Giada Negri, Francesca Dallasta, Giulia Priore, Ivano Talamo, Paola Moretti, Elisa Barrotta, Pietro Romeo, Salvatore Matranga, Federico Giamperoli, Davide Grimoldi.
L’illustrazione di copertina è di Luisa Barbero
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