L’illustrazione di copertina è di Victor Cavazzoni
La composizione del pezzo è a cura di Mauro Mondello
Abbiamo chiesto a tutti i membri della redazione di inviarci una lista con i cinque film girati negli anni Duemila, nel decennio 2000-2009, secondo loro più belli e importanti. Per provare a rendere la rilevazione ancora più oggettiva, abbiamo ampliato il parterre di contributi, aggiungendo al conto oltre quaranta liste inviate da esperti esterni, scelti in un intervallo vario e trasversale di età, occupazione, residenze e interessi.
E’ un momento di grande trasformazione per cinema, quello del primo decennio del Duemila. L’abbandono quasi definitivo della pellicola e il passaggio al digitale modifica radicalmente l’approccio tecnico e autoriale, modificando per sempre l’idea visiva e narrativa del concetto filmico. La nuova epoca tecnologica porta con sé l’affermazione di nuovi autori, come Christopher Nolan, Sofia Coppola e Paul Thomas Anderson, ma anche la conferma di chi aveva fatto già grandi cose nei decenni precedenti, su tutti David Lynch, Quentin Tarantino, Wes Anderson e i fratelli Coen.
Come sempre accade in queste liste, tanti film che sarebbe stato bello inserire sono invece rimasti fuori. Ci teniamo a citare, fra gli esclusi che avrebbero meritato di esserci, La città incantata, Dolls, Dancer in the dark, Gangs of New York, Arca Russa, Dieci, Paranoid Park, La Mala Educacion, Collateral, Amores Perros, Batman-Il cavaliere oscuro, History of violence, Couscous, Millennium Mambo, I figli degli uomini, L’Enfant, La morte del signor Lazarescu.
La scelta definitiva è stata così realizzata:
1) I ventuno film che hanno effettivamente accumulato più voti;
2) Sei film che sono stati votati, non ce l’hanno fatta ad entrare fra i primi venti, ma che la giuria di qualità ha ripescato perché considerati meritevoli;
3) Sei film che non ha nominato nessuno e che sono stati scelti dall’eccezionale giuria di qualità, di cui non possiamo rivelare i nomi per questioni di privacy e prestigio (fra i componenti e le componenti vi sono grandi nomi della critica cinematografica mondiale, che non possono, per contratto, comparire su Yanez).
Le liste non accontentano mai nessuno, e sono difficili da stilare, ma noi ci abbiamo provato.
Si tratta di un divertissement, e come tale va preso.
Avvertenze: gli scritti che accompagnano i film nominati sono di vario stile e forma, non seguono la regola statica della recensione e si propongono, piuttosto, come dei commenti aperti, dei racconti, dei ricordi, delle cronache di visione.
Qui la lista dei 33 migliori film degli anni Sessanta
Qui la lista dei 33 migliori film degli Settanta
Qui la lista dei 30 migliori film degli anni Ottanta
Qui la lista dei 30 migliori film degli anni Novanta
33. Fantastic Mr. Fox (Wes Anderson, 2009)
E’ vero, negli anni 2000 sono probabilmente stati girati film di animazione con più successo di Fantastic Mr. Fox. Ma c’è un particolare, e non da poco, che rende questo lavoro diverso da tutto gli altri: il fatto di essere stato realizzato in uno stop motion semplicemente meraviglioso. E’ magico vedere come Wes Anderson, che di solito trasforma idee animate in film umani, compia qui il processo contrario, umanizzando i personaggi animati. Ciò che resta impressa, più di ogni altra cosa, è la capacità di costruire personaggi così profondamente caratterizzati. Il mio preferito, di gran lunga, è l’opossum Kylie, “un tipo incredibilmente gentile”, come lo definisce Mr. Fox, senza nessun talento speciale, a differenza degli altri animali del film, ma pronto a seguire Mr. Fox in capo al mondo, dando una mano, per quello che può. Kylie ogni tanto si distrae, ad esempio quando nei dintorni ci sono delle bottiglie di sidro di mele, e allora i suoi occhi si trasformano in vuote spirali turbinanti. Rimane, immobile, come ipnotizzato, nel suo completo di gilet, cappello con esche e pantaloncini da pescatore: “an incredibly nice guy”. Come sarebbe bello, un mondo con più Kylie.
Mellone Mutandinito
32. I cento passi (Marco Tullio Giordana, 2000)
“È a te che parlo, che hai una faccia pulita. Non è a loro che sto parlando, che hanno paura a farsi vedere che stanno ascoltando”.
Ci sono persone che si sacrificano per il bene comune. Persone come Peppino Impastato, il protagonista di questo film, come Daphne Caruana Galizia, Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Piersanti Mattarella e come Aldo Moro, ucciso il 9 Maggio 1978, nello stesso giorno dell’assassinio di Peppino. Eroi normali, disposti a farsi ammazzare per i propri valori.
Ecco, voglio pensare che Peppipo Impastato sia stato su questa terra per insegnarceli quei valori, per farci vedere come si deve guardare il mondo, senza alternative. La sua non è una visione, una Weltanschaung, come dicono in Germania, opinabile. Quella di Peppino è “La visione del mondo”, quella giusta, l’unica che possa esistere. Quella riservata ai coraggiosi che credono ancora nella bellezza, quelli che vogliono immaginare che un mondo più bello, migliore, più giusto, sia ancora possibile. Quelli che non hanno paura di andare controcorrente, per il bene comune.
Quanto ne abbiamo bisogno di persone così; cosa possiamo fare noi? Onorarle, noi possiamo onorarle. Noi dobbiamo onorare il loro sacrificio, guardando e riguardando, ad esempio, questo film meraviglioso, fino ad impararlo a memoria, per tenerci dentro l’esempio che vuole trasmetterci, perché è solo con l’esempio che si può cambiare il mondo.
“Invece della lotta politica, della coscienza di classe, di tutte le manifestazioni e fesserie, bisognerebbe ricordare alla gente che cosa è la bellezza, aiutarla a riconoscerla, a difenderla. È importante la bellezza, da quella scende giù tutto il resto”.
Silvia Caneva
31. Little Miss Sunshine (Jonathan Dayton e Valerie Faris, 2006)
“What is your daughter doing?”
“She’s kicking ass that what she’s doing!”
Strada. America. Un minivan sfreccia in una giornata assolata. Alla guida il capofamiglia, Richard Hoover (Greg Kinnear), che, nonostante sia l’autore del libro “I nove passi per raggiungere il successo” è ancora, di fatto, ben lontano dal raggiungerlo, il successo, nella propria vita professionale e privata. Al suo fianco la moglie Sheryl (Toni Colette), madre amorevole e a tratti nevrotica, indaffarata a tenere insieme i pezzi della sua famiglia. Nel sedile centrale la simpatica bimba occhialuta Olive (Abigail Breslin) che sogna di diventare Miss America, pur non rappresentando il prototipo di bellezza da concorso: per inseguire il suo sogno la famiglia ha deciso di mettersi in viaggio. Accanto a lei siede lo zio Frank, professore gay in cerca di protezione e conforto dopo aver recentemente tentato il suicidio per la drammatica fine di una relazione. E poi il nonno paterno, Edwin (Alan Arkin), arzillo vecchietto fissato con il sesso, cacciato dalla casa di riposo perché cocainomane, eppure amorevole, nonché unico fan, con la piccola Olive. Infine, Dwayne (Paul Dano), il fratello di Olive, chiusosi in un mutismo assoluto quale voto per il suo progetto di entrare all’accademia aereonautica.
Sono una famiglia decisamente sgangherata gli Hoover. Un concentrato di debolezze, insicurezze, paure e fallimenti. Prodotto avariato di una società contemporanea che ci vorrebbe tutti perfetti e vincenti. Ma quella che sale sul pulmino giallo per raggiungere la sede del concorso di bellezza “Little Miss Sunshine”, è una famiglia né perfetta, né vincente: saranno proprio le difficoltà che incontreranno lungo il travagliato road trip familiare a permettergli di affrontare tutte le questioni aperte, a trovare una chiave per crescere in quello che diventerà una sorta di viaggio di formazione collettivo.
Ciò che colpisce di Little Miss Sunshine non è tanto il raccontato, ma soprattutto il come. La leggerezza e la sensibilità con cui si narra la storia lo rendono un film speciale. Ne esce così un lavoro solare, vero, mai superficiale, delicatamente tragicomico. Diretto dalla coppia, esordiente sul grande schermo, formata da Jonathan Dayton e Valerie Faris, ben recitato da un mix di professionisti navigati e attori alle prime prove importanti, il film può contare anche su una notevole colonna sonora e su una fotografia coinvolgente.
Partito nel circuito indipendente americano, Little Miss Sunshine ha da subito iniziato a raccogliere premi e consensi da pubblico e critica, tanto da meritarsi ben due premi Oscar (Miglior sceneggiatura originale a Michael Arndt e Miglior attore non protagonista ad Alan Arkin).
Insomma, si tratta davvero di un piccolo capolavoro, da vedere e consigliare, che merita di stare tra i migliori film degli anni 2000.
Pier Attilio De Luca
30. Requiem for a Dream (Darren Aronofsky, 2000)
Un dramma psicotico, talmente intenso e trascinante da far venire il mal di stomaco. Basato sull’omonimo romanzo di Hubert Selby Jr., il film di Aronofsky ci immerge nella realtà allucinatoria dei quattro protagonisti e delle loro dipendenze. Sentiamo i loro tormenti, la disperazione nella quale sono bloccati a causa della loro ossessione per la droga, la velocità con la quale essa ha effetto, ma anche la rapidità con cui l’effimera pace scompare, per lasciare il posto alla cruda realtà dei fatti.
C’è il personaggio di Sara Goldfarb, soprattutto. Una vedova la cui dipendenza è la televisione. Un giorno riceve una chiamata in cui le comunicano di aver vinto la possibilità di apparire in uno show. Per l’occasione, lei vuole obbligatoriamente entrare nel suo vestito rosso, la sua vita non ha altro scopo che dimagrire per entrare in quel vestito prima di andare in tv. Un dottore le prescrive allora delle anfetamine, per annullare l’appetito. “Adesso sono qualcuno, tutti mi vogliono bene. È un motivo per alzarmi al mattino, per sorridere, per pensare che il domani sarà bello. Che cos’altro ho?”
Senza rendersene conto, comincia a rimanere intrappolata in un circolo di allucinazioni.
La fine si avvicina in modo sempre più rapido, con una serie di sequenze perturbanti. Più si va avanti, più i protagonisti si deteriorano. Hanno raggiunto la loro destinazione ultima insieme ai loro sogni e no, non c’è un lieto fine, ma una realtà delirante e catastrofica. Pochi film, nella storia, hanno la stessa capacità di Requiem for a dream di suscitare tanta repulsione per le dipendenze da droga, per gli stati mentali che ne derivano.
Veronica Savastano
29. La ciénaga (Lucrecia Martel, 2001)
Non si capisce dove cominci e dove finisca. Stai a guardarlo e hai la sensazione di essere arrivato con il film già iniziato da venti minuti. E’ un’osservazione estrema, questo primo lungometraggio di Lucrecia Martel, che ci porta nella città di La Ciénaga, vicino a Salta “la linda”, nel Nord-Ovest argentino, raccontando le vicissitudini quotidiane di due famiglie in vacanza in una villa di campagna, nel caldo insopportabile del settentrione a poche ore dal confine boliviano. C’è tutto un mondo di classi sociali che si esprime all’ennesima potenza. E poi paure, insicurezze, amori, educazioni: i momenti di vita esplodono e si disintegrano in un caleidoscopio spezzato di riflessioni che vanno ben oltre i confini dell’Argentina. Un film carnoso, carnale, di giovani che si innamorano o che vorrebbero innamorarsi, di bambini che fanno confusione, di adulti stanchi e panzuti. Mecha, la protagonista, si lamenta di continuo, ma con una superbia sottintesa che riesce a risvegliare, per ben che vada, un po’ di compassione, ma mai la comprensione. Si ride molto, si pensa ancora di più. Come scrisse sul The Observer il giornalista Peter Preston nell’ottobre del 2001, dopo la prima visione in un cinema londinese, “non ti viene voglia di andare, a La Ciénaga, dopo averla vista, perché, giù nel profondo, ti rendi conto che in realtà ci sei già stato”.
E questa è una certezza: a La Ciénaga ci siamo stati tutti.
Mefluollio Madonticisto
28. Le avventure acquatiche di Steve Zissou (Wes Anderson, 2004)
Steve Zissou mi ha insegnato molte cose sul mare. Le sue avventurose immersioni sono state una rivelazione, una porta su un mondo parallelo dove i pesci non appaiono grigi e sbiaditi, come li si vede fuori dall’acqua, ma con colori abbaglianti, mentre si muovono danzando con sorprendente coordinazione. Un universo quasi finto, dove persino un uomo attempato risulta leggiadro e aggraziato, discreto testimone di un luogo privato, in grado di rivelarsi solo a chi riesce ad essere paziente. Grazie ai marinai della Belafonte ho imparato che a bordo di una nave le persone si trasformano nel proprio ruolo e divengono fondamentali. La vastità del mondo si incapsula in pochi metri quadrati, ma riesce comunque a mantenerne proporzionata la diversità, come in un ecosistema equilibrato. In alto mare le regole cambiano e la vita ondeggia, quando la superficie si increspa anche le emozioni lo fanno un po’, si estraniano da normale flusso degli eventi e si incastrano in un continuo presente.
Il mare mi ha insegnato molte cose su Steve Zissou. Dopo aver sperimentato piccole avventure acquatiche in prima persona, ho scoperto che era tutto vero, che il mondo parallelo esiste e al largo la realtà si distorce. Ma soprattutto ho imparato che all’oceano non importa delle tue attentissime pianificazioni, dei tuoi progetti organizzatissimi, delle tue aspettative o ancora delle tue minuziose previsioni metereologiche. Lui fa sempre di testa sua, per cui tanto vale mettersi l’animo in pace.
Caterina Coral
27. L’uomo senza passato (Aki Kaurismaki, 2007)
Poteva mancare Kaurismaki in questa lista? No, non poteva. E poi questo lavoro è la condensazione definitiva di tutta l’idea di cinema del regista finlandese. Un film gentile, calmo, dove ogni cosa, dal modo in cui cammina lo sventurato protagonista ai colori dei palazzi, ha una luce, un tono, un ritmo, semplicemente unico. L’uomo senza passato è l’ennesima parabola kaurismakiana dedicata ai più deboli, declinata attraverso un susseguirsi di piccoli avvenimenti semplici che vengono descritti con un tocco di dolce surrealtà: un lavoro da cui è impossibile non rimanere affascinati, per le cadenze sottili dei dialoghi, per i vestiti consunti ma sempre dignitosi di chi popola lo schermo, per l’immutabile speranza da cui veniamo avvolti. I modi da commedia sono sempre un po’ assurdisti, come quando Anttila, una guardia giurata, accusato di essere grasso, risponde: “tieni il mio metabolismo fuori dalla nostra discussione”.
Ma è in un altro scambio, che resta tracciata l’essenza di ciò che Kaurismaki ci vuole raccontare. M, il protagonista, chiede a un elettricista quanto gli deve, dopo un lavoretto di straforo per allacciare un contatore illegalmente. “Se un giorno dovessi trovarmi a faccia in giù, per strada, girami sulla schiena”, risponde l’elettricista con un’alzata di spalle, prima di andarsene.
Abbiamo bisogno di più cinema di Kaurismaki. E di più personaggi kaurismakianti: dentro e soprattutto fuori dallo schermo.
Maspertina Mugigattoli
26. Still Life (Jia Zhangke, 2006)
Vinse il festival del cinema di Venezia, equivalente a una certificazione intercontinentale di mattone inavvicinabile. E invece no. E’ un esplorazione visiva di sublime compostezza, questa di Zhangke, che mischia tecnica documentaristica, visioni oniriche, personaggi cui ci si affeziona attraverso la lunghezza dei lunghissimi sguardi della camera. All’inizio degli anni Duemila il governo cinese decise di realizzare la più grande centrale idroelettrica al mondo. Per farlo allagò il bacino del fiume Yangtze, portando allo sfollamento di quasi due milioni di persone, le cui città sparirono, travolte dall’acqua in nome del progresso. E’ questa storia che Still Life racconta, in maniera emotiva, densa, lattiginosa, costruendo dei quadri in movimento dentro cui i personaggi si trascinano incerti, soggetti straordinari che incorniciano i cambi, umani e naturali, cui siamo destinati a causa dello strapotere del capitalismo. Comprate un pacco di biscotti, possibilmente a forma di animaletto, mettetevi comodi e mangiateveli tutti, mentre dedicate un’ora e mezza della vostra vita all’osservazione compassata di un tumulto.
Muschio Manghi-Mortaretti
25. Mystic River (Clint Eastwood, 2003)
Fra gli oltre quaranta film che Clint Eastwood ha realizzato come regista, Mystic River (tratto da un romanzo del 2001 di Dennis Lehane, uno dei maggiori scrittori thriller statunitensi) è considerato uno dei suoi migliori per la regia e per l’interpretazione straordinaria degli attori, in particolare Sean Penn e Tim Robbins, che hanno vinto entrambi il premio dell’Academy Awards nel 2004 come attore protagonista e attore non protagonista, nell’ordine. Che due attori dello stesso film si aggiudicassero entrambi i premi era accaduto solo con Ben-Hur nel 1959.
Siamo nel 1975. Tre ragazzini di Boston, Sean, Jimmy e Dave giocano per strada a hockey quando una macchina si avvicina. Un uomo li rimprovera severamente e intima a Dave di salire in auto, che a casa ce lo porterà lui. Nel sedile anteriore dell’auto si intravede una sagoma, che appare essere quella di un sacerdote. Di Dave non si saprà nulla per i successivi quattro giorni. Attraverso questa scena preliminare, il Male fa irruzione subito nel film e si insinua lentamente nel subconscio dello spettatore, lasciandolo alla percezione della presenza dell’angoscia, che da questo momento in poi aleggerà come una fatale potenza metafisica.
L’azione riprende 25 anni dopo e siamo sempre a Boston, nel quartiere di East Buckingham, una zona periferico da cui nessuno se ne è mai andato, in cui tutti conoscono tutti. Sul destino della comunità irrompe di nuovo la violenza: qualcuno ha colpito e poi ucciso con un colpo di pistola Katie, la figlia di Jimmy: il corpo viene ritrovato nel parco. Un’altra ineluttabile condanna si abbatte sul destino di Dave, che viene incolpato dell’omicidio. Sean (Kevin Bacon) è il poliziotto del Massachusetts State Police incaricato di svolgere le indagini. I tre amici si ritrovano e le loro vite saranno di nuovo unite dalle trame che sembrano seguire l’intervento di un ordine soprannaturale, che va al di là delle intenzioni e delle scelte dei singoli.
Benché gli interessi religiosi di Clint Eastwood siano orientati verso il buddismo e concezioni deiste, in Mystic River sembra invece essere all’opera un retaggio dell’infanzia del regista (che ha compiuto 90 anni proprio alcuni giorni fa), ovvero il fatto di essere cresciuto in una famiglia protestante. La concezione del destino che nel film guida in maniera deterministica (un evento accaduto nell’infanzia ha effetti che si manifestano venticinque anni dopo) le vite e le decisioni dei personaggi, fa venire in mente quella del dio del Vecchio Testamento. Un dio spietato, terribile, vendicativo. Come quello che alimentava lo spirito dei Padri Pellegrini, i puritani inglesi che nel 1620, a bordo della Mayflower, attraversarono l’Atlantico per colonizzare in quella che sarebbe stata chiamata Nuova Inghilterra, sulla costa nordorientale degli USA, e fondare, fra le altre, proprio la città di Boston.
Alessandro Borscia
24. Ferro 3 – La casa vuota (Kim Ki-duk, 2004)
“Ferro 3 – La casa vuota” è un film ed è anche una poesia. I dialoghi sono praticamente inesistenti e a parlare per i protagonisti è quasi sempre un’unica melodia (Gafsa di Natasha Atlas, tratto dal suo secondo album Halim). Alcune inquadrature sono straordinarie – Kim Ki-Duk prima di diventare regista era pittore – ma è la storia narrata in Ferro 3, il modo in cui è raccontata, il perfetto equilibrio tra violenza e poesia, e anche i personaggi stessi e la loro impeccabile performance in questo film, che rende la pellicola una vera opera d’arte: leggera e allo stesso tempo forte, magica, intesa, ricca di meraviglia. È nell’immagine finale di Ferro 3 che si condensa in modo delicato ed estremamente potente, commuovente, l’intera poetica della pellicola: “It’s hard to tell that the world we live in is either a reality or a dream”, è difficile dire se il mondo in cui viviamo sia realtà o sogno, e questo “tra sogno e realtà” è la visione del mondo di Ferro 3, che indaga la percezione della presenza e dell’assenza e il modo di occupare lo spazio delle persone. Tra i film di Kim Ki-Duk che ho visto, questo è uno di quelli che amo di più. C’è stato un momento della mia vita, quasi quindici anni fa, in cui ero proprio innamorata: i suoi film comunicavano con aspetti di me profondi, segreti, fertili e affascinanti, belli di quella bellezza che non è fine a se stessa, ma che ti fa scoprire delle dimensioni diverse in cui evidentemente io avevo bisogno di sguazzare. In quel periodo ho visto, “Primavera, estate, autunno, inverno … e ancora primavera”, “L’arco”, “La samaritana”, “Time”, e “Ferro 3” naturalmente… A una fiera avevo comprato dei piccoli bindi colorati, e ne mettevo uno giallo, uno nero e uno rosso a formare un triangolo vicino all’occhio, come la ragazza del film “L’arco”. A chi mi chiedeva, dicevo che era una citazione, ma non ho mai incontrato nessuno che abbia capito di che. Poi vado in Nuova Zelanda, a Auckland, e conosco Rosa, che veniva da Seul. Le dico del mio amore per il regista, lei allora, sorpresa, mi insegna a pronunciare il nome di Kim Ki Duk e poi mi dice che se, nel caso in cui lo incontrassi, mi rivolgessi a lui come “Oppa”, facendo un gesto specifico con la mano, come di un fiore che sboccia, allora lui di sicuro capitolerebbe ai miei piedi. In ogni caso mi dimenticai di Kim Ki-Duk, innamorandomi perdutamente di Rosa: e comunque lui non l’ho ancora mai incontrato. Una delle scene del film che mi piace di più è quando il ragazzo, Tae-suk – il suo nome non viene mai pronunciato durante il film – è in prigione (e qui come non pensare ad Edmundo Dantes?) e studia, canalizzando le energie delle aquile, come diventare invisibile: Tae-suk fa suo ogni millimetro della cella con tutto il suo corpo, in modo quasi passionale: è qui che il limite tra quello che l’occhio umano non può vedere e ciò che non c’è davvero si fa sfumato, rarefatto, tanto che durante quelle scene ci si chiede più volte se lui sia scappato davvero da quella cella ad alta sicurezza da cui è praticamente impossibile evadere, se si sia nascosto o se sia semplicemente svanito nel nulla: sarebbe possibile, perché nei film di Kim Ki-Duk la magia esiste.
Virginia Patrone
23. City of God (Fernando Meirelles, 2002)
Nel settembre del 2016, durante le Paralimpiadi di Rio de Janeiro, passeggiavo sul lungomare da Copacabana a Ipanema. Le due celeberrime spiagge si congiungono a formare un piccolo promontorio, superato il quale ti si apre allo sguardo la zona occidentale della città, con le sue colline ricoperte dalle favelas di Rocinha e di Vidigal, affacciate sull’oceano. La Cidade de Deus è invece ancora più a ovest e più spostata verso il centro, poco più a nord rispetto alla zona dell’allora Parco olimpico, da lì praticamente invisibile, stante i moltissimi edifici, quasi quartieri interi, costruiti in occasione delle Olimpiadi.
Ricordo di aver pensato, allora, che fosse questa la peculiarità delle favelas: esse compaiono e scompaiono all’improvviso, dalla vista e dalla coscienza, un po’ per l’intervento di edificazione dell’uomo e un po’ per la conformazione collinare della città, che spesso le cela, salvo poi sbattertele letteralmente in faccia dopo una curva o nello squarcio fra due grattacieli.
Lo stesso destino le favelas di Rio subirono – e la cosa fu oggetto di aspre polemiche – nella rappresentazione molto edulcorata che se ne fece durante i giochi olimpici, a cominciare dalla cerimonia inaugurale allo stadio Maracanã curata proprio dal regista Fernando Meirelles, che nel 2002 aveva girato Cidade de Deus e portato la realtà delle favelas agli occhi del mondo.
Tanto colorate, un po’ folcloristiche e decisamene ripulite apparivano le favelas nelle proiezioni della cerimonia (ma si potrebbe dire altrettanto dell’intera Rio, dove militari con il mitra puntato, schierati a ogni angolo, si esibivano orgogliosi in retate di ragazzini per le strade), quanto invece erano riprodotte nella loro atroce nudità nel film: pochi gesti di fratellanza e amicizia, e per il resto un vuoto desolante, riempito di una violenza esercitata nell’inconsapevolezza della morale e nell’indifferenza per qualsiasi finalità che non sia perpetuare se stessa. Al di là del bene e del male.
Elisa Leonzio
22. Brother (Takeshi Kitano, 2000)
Takeshi Kitano è davvero una figura unica nel panorama cinematografico contemporaneo. Forse perché più simile e vicino a certi attori attivi negli anni ’50, ancora fermamente legati alla tradizione teatrale, ai tempi teatrali, prestati al cinema perché il mezzo è diventato il messaggio, per dirla con McLuhan. Attori che sanno che il teatro ha questo, di bello: consente (o impone) agli interpreti di cambiare registro più rapidamente, rispetto al cinema, perché sono loro a guidare la scena, forse più dello stesso regista. Che sanno che non è il montaggio, non è la storia, ma il loro corpo a fare da perno alla drammaturgia con la sua stessa esistenza.
E quando uno ha la faccia di Kitano, anche al cinema, è comunque quella a dettare i tempi, diventa essa stessa tempo. Come il Sole.
In questo senso, ancor più che in quello registico, l’attore di Asakusa-Tokyo è quintessenza del Giappone, pura materia e puro spirito come le stelle; e fortunatamente senza autocelebrazione, benché ami stare sia davanti che dietro la cinepresa.
Brother, film numero nove di Kitano (il primo girato negli USA), aggiunge però un tassello al senso del suo cinema, perché si tratta del suo film più politico, strettamente legato a quella che è stata l’evoluzione dell’impero nipponico nel dopoguerra. Al centro del film sta infatti il tema del rapporto con gli Stati Uniti, quelli che non solo hanno colonizzato la cultura del Sol Levante, allo stesso modo che in Europa, ma che lo hanno fatto nel peggiore dei modi, sganciando le bombe atomiche perché questo avvenisse.
In Brother, Kitano attraversa l’Oceano per cercare suo fratello, ma il fratello che cerca è per l’appunto la cultura americana, dalla quale in parte è stato allevato. La yakuza è solo un pretesto.
Scrive Ruth Benedict ne Il crisantemo e la spada, che i giapponesi dopo Hiroshima iniziarono un percorso di rinascita basato sul presupposto che ciò che accadde altro non fu che una inevitabile catastrofe. Ma non come una specie di punizione divina, che all’interno dell’universo panteista shintoista avrebbe avuto forse un senso. Ma come un dato di fatto, un semplice accadimento, un rapporto causa-effetto che archiviò in un soffio secoli di storia. Una clamorosa rimozione pubblica, diremmo noi europei, che sappiamo (dovremmo sapere) che come tutte le rimozioni è destinata a rimanere in bilico, a traballare come la terra da quelle parti. Kitano si muove su quel filo incerto e fragile, cercando di non spezzarlo, ma cercando anche di farci i conti senza alcuna pretesa, di capire chi è stato l’interlocutore di una vita, quello per il quale si è invertita una rotta che durava da millenni, in mezzo all’oceano e ai vulcani.
E tutto questo con la consueta capacità di mischiare generi e atmosfere, prendendosi sul serio quando serve, ma sempre pronto a lasciarsi andare a una risata. Con una delicatezza che è tipica di certo cinema giapponese, come quello di Yasujirō Ozu, di cui Kitano è il vero erede. Con gli occhi rivolti all’America armata, come quella di Tarantino.
Un Kitano una volta di più bifronte, come il suo Giappone.
Piera Ghisu
21. Oro Rosso (Jafar Panahi, 2003)
Questo film lo vidi al cinema Excelsior di via Santa Sofia, a Padova. Con il libretto universitario lo spettacolo costava 3 euro. Certo, non c’erano poltrone comode ad attendarti, ma lise stoffe di tessuti acrilici ormai sgommati da qualsiasi fluido e odore. Tanti film ci ho visto all’Excelsior, anche vecchi. Il bidone di Fellini, Apocalypse Now Redux, Stalker, Le conseguenze dell’amore, per dire. E poi nella viuzza, che era in verità un corridoio stretto stretto in cui a stento stavano tre persone, c’era una trattoria bellissima, Da Nane della Giulia si chiamava: chissà se esiste ancora. C’erano il menu scritto a mano in una grafia che mi piaceva tanto, e i bigoli con il ragù di cinghiale, il pane fatto in casa, buono, e le tovaglie a quadri. Anche Oro Rosso ho visto al cinema Excelsior. Però quella sera non sono andato a mangiare in trattoria, che in realtà era un caso succedesse. No. Quando si andava al cinema si passava prima per la mensa di via S.Francesco, l’unica aperta anche di sera. 7 euro per primo, secondo, contorno, dolce e bibite (comprese birra e vino) a scarico libero. E poi si digeriva al cinema. Che ricordo morbido che ho di questo film, un lavoro doloroso, malinconico, eppure così pieno di energia, così straripante di cultura. Panahi ci porta nella Teheran del tempo, in sella al motorino di Hussein, che girovaga nell’immenso traffico della città consegnando pizze dall’incerto gusto. Ci si affeziona così tanto a questo ragazzone dalla faccia un po’ rintronata, che quando tutto finisce, e ti rimetti in bici per tornare a casa pedalando lento sotto i portici di Via San Francesco, resti un po’ malinconico. Forse vorresti essere anche tu in Iran.
Mazino Mentrepassa
20. Le conseguenze dell’amore (Paolo Sorrentino, 2004)
Una gru scende sopra uno scavo a cielo aperto. Trascina un uomo dentro l’impasto di cemento bagnato. L’uomo scende lentamente; il cemento liquido si espande sopra il peso del suo corpo e si richiude. Il respiro dell’uomo altera la superficie molle con piccole bolle d’aria. È un secondo, forse due.
Nello stesso istante, nelle montagne innevate del Trentino-Alto Adige, un uomo sulla cinquantina svetta su una gru e ripara le linee dell’Enel. Il cielo è quello gelido e rosa dell’alta montagna; il vento è freddo, e l’uomo si stringe sotto i suoi indumenti pesanti. Ci sono solo le montagne, e lui.
Nel 2014, con La Grande Bellezza, Paolo Sorrentino vince l’Oscar per Miglior Film Straniero. Con un forte accento napoletano, l’anellino d’argento all’orecchio, i movimenti un po’ impacciati per la semplicità dei modi più che per l’emozione, fa un discorso brevissimo. Ringrazia la città di Roma, Napoli, “the big sources of inspitation” – Federico Fellini, Martin Scorsese e Diego Armando Maradona, e dedica il premio ai suoi genitori. In altre occasioni ha ringraziato Maradona per avergli “salvato la vita”. Ed è stato davvero così: una sera del 1976, quando aveva 16 anni, era con gli amici a vedere una partita del Napoli. Quella stessa notte, mentre lui era fuori, il monossido di carbonio della stufa di casa uccise i suoi genitori.
Il Sorrentino di quel discorso – emotivamente carico e al contempo asciutto, dall’estetica potente in quanto minimale – è quello che ci manca. Quello dei monologhi de Il Divo; quello che non c’è ne La Grande Bellezza (che pure ha altri pregi); quello che si ricorda solo appena, in pochissime scene, in Loro; quello che rende Le Conseguenze dell’Amore uno dei film italiani più belli degli ultimi vent’anni.
Le Conseguenze dell’Amore è un film sulla solitudine, sull’amore, sulla mafia, sulla responsabilità. È un film sulla ripetitività, gli spazi chiusi, sull’immaginazione e la libertà. Un film sul silenzio, sui confini: sulla distesa infinita del mondo interiore.
È un film che riesce a parlare di tutto questo, e lo fa per sottrazione. Lo fa con un’estetica minimale, geometrica; con le linee verticali e orizzontali delle scene a campo lungo, degli spazi scarni e spogli dei non-luoghi (aeroporti, parcheggi sotterranei, centri commerciali semi-vuoti), delle poche comparse senza volto che interrompono la staticità della fotografia – piccoli esseri in movimento intrappolati nella geometria dell’esistenza.
Lo fa con una sceneggiatura potentissima eppure silenziosa. Le battute del protagonista Titta di Girolamo (Toni Servillo) sono poche ma pregne – di significato, di emozione, di un mondo interiore senza confini, costretto e contenuto entro i limiti dell’esistenza criminale in un hotel.
La recitazione eccezionale di Toni Servillo, anche questa, è “sottratta”, ridotta al minimo, eppure esplosiva – negli occhi che si dilatano per la paura, nel sorriso appena accennato per la felicità; nelle emozioni raccontate dal suo volto, dai leggeri movimenti del busto, e nient’altro.
Combinando la musica da camera di Pasquale Catalano con l’elettronica e il post-rock, nuovi per il cinema italiano (Mogwai, Lali Puna), la colonna sonora non solo accompagna la geometria perfetta del film, ma diventa un elemento narrativo, ci guida nei momenti di svolta e, soprattutto, ci parla delle emozioni del protagonista, così contratte e contenute nel suo silenzio e nella sua solitudine.
Le Conseguenze dell’Amore ci parla della mafia di oggi, che non è quella dei personaggi macchiettistici con le tigri in casa, ma è quella del rumore delle mazzette che vengono contate dai funzionari invece che dalle macchine, perché per Titta di Girolamo “Non bisogna mai smettere di avere fiducia negli uomini. Il giorno che accadrà sarà un giorno sbagliato”. Ci parla delle colpe, della responsabilità individuale. “La sfortuna non esiste – dice Titta di Girolamo sull’errore sciocco per cui è finito nella camorra – È un’invenzione dei falliti”.
Ci parla dell’amore, e del dolore, e della solitudine. Nello sguardo sospeso e deluso nell’ultima scena in cui compare Sofia, la cameriera di cui si innamora che pensa che lui l’abbia abbandonata (Olivia Magnani, perfetta nella sua bellezza da ragazza della porta accanto e nella sua recitazione senza pretese, da ragazzina). Nei milioni di dollari in contanti che Titta di Girolamo fa trovare alla coppia anziana che lo fregava al gioco, ma di cui ascoltava i dialoghi la notte, sognando il loro amore. Nell’ultima scena, magistrale, in cui l’ultimo pensiero di Titta di Girolamo va a un uomo che non vede da vent’anni.
“Una cosa sola è certa; io lo so. Ogni tanto, in cima a un palo della luce, in mezzo a una distesa di neve contro un vento gelido e tagliente, Dino Giuffré si ferma, la malinconia lo aggredisce e allora si mette a pensare. E pensa che io, Titta di Girolamo, sono il suo migliore amico”.
Enrica Fei
19. Il ritorno (Andrey Zvyagintsev, 2003)
Era un disegno meraviglioso.
Un amico mi mostrava una riproduzione a matita del Cristo alla colonna di Antonello da Messina. L’aveva fatta di fronte all’originale, che è esposto al Louvre.
Dopo 550 anni l’osservatore non prova nessun senso di colpa di fronte all’immagine dell’Uomo della Passione, sentimento che invece provavano i contemporanei di Antonello, ma può ancora notare negli occhi del Cristo la fiducia nel senso della sua sofferenza. Anche nel Cristo del mio amico c’è questo dolore, addirittura nel suo ce n’è di più, perché è un dolore disperato, irriducibile e senza fede nella resurrezione che il mio amico, che non è credente, non ha voluto o potuto cogliere.
Ne Il ritorno, esordio cinematografico del regista russo Andrej Zvjagincev (con cui ha vinto nel 2003 il Leone d’oro a Venezia), è raffigurata un’altra opera italiana di appena pochi anni posteriore di quella di Antonello. Si tratta del Cristo morto di Andrea Mantegna, oggi conservato nella Pinacoteca di Brera a Milano.
Nel film i figli vedono il padre addormentato, ma lo spettatore pensa al Cristo di Mantegna e vede un uomo morto.
Siamo calati nella prospettiva dei figli e quindi dobbiamo convincerci che quello che vediamo è solo un uomo addormentato e che questa rappresentazione del Cristo morto è un virtuosismo o una lusinga al côté intellettuale dello spettatore. Invece Zvjagincev applica con rigore una delle leggi più importanti del cinema: se noi vediamo una pistola, quella pistola prima o poi sparerà.
E così, se noi vediamo un uomo morto, quell’uomo morirà.
Flavio Villani
18. Il pianista (Roman Polański, 2002)
Quando ero piccola, mio nonno mi raccontò che una notte durante la guerra, mentre la sirena d’allarme preannunciava le bombe, lui prese il fratellino che dormiva nella culla, lo avvolse in un fascio di coperte e si mise a correre insieme alla sua famiglia e ai suoi vicini in cerca di riparo. Il fratellino scivolò giù dal fagotto e cadde a terra, ma lui non se ne accorse neanche. Per fortuna lo raccolse una signora alle sue spalle e tutto andò poi nel migliore dei modi.
Questa storia mi ha sempre fatto pensare. Da quel giorno ho iniziato a chiedermi: cosa farei io in una situazione sul filo tra la vita e la morte? Se intorno a me imperversasse la guerra, come reagirei? Ecco, nel film, quando d’un tratto le bombe irrompono prepotenti a interrompere la melodia del pianoforte, mentre tutti corrono tra polvere e fumo, due ragazzi si fermano sulla tromba delle scale, si guardano negli occhi appassionati e si mettono a discutere della bellezza della musica. Assurdo, mi sono detta. Più assurdo della guerra stessa e di tutte le sue aberrazioni, però? Non sono stata in grado di rispondermi.
La guerra in questione è la Seconda Guerra Mondiale e nel film viene raccontata dalla prospettiva di un pianista nella città di Varsavia che vede progressivamente restringersi attorno a sé lo spazio vitale e sociale in cui può agire, fino a regredire alla condizione di animale sgradevole affamato e solitario, costretto a vivere nascosto.
Tanto si potrebbe dire di questo film, ma tutto sembra banale. Nessuna parola mi sembra in grado di raccontare la morsa allo stomaco che si stringe impietosa man mano che scorre la narrazione, giustamente lenta (150 minuti) e atroce.
Potrei provarci, certo, potrei parlare degli spazi che da ariosi, eleganti, ampi e vissuti si fanno via via sempre più ristretti, scarni, angusti e sporchi. Affollati, soprattutto. Finché i vagoni stipati all’inverosimile non lasciano la città. Allora gli spazi tornano ampi e ariosi, ma vuoti.
Potrei parlare dei colori, di quelli vivaci e brillanti della vita che scorre normale di là dal muro del ghetto e di quelli che si spengono man mano nelle vite spezzate della comunità ebraica fino a uniformarsi al grigio dell’asfalto, del fumo e della polvere, della fame, dei cadaveri, della morte.
Potrei parlare della contrapposizione tra musica e rumore. La musica che accompagna le scene evocando emozioni, sentimenti, la vita. E i rumori che intervengono violenti e dolorosissimi a interromperla. Le urla disperate di una bimba che cerca invano la mamma con in mano una gabbietta vuota. I colpi violenti che maciullano il corpo di un ragazzino. La frusta che arriva alla carne nonostante gli strati di vestiti. I corpi trascinati nel fango. Lo sbuffo del treno. Gli spari. Le esplosioni. E poi il fischio assordante del silenzio.
Un silenzio che non vince, però. Perché la musica torna con prepotenza a riempirlo e ricacciarlo indietro, a riprendersi gli spazi e i colori. E la vita. Perché la musica parla la lingua dell’anima, di quella dell’oppresso come di quella dell’oppressore. Tocca le corde più profonde dell’uno e dell’altro senza bisogno di verificarne l’appartenenza. Come può l’uomo, mi sono chiesta alla fine, aver creato qualcosa di tanto sublime e al tempo stesso poter concepire il male?
L’avevo detto, io, che sarei stata banale.
Claudia Valentini
17. Parla con lei (Pedro Almodovar, 2002)
Si apre il sipario.
Stanza asettica, pareti grigie: diverse sedie nere sono sparse per il palco.
Viole e violoncelli di sottofondo suonano un’aria triste e malinconica.
Una donna di mezza età, con una sottoveste bianca e i capelli disfatti, si batte il petto con la mano, abbassa il capo e con un’espressione addolorata inizia a danzare per il palco. In secondo piano, sfocata, una seconda donna, con lo stesso abito, esegue movenze simili.
All’improvviso si aggiunge la voce straziante di una cantante lirica. La prima donna corre lentamente per la stanza-palco e va sbattere sulle sedie, poi contro la parete.
Appare un uomo. Contrito, vestito di nero, dedito a spostare le sedie per impedirle il contatto, evitarle l’urto. La donna si affloscia a terra. La seconda donna, quasi sonnambula, cammina verso la stessa parete, la urta e cade.
La prima donna si rialza e balla da sola, come fosse cieca, come fosse muta, come fosse sorda.
L’uomo si aggira ancora silenzioso, preoccupato e mogio, evitando interazioni con le ballerine. Si chiude il sipario.
Due spettatori sono commossi.
Il loro viaggio dell’eroe parte da qua, dal teatro danza di Pina Bush: con altrettanti muri su cui sbattere. Incomunicabilità, cecità e immani tristezze da superare.
Francesca Dallasta
16. Old boy (Park Chan-wook, 2003)
E D-o disse sia la luce e la luce fu”. La parola ha forza demiurgica; è con la parola che diamo forma al mondo, che proviamo a comprenderlo. E’ una saetta, una volta lanciata non la puoi tirare indietro, può ferire e uccidere. La parola non è solo un insieme di suoni, ma è un concetto, una spia sul pensiero. Di parole si vive e di parole si muore. La dicotomia parole/azioni, tanto cara al senso comune, non è poi troppo reale: forse sarebbe più esatto immaginare le parole come un sottoinsieme delle azioni. Parlare è agire. “Non è stato il cazzo di Woo-jin a uccidere Soo-ah, ma la lingua di Dae-su”. Proprio a causa di una parola Dae-su, un uomo qualunque, si ritrova all’improvviso prigioniero in un luogo orrendo. Scrive un quaderno, un diario di prigionia, dove elenca tutte le sue cattive azioni, alla ricerca della colpa che lo abbia portato a meritare tanto odio. Dae-su, però, non pensa a quella parola. Le parole, infatti, sono ancora più pericolose delle altre azioni. Se è già difficile prevedere le conseguenze di un’azione, è ancora più difficile comprendere quelle di una parola, “perché un granello di sabbia e una roccia nell’acqua affondano nello stesso modo”.
La mancata consapevolezza di creare dolore non annulla la colpa, e chi subisce ha un bisogno spasmodico della consapevolezza del carnefice. Il dolore ricevuto pone in una prigione, ed è insopportabile vivere pensando che chi ci ha posti in quella prigionia non abbia cognizione del male che ha arrecato e non se ne assuma la responsabilità. Si riesce, però, per paradosso, a comprendere fino in fondo il male che si arreca solo quando ci riguarda strettamente; diventarne consapevoli non aiuta, ma rende mostri. “Chi non conosce è Dae-su, chi è consapevole è il mostro”.
Stefano Boring
15. The Departed (Martin Scorsese, 2006)
Lo dico subito. The Departed è un capolavoro assoluto. Un film di due ore e mezza che scorre dritto come una freccia: Ritmo, suspence, storia grandiosa e attori perfetti per ogni ruolo.
Si passa dal malavitoso irlandese Frank Costello (Jack Nicholson) al capo Ellerby interpretato da Alec Baldwin. Nel mezzo i due protagonisti William “Billy” Costigan (Leonardo di Caprio) e Colin Sullivan (Matt Damon).
E’ un gioco di infiltrati che si infiltrano, colpi di scena, amori e tradimenti. Tutti si muovono sul filo del rasoio ed infatti tanti non arrivano a fine film.
Ma più di tutto, il tema che mi sembra emergere dalla pellicola è uno: il bene e il male (per una volta il cambio di titolo dalla versione originale c’ha preso). Perché alla fine il film di questo parla.
Il bene, Costigan/Di Caprio, nato in famiglia malavitosa che cerca di entrare in polizia e si trova infiltrato nella malavita. Il male, Sullivan/Damon, praticamente cresciuto dalla malavita per diventare una talpa nella polizia.
Tra loro tanto grigio.
Frank Costello, capo mafia spietato, ma confidente dell’FBI; il Sergente Dignam (Mark Walbergh) sboccato, incazzoso e (per quanto chiunque abbia guardato il film avrà apprezzato la scena) omicida; il capo Ellerby (un Baldwin perfetto) che sembra navigare a vista, totalmente ignaro di cosa gli sta succedendo attorno; la Dott.ssa Madden, che sta con Sullivan, fa un figlio con lui, lo tradisce con Costigan e alla fine scopre tutto e resta sola.
Non ci sono vincitori o vinti, il bene certamente non trionfa e il male resta lì latente.
Niente di diverso da come va il mondo del resto.
Colonna sonora interessante su cui spicca I’m Shipping Up to Boston dei Dropkick Murphys.
Marruca Incassato
14. Kill Bill (Quentin Tarantino, 2003-2004)
L’idea nasce da una conversazione con Uma Thurman. Dopo aver finito di girare una scena di Pulp Fiction, l’attrice dice a Quentin Tarantino: “Immagina un primo piano sul mio volto insanguinato e la camera che man mano si allontana per farmi vedere per intera, stesa a terra, in abito da sposa”. Il progetto di “uccidere Bill” prende forma. Il risultato è una sceneggiatura di quattro ore, intrisa di Spaghetti Western, Yakuza e samurai. Dieci anni dopo, nel 2003, il primo volume del film esce nelle sale. Il secondo arriva l’anno dopo. “La protagonista si vendica di cinque persone che l’hanno ferita. Ha segnato i loro nomi su una lista e li elimina uno alla volta. Ecco l’essenza della storia. Potrei impreziosirla con altri spunti, ma non sarebbe onesto. Non sopporto quel genere di film. Eliminiamo gli elementi superflui e troviamo il coraggio di raccontare un film di vendetta” ha detto il regista.
Beatrix Kiddo, aka La Sposa, aka Black Mamba è una guerriera, addestrata dal maestro Pai Mei, ed è una dei membri della Deadly Viper Assassination Squad, al cui comando c’è Bill, il suo compagno. Beatrix abbandona una missione dopo aver scoperto di essere incinta e ricomincia una nuova vita a El Paso, in Texas. Ma, dopo averla creduta morta, Bill la trova e le fa visita, insieme ai killer della DVAS, il giorno della prova del suo matrimonio con Tommy, che ha un negozio di dischi usati. Questo incontro viene chiamato, sui giornali, il massacro di Two Pines. La Sposa viene ridotta in fin di vita. Rimane in coma per quattro anni. Quando si sveglia, ha in testa un solo scopo: uccidere Bill. Vola a Okinawa, da Hattori Hanzo. Per lei, per la sua vendetta, l’uomo forgia la sua spada migliore. La Sposa uccide tutta la squadra, prima di arrivare a Bill e scoprire che sua figlia è viva ed è lì con lui ad aspettarla. E’ il primo film di Tarantino in cui la violenza viene mostrata per quello che è. La macchina da presa non si allontana dal sangue che zampilla dai corpi mutilati, dagli occhi strappati con mosse di kung-fu, dall’acciaio giapponese che trafigge la carne. Ma, in tutti i film di Tarantino, il vero protagonista non è l’atto violento. Il vero protagonista è l’animo di chi lo compie.
Domenica Morabito
13. Lost in translation (Sofia Coppola, 2003)
Scarlett Johansson ha diciotto anni. Bill Murray è Bill Murray. Sofia Coppola è alla sua seconda prova da regista con un film di cui ha scritto anche la sceneggiatura.
Lost in Translation è stato girato in piano sequenza, si dice, per dare modo ai due attori di conoscersi come si dovevano conoscere i due personaggi. Lei giovane sposa a traino del marito, lui attore di mezz’età in declino, entrambi americani e insonni. Il titolo è già una sinossi: l’intraducibile modo in cui in inglese si definiscono quelle sfumature di senso che si perdono nel passaggio da una lingua all’altra. Perdere, sfumature, senso, passaggio. Bob e Charlotte sono spaesati, a Tokyo come nella vita, incerti delle loro scelte fluttuano in questo non-luogo di vetro e luci led che è il Park Hyatt Hotel. Soli e alienati in una metropoli di cui non conoscono né lingua né modi, in cui sono costretti a passare del tempo, si trovano e leniscono la reciproca malinconia. Persone disconnesse che cercano un momento di connessione.
Paola Moretti
12. Il favoloso mondo di Amélie (Jean-Pierre Jeunet, 2001)
Sorriso ammiccante, pelle liscia come seta, sguardo da cerbiatto, pettinatura iconica: semplicemente Amélie. Amélie Poulain è una Pollyanna moderna cresciuta in un contesto anaffettivo, un Cupido dei cuori infranti, una giustiziera delle cause perse.
Il suo personaggio, a metà tra un romantico folletto e una sventurata antieroina, prende le distanze dalla plastica perfezione hollywoodiana, riuscendo a empatizzare con lo spettatore senza metterlo in imbarazzo davanti a un atteggiamento di calcata superiorità.
La sua introversione, in cui albergano realtà parallele e psicosi, si manifesta sotto forma di filmati su piccolo schermo di cui lei stessa è protagonista. La storia, raccontata per mezzo di un linguaggio fiabesco e in buona parte da un oggettivo narratore esterno, ha come sfondo la tragedia di Lady D e si intreccia con quella di un nano da giardino che viaggia spensierato per il mondo. Questo film è un inno alla fragilità umana mascherata da una caustica freddezza, riassumibile con l’accusa epocale: “Lei certamente non rischia di essere un ortaggio, perché persino un carciofo ha un cuore”.
Ambra Cavallaro
11. Werckmeister Harmonies (Béla Tarr, 2000)
Ci vuole sempre un atto di fede, per cominciare a vedere un film di Béla Tarr. Il suo è un cinema estenuante, che ha bisogno della volontà attiva di chi è di fronte allo schermo. Ma se ci si lascia andare, se si accetta di entrare nel cosmo visionario e rigido dell’estetica di Tarr, allora tutto si innalza, sino a diventare non più visione e basta, ma pura e morbida esperienza.
Werckmeister Harmonies è composto da 39 inquadrature languidissime. Un bianco e nero spugnoso ed evanescente fa da sfondo alle vicissitudini di un’innominata cittadina ungherese in cui si sta consumando la rappresentazione allegorica dei sistemi politici dell’Europa dell’Est dopo la Seconda Guerra Mondiale. C’è una musica meravigliosa che ci accompagna lungo i 145 minuti del film, e non ce ne liberiamo, nemmeno quando tutto è finito. E’ una melodia di malinconia sognante, che sembra uscire fuori direttamente dagli occhi dello spaesato protagonista, Janos, un ragazzo semplice, un ragazzo puro. Fate uno sforzo e, se non lo avete visto, regalatevi due ore di difficile bellezza.
Mery Mepreserp
10. I Tenenbaum (Wes Anderson, 2001)
Arrested Development, Paddington e le pubblicità Gucci: i lasciti estetici de “I Tenenbaum” sono ovunque. Ha ispirato nuovi cineasti con i dialoghi e la sua simmetria pastello, la colonna sonora. Ma il motivo per vedere I Tenenbaum è un altro: la sua idiosincratica famiglia, guastata da anni di instabilità affettiva.
C’è Chas – un vedovo ipocondriaco in tuta scarlatta – e i suoi due bambini, precocemente indottrinati al pronto soccorso. C’è il loro nonno, un patriarca avido e assente che si finge moribondo per recuperare l’affetto perso negli anni. Poi Margot, la sua figlia adottiva: enfant prodige della drammaturgia, è sfiorita dal senso di mancata appartenenza. Il fratello Richie, ex-star del tennis depressa, si è pure innamorato di lei. E la madre, una persona mai capace di arginare le malefatte del marito, vuole risposarsi con un altro.
È vero: I Tenenbaum – assieme a Lost in translation – è responsabile di tante tendenze estetiche degli anni zero, dello stile “indie” e dei suoi stilemi cliché. Ma per chi ama il cinema è un tenero scivolo nella stasi psicologica. Un’oretta e mezza tra falchi ammaestrati e finti comatosi, impegnati a spiccare il volo verso la redenzione, tra una bugia e l’altra.
Djo Žalpya
9. La 25ª ora (Spike Lee, 2002)
Quando sapemmo dell’attentato terroristico che colpì NewYork guardammo il cielo.
Alzammo tutti gli occhi in alto scrutando i palazzi che circondavano il bar. Si estendeva in uno spazio piuttosto ampio, adibito a parcheggio. Per scontate coincidenze lo spiazzo era vuoto: niente auto, niente di niente. Solo un gruppo di ragazzini che cercavano di capire che cosa stesse succedendo, e, com’è ovvio che sia, non ci capimmo niente.
Diciannove anni fa Spike Lee con “La venticinquesima ora” tentava, anch’egli, di capirci qualcosa, darvi un senso, una spiegazione, a modo suo.
Lo apprezzai nel suo malridotto anti razzismo, Spike Lee in fondo è stato per me un regista dialettico, l’ho decifrato nelle sue dissertazioni, a volte prolisse, a volte razzistiche, ma un cinema che, nonostante alcune verbosità, raccontava qualcosa.
Di questo film, a distanza di tanti anni e tante premesse posso affermare che qualcosa dice: è un film narrativo. Un film, semplicemente un film.
Si raccontava, qualcuno l’ha scritto, di un tentativo di elogio nei confronti di una città amata, vissuta, una sorta di plagio culturale, un riconoscimento; ma questa pellicola è un tentativo mal riuscito di critica sociale che finisce per scivolare su un oleoso tratto razzistico di etnie.
Cito Claude Levi Strauss: “l’antirazzismo di maniera è molto più pericoloso del razzismo, fornisce all’ultimo i pretesti per alimentare la propria propaganda.” E purtroppo in questo film commette questo errore. Il linguaggio è spietatamente etnico, un’accusa caucasica, una vestra culpa sia olitica sia sociale.
La colpa dei bianchi è la colpa di una nazione, di cui ne paga una città che, nel bene o nel male, si confonde tra popoli e razze. Certo è che la scena più rappresentativa (madre che dir si voglia) del monologo davanti allo specchio del bagno è l’anti-morale: l’elogio della promiscuità razziale, del senso civico di una città ferita, di un popolo senza identità.
In questo particolare momento storico gli Stati Uniti vivono una recrudescenza anti razziale per colpe ataviche, strutturali oserei dire; ma sarebbe molto meglio intendere ciò che accade secondo una visione più fenomenica che accidentale: gli agglomerati umani sono diversi, le differenze esistono; la tolleranza vera è semplicemente una conflittuale (o dialettica) convivenza.
Antonello Pesce
8. Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Michel Gondry, 2004)
Se mi lasci ti cancello l’hanno titolato in italiano, ben lontano dalla traduzione dell’originale Eternal sunshine of the spotless mind: un titolo italiano più idiota non avrebbero potuto farselo venire in mente. Nel 2004 Jim Carrey era conosciuto in Italia per Ace Ventura e il suo comico personaggio. Inoltre, la voce del doppiatore è così stupida e la cover del film così sorridente che si ha l’impressione che sia un filmetto. Kate Winslet poi, bollata come attricetta di poco conto dopo l’uscita di Titanic.
Ma Gondry è un regista di un certo spessore, un visionario amante degli effetti speciali e di trovate un po’ surreali. Forse anche per questo il film ha vinto l’Oscar nel 2005 come migliore sceneggiatura.
Brillante è l’idea di mettere in scena un lavoro nel quale immaginare sia possibile sottoporsi a un trattamento per rimuovere qualcuno dai propri ricordi (stiamo ancora parlando del 2004, cosa facevo io 16 anni fa?). Dolorosa la scoperta di Jim che la compagna, con la quale ha litigato, abbia voluto cancellarlo dalla sua vita. Romantica l’idea della coppia che lotta per salvarsi dall’imminente rimozione, nonostante lei l’abbia in realtà già subita e lui stia attraversando lo stesso processo. E per questo geniale l’idea di rifugiarsi in un posto nella memoria di lui dove non si conoscono. Durante il colloquio di preparazione ha infatti ricostruito la loro storia, mentre gli “scienziati” mappavano i punti del suo cervello dove quei ricordi erano stati salvati. Andando in posti non mappati Carrey e Winslet sperano di riuscire ad evitare di essere trovati e cancellati.
Infine, l’ansia crescente che accompagna i successi dei nascondigli trovati e la successiva, improvvisa scomparsa di lei, conseguente alla rimozione di memoria aggiuntiva.
Più che un se mi lasci ti cancello sarebbe dovuto essere un aiutami a non rimuoverti.
Ma anche questo titolo non rende alcuna giustizia all’opera: per fortuna non tocca a me tradurre i titoli dei film.
Elisa Barrotta
7. Le vite degli altri (Florian Henckel von Donnersmarck, 2006)
Le Vite degli Altri racconta di come, in un momento storico particolarissimo per la Germania e per Berlino (la fine degli anni ´80), la vita nella Berlino Est di un drammaturgo, che in quanto tale é “sicuramente” un nemico del socialismo, viene posta sotto costante controllo dalla polizia segreta, soltanto perché un viscido politico si invaghisce della sua compagna, affermata attrice di teatro.
Ad entrare nella vita della coppia è così il severo capitano Wiesler che, giorno dopo giorno e grazie a microfoni posti in ogni stanza della casa, ascolta, nascosto in soffitta, anche le più intime vicende della vita dei due artisti.
Qualcosa con il tempo peró cambia, nel severo capitano. Forse un’altra vita è possibile, anche la sua vita, prima triste e piatta e sempre dedita allo stanare i dissidenti, può avere un senso diverso.
La bellezza di una ballata suonata al pianoforte, i versi di una poesia, una festa di compleanno: in un certo senso il compagno capitano Wiesler prende coscienza del fatto che non è poi così giusto scavare nelle vite degli altri.
Il finale preferisco non svelarlo. Basta soltanto dire che Le Vite degli Altri racconta una storia che potrebbe essere altre mille storie, racconta qualcosa che sicuramente è capitato a tanta gente. Per davvero.
Le vite degli altri è un bellissimo film. Punto.
E’ questo che mi da la pelle d’oca ogni volta che lo rivedo.
Elena Arcidiacono
6. Dogville (Lars von Trier, 2003)
Ma Lars Von Trier ci è o ci fa? E questa è la costante domanda che molti spettatori si pongono da anni dopo aver visto i suoi film. Ricordo però che il dubbio che mi rimbalzò nella testa dopo aver visto “Dogville” al cinema fu: “Ma perché nessuno l’ha ancora picchiato?”.
Von Trier è un personaggio grottesco e abbastanza odioso, basta leggere una qualsiasi intervista random di attori o attrici che hanno lavorato con lui per accorgersi quanto sia detestato per i suoi metodi e le sue idee. Delle sue dichiarazione pubbliche non parlo nemmeno perché mammamia.
Però.
Però mettere un gruppo di attori in un capannone industriale, disegnare per terra col gesso i perimetri degli edifici di una piccola città e farli recitare come se fossero una ristretta comunità di esseri abietti e opportunisti per me è stato un colpo di genio. Credo che tra una ripresa e l’altra Von Trier li abbia terrorizzati, sfiniti e torturati psicologicamente per farli rendere al massimo.
Ce lo vedo il perfido Lars, nel buio della sua stanzetta, con la faccia illuminata da sotto dalla luce di una lampada a pensare: “Cari attori, l’avete voluto il realismo recitativo? E adesso ve lo insegno “a bastonate” (cit.)”.
E allora giù con Nicole Kidman incatenata, coi bambini ancora più cattivi degli adulti, con le sottili invidie che solo un paesino sperduto nelle Montagne Rocciose può celare. E via a pestare sull’acceleratore della mentalità chiusa e provinciale dell’America rurale, che esplode in tutta la sua violenza, trasformando l’innocente in carnefice in un batter d’occhio.
Se state cercando un “buono” in questo film, passate oltre. Oppure guardatelo e provate a rispondere alla domanda iniziale.
(Per me ci è. Eccome se ci è).
Francesco Somigli
5. Non è un paese per vecchi (Joel ed Ethan Coen, 2007)
Quando uscì il film avevo già letto il libro di Cormac McCarthy. Conoscendo bene (senza falsa modestia direi quasi-benissimo) l’autore di The Road, fui colto da stupore nel momento in cui appresi che a girarlo erano stati i Coen. Immaginavo fosse un tipo di cinema completamente diverso, quasi opposto, a livello concettuale e morale, rispetto alla narrativa di McCarthy.
Poi andai al cinema. Quello che vidi, in quelle due ore, fu qualcosa che non riuscii a spiegarmi totalmente. Di sicuro fu uno di quei film che mi rimase attaccato dentro per diverso tempo. La trama è semplice, i personaggi sono delineati alla perfezione (raramente ho visto un personaggio globalmente perfetto quanto quello di Anton Chigurh), i dialoghi colpiscono come pugni, la tensione narrativa non ne parliamo nemmeno. Tutto semplice, tutto d’impatto. Ciò che non riuscivo a comprendere totalmente, o ad assimilare, era una sensazione. O meglio, un tipo di sensazione che credo di non aver mai sentito. O meglio ancora, che avevo percepito, fra tutte le altre magnifiche cose che mi avevano trasmesso, solo nelle opere di McCarthy. Era una sensazione di forte disagio. Era come se questo fastidio fosse furbo. Che si muovesse in modo sottile, strisciando silenzioso. Era, e lo è tutt’ora, come un buco buio nella morale. Se la morale ha dei buchi ciechi e profondi, diventa qualcosa di diverso, che fa male, che destabilizza. Non lo so con precisione, davvero, ma se c’è un film che riesce a far male e a lasciarti appeso e a costringerti a pensare, è questo.
Mattia Grigolo
4. Il petroliere (Paul Thomas Anderson, 2007)
Il titolo originale è There will be blood. Suona come un film alla Tarantino e invece, di sangue, ce n’è davvero poco. Pure, per tutta la durata, affiora un’area semantica che al sangue comunque fa riferimento e che si appoggia all’idea di un liquido ugualmente viscoso, che sgorga, zampilla e gorgoglia, corre per le vene della terra, determina la vita o morte, a quest’ultima indissolubilmente si lega. È il petrolio.
A cercarlo, a farne la ragione stessa della sua esistenza, è Daniel Plainview, un ex minatore che – scoperto accidentalmente un giacimento nella sua proprietà – si trasforma in un imprenditore nel campo dell’estrazione.
In un arco di tempo che conduce dalla fine dell’Ottocento alle soglie della crisi del ’29, come un Mastro don Gesualdo americano, Daniel si “fa da sé”: usando le sue braccia, lavorando, sacrificando affetti e sfera emotiva al petrolio, costruisce il suo piccolo impero e, inevitabilmente, si condanna a un’esistenza di solitudine, rabbia, senso di colpa e aridità, come è quella dei paesaggi in cui si muove.
La sua vicenda, tuttavia, ha qualcosa di epico, perché fondatrice di un tassello importante della Storia moderna.
A interpretare il protagonista Daniel, è un altro Daniel.
Day-Lewis fa sue le caratteristiche del personaggio nel corpo e nella voce: ne assume i tratti ruvidi, scolpiti, terragni e forti. I suoi occhi neri sono bagnati di una fluorescenza verde e azzurra, come è il colore del petrolio nel quale costantemente si specchiano. D’altronde, l’intero film è un tributo al colore, utilizzato in chiave metaforica. La musica, invece, sembra accogliere suoni onomatopeici, che evocano lo sferragliare degli strumenti che trivellano, dei tubi che solcano la terra, dei treni che l’attraversano. In questo modo, Anderson realizza un film che, senza mai imbeccare il suo pubblico, fa emergere da una sapiente costruzione i significati e i rapporti critici che stabiliamo con essi. A chi guarda, la libertà di scoprire poi gli altri risvolti della vicenda e l’’interpretazione, altrettanto imperdibile, di Paul Dano.
Nora Cavaccini
3. In the mood for love (Wong Kar-wai, 2000)
Quando si porta il peso di un segreto bisogna salire su una montagna, avvicinarsi a un albero e sussurrarlo in un buco nel tronco. Dopodichè sigillare il buco col fango.
Oppure non avere segreti e vivere come fanno tutti i personaggi tranne i due protagonisti. Attorno a loro le case sono piene di vita. Partite di mahjong che durano fino all’alba, cene, debiti di gioco, tradimenti. Ma loro resistono a tutto questo con elegante sobrietà. Perché non ne sono capaci o perché vedono la vita come uno scherzo crudele da cui è meglio ritrarsi?
Sono scrupolosi nel recitare la parte che il mondo gli ha cucito addosso e nel trattenere tutto dentro quegli abiti. E solo recitando letteralmente uno strano gioco delle parti si troveranno a comprendere cosa gli sta succedendo.
E le navi partono, le case cambiano inquilini, i corridoi si svuotano. E rimangono solo le pietre di un tempio cambogiano a custodire i segreti.
Ivano Talamo
2. Memento (Christopher Nolan, 2000)
“Più di un uomo non è riuscito a diventare un pensatore perché la sua memoria era troppo buona.” Friedrich Nietzsche
Questa è davvero una bella sfida. E ne approfitterò per dire quello che penso su Christopher Nolan. Perché avrei tanto desiderato che Memento fosse il punto di partenza di una crescita artistica costante che, a un certo punto, portasse al definitivo “passo in più”. Ma non è stato proprio cosi, almeno fino a questo momento.
Tornando al film. Mi è piaciuto Memento? Sul serio, non sto scherzando: non lo ricordo bene. Per cominciare: a me Nolan piace. E tanto. Ma quanta, quanta rabbia mi fa. E ho capito che accanto a tanti pregi, ci sono dei difetti che, se raccontati, possono spiegare questa mia diffusa sensazione di confuso amore-odio per il regista britannico.
Memento mi spacca dentro. Come tutti i grandi artisti, Nolan polarizza i giudizi e devo dire che è uno dei pochi registi sulla piazza capaci di tenerci incollati più di due ore allo schermo. Uno che dobbiamo coccolarci, perché come pochi altri ha il coraggio di sperimentare, e uno dei pochi che riesce a fare della post-produzione un’arte a sé, in particolare per quanto riguarda il sonoro. Ma ancora non può essere considerato un maestro del cinema. A me Nolan piace. E tanto. Questo è un grandissimo film. Però… c’è un però. Fermi tutti. Ripartiamo da capo.
In questo film super originale tutto parte dalla fine. Leonard Shelby (Guy Pearce) tenta faticosamente di trovare l’assassino di sua moglie attraverso indizi che si stampa letteralmente ovunque, anche sulla pelle. Gli è impossibile conservare i ricordi, se non per pochi minuti. Con due, anzi tre linee temporali, il montaggio si srotola. E, muovendosi, offre, come rare volte fino ad allora, la possibilità di entrare nelle condizioni emotive del protagonista con le stesse informazioni che possiede lui (all’inizio pari a zero). In altre parole, lo spettatore indaga col protagonista.
Quello che sembra un massiccio esercizio di stile diventa in realtà un lavoro di ingegno e grande sostanza, facendo evolvere il genere noir al livello di una grande opera thriller psico-filosofica.
Sto andando troppo veloce. Sto correndo troppo in avanti. Mi sono perso. Dicevo che questo film mi spacca dentro perché mi costringe a parlare di Nolan. Del Nolan che mi manca e credo manchi anche ad altri. Che poi, dirò la verità, un Nolan così non è mai esistito: il Nolan che mi manca è che quello che speravo sbocciasse, ma che ancora non abbiamo visto mai.
Già, dicevo dei difetti di Nolan: in Memento, quelli che mi fanno arrabbiare, sono ridotti quasi a zero. Sono come contenuti. Nei suoi film successivi, invece, i suoi difetti si ripeteranno e cresceranno (a braccio con i pregi ovviamente) e a mio avviso cresceranno, purtroppo, in proporzione alle risorse, ai mezzi della produzione. In Memento, infatti, i mezzi erano ridotti: il film fu fatto con nulla. Inception e Interstellar, possiedono entrambi un seme originale, meraviglioso che, però, non sboccia mai e rimane sempre incastrato in sospensione. Come se Jordan tirasse fuori campo la palla dopo essere stato lassù in aria per 2 ore. Con The Dark Knight aveva raggiunto il massimo del suo bagaglio. Con The Prestige, invece, ci aveva mostrato che poteva migliorare ancora. Ed è The Prestige che rimane ad oggi il più riuscito, il più asciutto. Eppure imperfetto: non è il Nolan che speravo prima o poi di vedere.
In Memento scorre tutto come un bicchier d’acqua, a parte la scelta del protagonista. Sarebbe servito un attore più tormentato, più silenzioso, più sensibile, magari Bale o Reeves per dirne due (no Leo, ti vogliamo bene, sei bravo, ma devi smetterla di urlare. Perché urli sempre? Perché?). E a pensarci bene, però, c’è un altro problema; il problema più grosso di Nolan, forse. Quel voler sempre conciliare componenti diverse: i cliché sentimentali e la dimensione filosofica e introspettiva. Quasi come se in Nolan si scontrassero continuamente due anime. Una più spontanea e l’altra più “corrotta”, pasolinianamente parlando.
Come disse un mio amico, Beppe, ubriaco davanti al bar del Sardo: “Si alza sempre il pallone servendosi da solo degli assist incredibili e poi sbaglia a porta vuota”. Si riferiva a Interstellar, ma ripenso sempre a Beppe e a quel pallone che sta in aria, pronto per essere sparato fuori, e rimango sempre, almeno io, come Baggio a Usa ’94. Finito lo sfogo. Credo che divida spesso la critica per un motivo molto semplice: non conosce o non accetta ancora i suoi limiti. Penso sia diffusa la sensazione che questo regista di indubbio talento debba cercare di fare meno e farlo bene. In Interstellar (che mi ha in alcuni momenti emozionato tantissimo), gli ultimi 30 minuti e certi dialoghi sfiorano l’assurdo. Come quando Caine e la Chastain iniziano un simposio astro-fisico austro-ungarico scientifico, parlando 45 minuti senza mai respirare, lasciandomi immaginare un’irruzione di Sgarbi urlante per far riposare gli occhi e il cervello. Cervello che cerca invano di scappare dallo spiegone, cosa che a Nolan piace spesso proporre. “Capre! Capre!”.
Non c’è niente di più pericoloso per i grandi artisti che mettersi in testa di essere riconosciuti dalla critica come autori o intellettuali. Perché poeti si nasce, non si diventa. E Chaplin, Lynch o Leone non hanno mai complicato troppo le cose, anzi.
Quindi, come sempre, rimane una sola possibilità: giocare e farlo seriamente, come i bambini. Non si può essere scorretti nel cinema. E poi conta il pubblico e solo quello, se fai il regista. Purtroppo, al nostro Chris, quando gira, spesso risulta difficile togliersi di dosso lo smoking da produttore. E facendo così, rovina o comunque priva di chiarezza e profondità la storia e i suoi personaggi. Altrimenti si finisce come Sorrentino, che da quando ha avuto la sfortuna di essere stato molestato da Sean Penn alla proiezione del Il Divo, ha creduto di essere Fellini, perdendo quella lirica e poesia che con quei film silenziosi e delicati aveva incantato tutti. Come quando si ha il dono di far star bene senza dire nulla: perché parlare? Speriamo che Nolan se renda conto o che qualcuno glielo faccia capire. Perché rimane sempre il piccolo grande dubbio che Nolan sia un direttore d’orchestra che dirige così, non può fare diversamente. O se, invece, ancora non ci ha detto tutto. Come quando Benigni se ne venne fuori con La Vita è bella, per intenderci. Quanti di voi se lo sarebbero aspettato?
Torno un po’ indietro. Aspettate non ricordo più…ah, ok. Memento. Gran film e felice esempio di come la forma, con intelligenza, possa farsi contenuto, senza diventare maniera. Credo che certe scene, alcune di anche solo 2, 3 minuti, facciano, nonostante tutto, riflettere e commuovere. Credo tanto nell’importanza dei finali di un film. Devono abbracciare tutta la storia e poi sbriciolarla e gettarla al vento, illudendoti che non rimanga nulla. Devono essere potenti. E qua, abbiamo un finale perfetto. Uno di quelli che rivedresti all’infinito. Chiudete e riaprite gli occhi. Il mondo è ancora lì? Ah, ho dimenticato la porta di casa aperta.
Amerigo Biadaioli
1. Mulholland Drive (David Lynch, 2001)
Un cartello stradale di notte, i fari di un’automobile, una strada larga e piena di curve raccolta tra i boschi. Nell’oscurità, i fari illuminano il cartello della strada. È Mulholland Drive.
È una strada bellissima, Mulholland Drive. Costeggia il crinale delle montagne di Santa Monica e si affaccia su un’enorme valle. Dalla strada si vedono in lontananza delle enormi lettere. Formano una scritta famosa, molto più famosa delle sue curve; una scritta dalla quale, nel 1932, una comparsa si suicidò per non avere ottenuto un contratto con la casa di produzione di cui porta il nome – Hollywood.
A differenza di molti luoghi di Los Angeles, Mulholland Drive è rimasta più o meno uguale nel tempo. Prende il nome di un ingegnere senza scrupoli che, nei primi del ‘900, dirigeva il dipartimento per l’acqua e l’energia elettrica – William Mulholland.
È una strada molto buia di notte, panoramica, dalla quale sono passati innumerevoli spiriti folli, inquieti, tristi. Attori di serie A, di serie B, di serie Z. Attori che attori non lo sono diventati mai. Attori che lo sono diventati e non sono stati nient’altro che attori. Attori e attrici la cui vita si è fermata lì: nelle feste, nelle orge, nei suicidi e negli assassini.
Nella storia del cinema, David Lynch ha una sua posizione, un suo tassello. Non sono tanti i registi degli anni 2000 (anche dei 2000 nel caso di Lynch) di cui si possa dire questo. Che i suoi film piacciano o meno, Lynch ha portato l’arte cinematografica su un altro livello di realizzazione. Mobilitando tutti gli elementi del cinema disponibili, (il suono, le immagini, i ritmi del linguaggio e del movimento; lo spazio, il colore, il potere intrinseco della musica), creando un modo di fare cinema che poco ha a che fare col cinema tradizionale, Lynch ha buttato giù i confini della logica e della leggibilità, riuscendo a confondere il mondo reale e quello immaginario. Quello del sogno, dell’incubo, della paura e dell’amore; quello delle strade che si imboccano e non portano da nessuna parte. Quello del 21esimo secolo, in cui tutti possono sognare di essere qualcun altro. Se poi lo diventano dimenticano chi sono, se non lo diventano dimenticano che non lo sono mai diventati. Quello in cui si vive nel sogno e nell’incubo. Quello in cui i confini fra sogno e realtà e sogno e incubo sono labili. E sono quelli della vera illusione.
Mulholland Drive è forse il film che più riesce a riprodurre la dimensione onirica. In tutta la sua produzione, Lynch ha sempre esplorato la commistione di mondi, reali e immaginari, e con Mulholland Drive è riuscito a creare il capolavoro del “probabile”, “possibile”, “forse”, dove la parola che spiega e dà risposte è nemica (come dice Rita/Camilla Rhodes – Laura Elena Harring, e la perfomancer nella scena del teatro: “Silencio. No hay banda. Il n’y a pas d’orchestra. It is an illusion”). E infatti è questo il mistero incredibile di Mulholland Drive: nonostante sia del tutto non intellegibile e i dubbi rimangano, lo spettatore ha una forte sensazione di coerenza, di unità – un’unità stranamente priva di punti di sutura: è “completo”, finito, nonostante sfugga all’indagine razionale e scivoli via tra le dita. È quel qualcosa che si prova non appena ci si sveglia dopo un sogno, dopo un incubo: per un attimo ricordiamo tutto, poi lo dimentichiamo, ma ci rimane l’emozione e quella, sotto sotto, la conosciamo. Per comprendere il sogno, è da lei che dobbiamo partire. Come ha lui stesso ripetuto alla critica e al pubblico, Mulholland Drive sfida la logica che governa la veglia perché risponde ad un altro ordine, quello del sogno, dell’intuizione, della “sensazione” che, quando messa in parole, si perde.
Mulholland Drive è per certi versi un thriller (anche se la fusione di generi diversi è uno dei tratti distintivi di Lynch) e allo spettatore è richiesto di seguire l’esempio dell’agente Dale Cooper di Twin Peaks: abbandonare la strada della razionalità e giungere alla risposta seguendo l’intuizione, lasciandosi andare alla “percezione”. “Penso che gli spettatori sappiano cosa significa Mulholland Drive per loro – commenta lui – ma non si fidano del proprio giudizio. Vogliono che glielo dica qualcun altro (…) Dirglielo significherebbe privarli del piacere di pensare e di sentire, per giungere a una conclusione”.
Forse è l’essere spinti a “sentire”, più che a “fare” e “capire”, ciò che perturba lo spettatore del 21esimo secolo. Non lo terrorizza, non lo sgomenta: Lynch mantiene sempre l’ironia, l’elemento del grottesco, dell’assurdo, e non vuole parlare del “nulla” – non è un nichilista. Le sue colonne sonore (magistrale quella di Mulholland Drive scritta da Angelo Badalamenti – al quale dobbiamo anche le bellissime tracce di Twin Peeks e Velluto Blu) sono infatti ambigue, sospese, drammatiche ma non catartiche. Esattamente come nei sogni inquietanti, il disorientamento è dato dal familiare, da ciò che conosciamo e vediamo ogni giorno e ritroviamo nel sogno attribuito ad altri; o, se appartiene nella realtà ad altri, a noi stessi (Betty Elms/Diane Selwyn – Naomi Watts, si sogna in luoghi in cui sono stati altri e dà il proprio nome ad altri intorno a sé). È dato dalle grandi città, entro cui l’individuo si perde seguendo strade che non portano fuori ma dentro di sé, e questo “sé” è ignoto, oscuro, è il luogo di incidenti stradali in strade che si conoscono, ma nei sogni si dimenticano (il film si apre con un incidente d’auto su Mulholland Drive). È conferito dalle frasi mantra che ritornano, proprio come negli incubi (in Mulholland Drive, “This is the girl” è il “Fire walk with me” di Twin Peaks). È imbevuto del tema del doppio, della copia di sé, dell’altro che non è veramente “altro” e che forse, ma solo forse, è una parte di noi.
Mulholland Drive ha riscosso un grande successo di critica ma, al botteghino, è andato molto male. Al pubblico non è piaciuto. È stato chiesto il motivo al regista. “Mi chiede perché non sia arrivato al grande pubblico? Ma vàttela pesca!”, ha risposto lui.
Enrica Fei
Hanno collaborato alla realizzazione di questo pezzo, in ordine sparso: Nunzio Gringeri, Giuseppe Cassone, Ercole Gentile, Cavezzi, Loris Rizzo, Pietro Romeo, Davide Grimoldi, Giulia Priore, Elena Cascio, Gianluca Cedolin, Federico Giamperoli.
L’illustrazione di copertina è di Victor Cavazzoni
Sito
Instagram
Facebook
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin