L’illustrazione di copertina è di Ivano Talamo
La composizione del pezzo è a cura di Mauro Mondello
Abbiamo chiesto a tutti i membri della redazione di inviarci una lista con i cinque film girati nel decennio 1990-1999 secondo loro più belli e importanti. Per provare a rendere la rilevazione ancora più oggettiva, abbiamo ampliato il parterre di contributi, aggiungendo al conto oltre venti liste inviate da esperti esterni, scelti in un intervallo vario e trasversale di età, occupazione, residenze e interessi.
La scelta definitiva è stata così realizzata:
1) I venti film che hanno effettivamente accumulato più voti;
2) Cinque film che sono stati votati, non ce l’hanno fatta ad entrare fra i primi venti, ma che la giuria di qualità ha ripescato perché considerati meritevoli;
3) Cinque film che non ha nominato nessuno e che sono stati scelti dall’eccezionale giuria di qualità, di cui non possiamo rivelare i nomi per questioni di privacy e prestigio (fra i componenti e le componenti vi sono grandi nomi della critica cinematografica mondiale, che non possono, per contratto, comparire su Yanez).
Le liste non accontentano mai nessuno, e sono difficili da stilare, ma noi ci abbiamo provato.
Si tratta di un divertissement, e come tale va preso.
Avvertenze: gli scritti che accompagnano i film nominati sono di vario stile e forma, non seguono la regola statica della recensione e si propongono, piuttosto, come dei commenti aperti, dei racconti, dei ricordi, delle cronache di visione.
30. Buffalo 66 (Vincent Gallo, 1998)
Il 2 aprile ho sbagliato due volte: mi sono dimenticato di inviare la mia selezione di 5 film migliori degli anni ’90 e, obbligato a scegliere un titolo tra quelli proposti, ho optato per Buffalo 66. Un film scritto, diretto, interpretato, musicato e, a mio parere, cannato, da Vincent Gallo.
Un pazzo (o un genio?) che interpreta un pazzo (e basta).
Gli ingredienti per trascorrere due ore emozionanti c’erano tutti: il cinema che ho ricavato nel mio soppalco, uno streaming quasi in alta definizione e un film indipendente, in cui un ex carcerato incontinente (finito dentro ingiustamente, per una storia di scommesse) rapisce una ragazzina e la obbliga a fingersi sua moglie a un pranzo con i genitori; non ultima, da segnalare la scollatura ipnotica di Christina Ricci, bionda per l’occasione. E invece ho odiato quasi tutto di questo film: le battute ripetute sempre almeno due volte (e qui il doppiaggio ha solo aumentato il mio nervosismo), i dialoghi insensati, la scena a casa dei genitori, in cui Gallo, fingendo di aver saltato la lezione di campo e controcampo, produce una sensazione straniante, e non in senso positivo.
Mi ha irritato meno un mese di quarantena che due ore scarse di Buffalo 66. Ma visto il personaggio Gallo (per approfondire, vi consiglio un pezzo uscito su Vice, anche se giunge alla conclusione opposta alla mia) probabilmente il suo obiettivo era proprio quello di farmi incazzare. Che sia davvero un genio?
Gianluca Cedolin
29. Edward mani di forbice (Tim Burton, 1990)
Tim Burton è sempre stato un maestro nel racconto degli outsider buoni e malinconici, emarginati dalla società in cui tanto vorrebbero essere integrati, ma da cui vengono invece, senza pietà, abbandonati. Johnny Depp aveva 26 anni, quando accettò il ruolo di protagonista di questo film, che diventò, per lui come per il regista, un trampolino di lancio definitivo sul sentiero del cinema di culto.
C’è una malinconia bellissima nel personaggio di Edward, che si fa largo dentro le sensazioni di chi osserva grazie a un lavoro ritmico in cui i toni da commedia, i momenti sentimentali, le riflessioni sui rapporti fra gli esseri umani, si combinano magicamente, sui toni visionari della messa in scena.
Qualcuno pensava che sarebbe invecchiato malamente. E invece no, Edward mani di forbice continua a mantenere, perfettamente intatto, tutto il suo fascino.
Mino Maraini
28. La vita è bella (Roberto Benigni, 1997)
Tre premi Oscar. Miglior film straniero, miglior attore protagonista e miglior colonna sonora (a cura di Nicola Piovani). Già questo basterebbe a spiegare la grandezza de “La vita è bella” di Roberto Benigni. Un film del 1997 che conquistò praticamente tutti, una pellicola dove, per la prima volta nella sua carriera, il regista e attore toscano riuscì nell’impresa di mettere d’accordo pubblico (con diversi record d’incassi al botteghino) e critica (pochissime furono le recensioni negative del lungometraggio).
Se dovessi descrivere con una parola questo film userei Amore. Quello per la vita, sempre e comunque, anche in una delle situazioni più difficili in cui si possa trovare l’essere umano, come la guerra e la prigionia. L’amore per la propria famiglia, il tentativo di trasformare la vita nel campo di concentramento in un gioco, solo per cercare di alleviare le preoccupazioni del piccolo Giosuè.
E infine l’amore per la commedia, che riesce a rendere più lieve, senza banalizzare, un tema pesantissimo come l’Olocausto.
A premiare il film agli Oscar venne chiamata una delle più grandi attrici italiane di sempre, Sophia Loren. Era il 1999, il mondo la guardava.
“And the Oscar goes to …”
Suspense.
Apre la busta, legge, sorride, urla “Robberto”, sventolando per aria il foglietto e tradendo il suo accento napoletano. Benigni, nel suo discorso di ringraziamento dirà due frasi importanti:“I want to dedicate this movie to those who are not here because they gave their lives in order so that we can say ‘life is beautiful’.” “Love is a divinity, and sometimes if you have faith, a divinity can appear”.
Francesca Dallasta e Ercole Gentile
27. Ho affittato un killer (Aki Kaurismaki, 1990)
Aki Kaurismaki non è un regista convenzionale. Nei suoi film non si corre, per nessuna ragione, e i suoi personaggi, le sue storie, sono sempre calate in un tempo metafisico, assoluto, universale, a metà fra il fumetto e la sperimentazione teatrale.
A tanti non piace Kaurismaki, lo so, ma tante volte è perché non si fa lo sforzo di provare a entrare nel suo ritmo delle cose. Prendiamo questo film ad esempio. E’ tanto assurda quanto meravigliosa, la storia dell’impiegato francese stralunato, che si perde nel grigiore di una Londra industriale, una città in cui si sente perduto e da cui viene abbandonato, piena di bar fumosi di periferia nei quali farsi rispettare a colpi di frasi da duro, lanciate in un inglese pesantemente sporcato. A combattere contro la morte, arriva l’amore. E poi, a un certo punto, arriva pure Joe Strummer.
Michelangelo Merini
26. The Truman Show (Peter Weir, 1998)
Truman Burbank ha 29 anni, fa l’assicuratore, ha una bella moglie ed una dolce casetta nella deliziosa cittadina di Seaheaven.
Truman è sempre gentile ed educato, all’apparenza dotato di grande energia positiva.
Ma è anche un uomo intimamente tormentato, inconsapevole protagonista di un enorme reality show, in onda in diretta 24 ore su 24 dal giorno stesso della sua nascita, che ne manovra l’esistenza, a sua insaputa. Sembra un sistema perfetto e collaudato, che un giorno sfugge però al controllo della regia, a causa di un evento dirompente ed imprevisto che fa saltare il banco: una presa di coscienza che potrebbe trasformarsi in salvezza, ma anche rivelarsi drammaticamente sbagliata.
Una lotta avvincente fra il pericolo dell’ignoto e la libertà.
Salvatore Matranga
25. Tutto su mia madre (Pedro Almodóvar, 1999)
Non c’è più stata un’estate come quella del ’93. Forse perché ballavamo con All that she wants degli Ace of Base e What is love di Haddaway. O forse perché avevo diciotto anni. Invece quella del ’99 è stata una merda. Forse perché dovevamo accontentarci di Genie in a bottle di Christina Aguilera e di …Baby one more time di Britney Spears. O forse perché l’ho passata preparando gli ultimi pallosissimi esami del biennio d’ingegneria. Quando a settembre è uscito Tutto su mia madre, sono andato a vederlo come la cerva anela ai corsi d’acqua. Volevo lasciarmi alle spalle il caldo, il sudore e lo scazzo di quei mesi. Matrix era uscito a maggio, Eyes Wide Shut, Fight Club e American Pie sarebbero arrivati in sala molto più tardi e in quei giorni davano roba come Tarzan, Pokémon il film e il musical T’amo e t’amerò.
Tutto su mia madre non è la prima opera di Almodovar sul mondo dei transessuali, che aveva già toccato il tema in Tacchi a spillo nel 1991.
Nel tempo, alcuni critici europei hanno rimproverato ad regista spagnolo di fare sempre lo stesso film, altri che in Tutto su mia madre avesse cercato con mezzi un po’ scontati l’empatia dello spettatore. Alla fine portò a casa l’Oscar e il Golden Globe per il miglior film straniero. Avrebbe vinto, si dice, anche la Palma d’Oro al festival di Cannen, se non si fosse messo in mezzo il direttore del festival: malignità e invidia prosperano all’ombra dei capolavori.
Tutto fuorché un bastione del conservatorismo, Almodovar ci ha regalato madri uniche nel cinema contemporaneo. Come dice Agrado in uno dei monologhi più intensi del film, «una è più autentica, quanto più somiglia all’idea che ha sognato di se stessa».
Flavio Villani
24. Strade Perdute (David Lynch, 1997)
Di che film stiamo parlando? Alcuni dicono si tratti di un “noir contemporaneo”. Altri, di una crime story tipicamente nordamericana. Altri ancora di un esperimento surreale, quasi anticinematografico per il modo in cui è pensato, per la maniera con cui si prende quasi gioco di chi decide di guardarlo.
Se è tutto il cinema di Lynch, in fondo, a mettere a dura prova l’ordine razionale della consecuzione, qui il livello di scomposizione narrativa si spinge oltre ogni possibile previsione. Il gusto per l’immagine sormonta quello per la logica, che non rimane però fuori, ma si accomoda, dolcemente, fra le braccia di un ritmo irresistibile, di una scansione terrificante del tempo e di quello che gli si muove intorno.
Fra i tanti elementi che lo rendono un film indimenticabile, Mistery Man è il più sublime e spaventoso: “call me”.
Melchiorre Morante
23. Terminator 2 (James Cameron, 1991)
Posso parlare anche del fatto che ero nel pieno della maturazione sessuale e che mi ritrovai a fine film a desiderare ardentemente il pischello protagonista?
No perché a posteriori posso dire in effetti che quel blockbuster mi permise di introiettare il concetto – oggi così modaiolo e glam – di gender fluid.
Uscito dalla sala certamente questo mica non lo sapevo, ovvio. Sentivo però di aver appena scoperto un’altra sfumatura dell’erotismo, quella vivida attrazione per le cose che esistono: l’arrapo insomma.
Adesso non posso certo essere filologico – che cazzo di memoria dovrei avere – ma immagino che nei giorni successivi, a scuola, avrò toccato le tette di Marilena Grasso con una più ricca e sfaccettata tensione mistica. Perché l’arrapo, diciamocelo, ci avvicina a Dio.
Pietro Pseudonimo
22. Underground (Emir Kusturica, 1995)
Un po’ Fellini, certo, ma con un gusto per il caos decisamente più marcato. L’energia disordinata di Underground continua a rimanere contagiosa a 25 anni di distanza, un’esplosione di colori, di movimenti, di cultura, che scolpisce, per sempre, l’identità di un popolo ferito e folle, costantemente sull’orlo della tragedia, ma incapace di vivere senza ironia. Critici e spettatori hanno passato anni a dissezionare questo film scena per scena, alla ricerca delle specifiche angolazioni politiche, del significato sotterraneo, underground, della storia costruita da Kusturica. Ma questo racconto di una Jugoslavia schiacciata fra il regime comunista e la guerra in Bosnia è soprattutto un’allegoria popolare, prima che un pamphlet ideologico, un luogo d’azione in cui ad avere la meglio è l’assurda combinazione di tragedia ed ottimismo. Fino all’ultima festa, fino all’ultimo affondo di tuba.
Mirella Montale
21. Mediterraneo (Gabriele Salvatores, 1991)
Un’isola sperduta nell’Egeo, la Seconda Guerra Mondiale vissuta solo di striscio, la storia di una fuga, di un’amicizia fra sette militari improbabili, dell’amore semplice che solo Salvatores sa raccontare tanto bene, Italiani una razza una faccia, il Mar Mediterraneo. Un film generazionale, bellissimo e colmo di incongruenze che ne fanno una storia inverosimile ma vivissima e appassionata. È la storia del popolo che siamo, con tutti i nostri cliché, i nostri difetti e il nostro assurdo modo di stare al mondo. Anche se, talvolta, quel mondo è diviso da un mare caldo e antico, che ti coccola, costringendoti a scappare, perché, in fondo, “la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare”.
Mattia Grigolo
20. L’odio (Mathieu Kassovitz, 1995)
C’è stato un tempo in cui mi rinchiudevo nei cinema appena potevo, domeniche mattine comprese, non riuscendo mai a saziarmi. Capitò poche volte di essere soddisfatta di un solo film alla volta. Una di quelle fu quando vidi L’Odio, La Haine. Era il 1995.
Allora praticamente nessuno parlava di colonialismo, in Europa la questione sembrava risolta. Ricordo che a scuola ci facevano studiare frettolosamente quelle pagine di storia. In pochi riuscivano a prevedere cosa sarebbe accaduto di lì a poco nel Vecchio continente.
La Haine, quell’ora e mezza di atroce, poetico, politico bianco e nero, mi sconquassò la testa, come una brutta caduta. L’atterraggio, insomma, era stato piuttosto brusco.
La banlieu parigina, il linguaggio verlan, quella musica rap, la bellezza disturbante di Vincent Cassel, una pistola vera nella vita reale. Le armi, per la me adolescente, erano qualcosa di quasi metafisico, legato a situazioni specifiche: le guerre, le organizzazioni mafiose, gli aspiranti suicidi, il noir.
Le armi non erano nella vita reale. Le armi erano una cosa per spostati, delinquenti e militari.
E invece no. Nella periferia parigina, nella vicina Francia, le armi potevano arrivare nelle mani di tre ragazzi come la me di allora. Perché? Perché nella periferia della capitale francese, popolata perlopiù da immigrati di seconda o prima generazione, arriva più facilmente la polizia. E può capitare che durante gli scontri con gli abitanti, perda le armi d’ordinanza. Perché le armi son cosi, come nei videogiochi: si perdono, si acquisiscono, si usano con facilità, o per darsi un tono, o per fare paura. Non solo per uccidere. Ma uccidono.
Dopo aver visto il film cercai subito la locandina, e l’appesi sopra il mio letto. Gli occhi di Cassel mi fissarono ogni giorno e per anni: per me, il postcolonialismo iniziò quel giorno.
Piera Ghisu
19. Hana-Bi (Takeshi Kitano, 1997)
Questa è una storia di yakuza giapponesi, di solitudini, di violenza, di amore puro e durissimo che si cristallizza in formalismi visivi che non hanno nulla di convenzionale.
Hana-Bi è energia dolorosa che pompa dallo schermo, pistolettate e quadri di bucolica dolcezza, una tranquillità squarciata, sempre di sorpresa, dalle esplosioni di follia. Un viaggio nella frustrazione esistenziale dell’essere umano, sangue e asfalto e carezze; ma anche una finestra malinconica e profonda sui temi della morale, della morte, della resistenza. Non si resta mai uguali a prima, dopo aver visto un film di Kitano. Perché Kitano è pazzo, perché Kitano non ci sta davvero con la testa, perché Kitano non capisce niente di come si fa il cinema.
Meno Male.
Michela Malerba
18. Magnolia (1999, Paul Thomas Anderson)
Fatevi una domanda a bruciapelo: chiedetevi perché vi piace “Magnolia”. Non riuscite a darvi una risposta precisa, vero? La migliore definizione, arrogantissima ma fulminante, che abbia mai ascoltato su questo film è: “Magnolia è il film che piace a tutti quelli che non capiscono un cazzo di cinema”. Inutile che vi dica chi l’ha detta, tanto non lo conoscete.
Ma a me, e a molti di noi, piace. E quindi: perché?
Certo, è il film che ci ha fatto vedere che Tom Cruise, in fondo, è un attore capace. Ci siamo accorti delle doti di un ottimo caratterista come William H. Macy e abbiamo avuto la conferma della grandezza attoriale di Julianne Moore e Philip Seymour Hoffman.
Ma un film, oltre ai buoni attori, è soprattutto racconto. E “Magnolia” trabocca di storie narrate, tra esseri umani arroganti, meschini, sconfitti o in via di redenzione. Vorremmo parteggiare per qualcuno di loro, ma non ci riusciamo: perché tutti i protagonisti del film siamo in realtà noi stessi, alle prese con le miserie quotidiane della nostra fallibile esistenza umana. Vorremmo prendere tutti a pugni, ma non potendolo fare guardiamo il film da una prospettiva esterna, aspettando che il meccanismo messo insieme da Paul Thomas Anderson arrivi finalmente a funzionare alla perfezione. Attesa vana, ma le tre ore di film sono ormai volate lasciandoci soddisfatti.
Ecco, infine, perché “Magnolia” ci è piaciuto: la piacevole sensazione finale è quello che ci portiamo dentro. E che ci spinge a consigliarlo ad altri che, come noi, non capiscono un cazzo di cinema.
Francesco Somigli
17. American History X (Tony Kaye, 1998)
Finalmente ho un pretesto per rivedere American History X. Fin dalla prima scena, mi rendo conto di non ricordare assolutamente nulla di questo film: sono contenta di rivederlo oggi con occhi nuovi, ad almeno quindici anni dalla prima volta. Peccato che la mia memoria fotografica, a dieci minuti dall’inizio, mi faccia tornare in mente il finale. Mentre le immagini scorrono, soprattutto quelle a colori, mi trovo a desiderare una rimasterizzazione degna dei nostri giorni, perché la regia è spettacolare e mi piacerebbe godermelo in full HD, American History X. Edward Norton, già allora, era un attore eccellente, così affascinante che quasi ti convince delle sue brutte idee, basate però su comportamenti di singoli individui, presi ad esempio per giustificare le proprie concettualizzazioni razziste e bigotte.
Fa paura quanto poco sia cambiato, ventidue anni dopo, in alcune realtà americane ed è sorprendente come tutt’oggi le stesse tecniche siano utilizzate da personaggi di dubbia moralità per ottenere l’approvazione delle masse.
Elisa Barrotta
16. Totò che visse due volte (Ciprì e Maresco, 1998)
La poetica del buon senso e della pudicizia cattolica sono le due categorie secondo cui la crocifissione campanilistica avvolge la rappresentazione primordiale dell’umanità rappresentata da Daniele Ciprì e Franco Maresco.
Nel loro laido (l’aggettivo è preso a prestito dallo stesso Maresco) Totò che visse due volte (Italia, 1998) l’autenticità umana diventa l’unica realtà possibile, pressoché storica, della narrazione contemporanea del costume e dell’arzigogolata concezione vitale dell’uomo medio.
C’è poco da stupirsi: l’allegoria è servita. La morte è parsimoniosa e risparmia gli ultimi, mentre il sesso è, nel mondo rabeleiano dei due cinasti siciliani, la moneta di scambio, l’equivalente universale per ciò che concerne non l’esistenza umana, ma il compromesso con la vita stessa, l’hic et nunc che soggiace alla mia, alla nostra, alla loro (nel senso dei personaggi), velleità di godimento ad ogni costo.
Ciò che non si, o ci, risparmiano mai è un mutilento sorriso (o forse ghigno) intriso di cinismo tutto garbato o garbatamente attento, distanziante, allusorio, che sovverte il genere. La scelta del bianco e nero, il loro ombroso e ambiguo chiaro scuro, rappresenta l’incognito orizzonte, sprezzante della umana retorica del così è e dev’essere, che avvolge inesorabilmente la farsa umana.
E’ solo la vita che scorre, nella più becera abiurante rappresentazione, compresa come bestialità umana. La pornografia, di cui i cineasti confermano di esserne ammiratori, fa da sfondo, la scenica prostituzione dell’atto come antitesi del desiderio, diviene necessità: è nel desiderare che l’uomo si fa uomo, diviene intelletto che ripudia il corpo in quanto ostacolo, estetica del ripugnante.
La fiaba di Ciprì e Maresco è un sordido affare moraleggiante, un non luogo di moralità barattata con la ripugnanza ontologica del sesso in quanto tale, intenso nella sua propria affermazione antitetica rispetto all’estetica dominante: il sesso oltre il corpo. Ed è proprio in questo che l’opera diventa culturalmente viva.
Fottere (ficcare in siciliano aulico) non è semplicemente il fine. Non lo è, non lo sarà mai: è semplicemente o banalmente la conditio sine qua non di un’apparenza cinica, darwinianamente infantile, un piano sequenza che occhieggia la voyeristica necessità di non essere per apparire.
Il realissimo mondo del brutto, col suo carneo olezzo cloacheo, si pone a sedurre il fantomatico bello, prosciugato d’ogni umanissima verità.
Antonello Pesce
15. Seven (David Fincher, 1995)
Era il tempo dell’abbondanza. C’erano i taxi, le folle, e le strade piene; ma pioveva sempre e non c’era il sole. C’erano i ricchi, c’erano i poveri; c’erano i giornalisti e i poliziotti. Si lavorava e saliva di grado; si stava in casa e si rimaneva soli. C’era lo smog, c’era la pioggia; c’era il neon e non c’era il sole.
Con il capolavoro Se7en, David Fincher racconta una storia universale. È un thriller, un horror, un film di formazione. In una città qualsiasi degli Stati Uniti, una serie di omicidi sadici solleva le contraddizioni di un’epoca (quella degli anni ’90 e di oggi) e di una fede. Quella nel bene. Mentre fuori le strade sono affollate, i taxi sfrecciano, le persone corrono, la tragedia si svolge al buio, nelle case, sottoterra. E fuori piove. Piove, piove, piove. Sempre, fino alla fine. Detective Mills (Brad Pitt) è giovane; emotivo, ingenuo, spaventato. Crede nel bene. Prova dolore, lui, di fronte al male. Detective Somerset (Morgan Freeman) è prossimo alla pensione. Vive solo; è composto, metodico. Dal male, lui, è stato addomesticato. E poi c’è Tracey, la moglie di Mills; addolorata, ma non arresa. La vita custodita in segreto, dentro di sé. È l’unica che può salvarli.
Il sole splende alto e il campo di grano si estende infinito. John Doe (Kevin Spacey) guarda di fronte a sé, lo sguardo fermo e sereno; sorride.
Enrica Fei
14. Rushmore (Wes Anderson, 1998)
Wes Anderson, in realtà, gira sempre film di animazione. Solo che ogni tanto sono dei veri film di animazione, con i disegni e i modellini e le miniscenografie ricolme di colore. Altre volte, più spesso, si tratta invece di film normali, e a recitare arrivano gli attori in carne e ossa. Eppure, continuano a sembrare dei personaggi fantastici, di un altro mondo, non importa quanto si sforzino di sembrare “reali”. Come si fa a non amare Max Fischer, lo studente che eccelle in ogni cosa, meno che nello studio? Penso che siamo stati tutti, almeno per un attimo, Max Fischer, nella nostra adolescenza. Ci siamo sentiti più bravi di quello che gli altri pensavano di noi, e lo eravamo veramente, solo non nella maniera convenzionale, non dentro la misurazione standardizzata dei valori di successo scolastico. Gli omaggi a Truffaut, a Godard, a Rivette, a Chabrol, in Rushmore si incastrano nei toni da commedia statunitense classica di cui Bill Murray è il riferimento assoluto, e buttano fuori, in maniera dolce e altissima, i temi emotivi del passaggio all’età adulta, fra dolori ed esuberanza. Rushmore non ha categorie. E’ una commedia, è un film animato, è un dramma sentimentale, un esperimento, un déjà-vu metacinematografico dentro cui bisogna perdersi.
Mercurio Malaparte
13. Quei bravi ragazzi (Martin Scorsese, 1990)
Martino Scorsese è un regista newyorkese, nel senso della costa est degli Stati Uniti e nel senso che usa il carrello, i piani sequenza in campi medi, le storie di malavita e brava gente. Fortunatamente per lui, New York è piena di Main Streets e di bravi ragazzi tra cui, a suo dire (lo racconta ogni volta gli chiedono del suo passato) ha trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza.
Il personaggio di Henry Hill, un sangue misto siculo-irlandese, non si identifica direttamente con il cineasta, ma ne rappresenta lo sguardo, la voce narrante del suo passato. È una sorta di similitudine esperienziale, Liotta-Hill è il piccolo Martino che ha “brave amicizie”, che frequenta i postriboli della grande mela, che gioca a biliardo e a dadi, passa in rassegna ad uno ad uno i brutti ceffi della zone e poi prende, per sua fortuna, un’altra strada. L’emulazione non diviene, dunque, identificazione diretta.
Martino si preoccupa di raccontare storie, senza troppe divagazioni di camera, velleità fotografiche, diletti di sceneggiatura. Nella sua semplicità, nell’essenzialità di soggetto, Martino ha il piacere e, per certi versi, l’obbligo, di raffigurare le vite possibili, ed è proprio di questa possibilità che fa una leva preponderante: il sogno americano non fa distinzioni di fedina penale o assetti moralistici: per esso, tutti meritano, chiunque vi provi, s’intende. Ed Henry Hill ci prova, vive in ascesa, fino a quando lo zio Sam lo prende per il bavero della camicia e lo fa rinsavire. Lo riaccoglie a braccia aperte, e perdona gli sbagli: c’è per tutti una seconda possibilità.
Antonello Pesce
12. Matrix (Andy e Larry Wachowski, 1999)
Primavera del 2000.
L’anno scolastico, il penultimo di un’onorata carriera liceale, volge al termine ed il prof di biologia decide di assegnare un lavoro di gruppo sull’origine della vita.
Grandi menti (rimaste tali a distanza di vent’anni) riunite per assolvere il compito.
Da subito è chiaro che non ci si vuole focalizzare su big bang, evoluzione darwiniana ed altri argomenti istituzionali: le grandi menti hanno bisogno di spazio.
Idea.
Perché non prendere spunto dal fenomeno cinematografico del 1999, da poco disponibile in home video? Eccoci tutti insieme a guardare Matrix.
L’esistenza come la conosciamo non è altro che il frutto del lavoro di un computer.
Non avevo mai visto nulla di simile: trama, ritmo, effetti speciali, colonna sonora (Wake up dei Rage Against the Machine in chiusura di film, con personaggi in decollo stile Superman).
Ma c’è anche altro: la banalità di un’esistenza piatta, un sistema che si nutre di questa banalità appiattendo cervelli, curiosità e voglie, la necessità di una radicale ribellione a questo stato di cose.
Ed è questo l’aspetto che mi ha colpito del film, più delle evoluzioni kungfuesche e delle sparatorie volanti, degli elicotteri precipitanti tenuti per mano e degli amori resurrettivi.
Una pillola rossa per restare nel paese delle meraviglie e vedere quant’è profonda la tana del bianconiglio (sfido chiunque a dichiarare in pubblico che avrebbe preso la pillola azzurra).
Il prof. non è stato felicissimo della ricerca.
Conosco il kung fu!
Marruca Incassato
11. Il grande Lebowski (Joel Coen, 1998)
C’era un ragazzo nel mio liceo, più grande di me, che tutti chiamavano ‘Il Drugo’. Un tipo allampanato con i capelli arruffati, la giacca di velluto accompagnata dalla canonica sciarpa rossa e il libro consumato sottobraccio. A un piccolo manipolo di ragazzine, me in prima fila, piaceva moltissimo. Sbavavamo nei corridoi, davanti a quella sua aria trasognata, così pensatrice a volte o anche distrutta se tornava da certi incredibili festini con i suoi amici universitari. Ragazzi praticamente adulti, abitavano da soli in appartamenti che dai suoi racconti sembravano delle domestiche factory di Andy Warhol e non i classici tuguri dal puzzo di sigaretta e calzini infrattati. All’epoca non avevo ancora visto Il grande Lebowski e la mia conoscenza del film nasceva dai fiumi di bava che collezionavamo nella mia classe. In breve, il mio immaginario Drugo Lebowski era un sex symbol con il pragmatismo di Karl Marx e la coscienza sociale di tutti i filosofi greci che avevano riempito le mie lezioni fino al quarto liceo classico. Inutile dire che quando guardai il film rimasi piuttosto confusa. Certo, a suo modo il vero Drugo può essere considerato un sex symbol e pure un filosofo. Di sicuro è anche un personaggio molto pragmatico. Ad ogni modo, dopo aver visto il film, capii che il ragazzo della mia scuola in realtà era il tappeto: “dava un tono all’ambiente”.
Caterina Coral
10. American Beauty (Sam Mendes, 1999)
Non è per nostalgia dell’estetica anni Novanta, per un attaccamento alla rappresentazione, seppur satirica, dell’America suburbana e il suo sogno borghese, né per Kevin Spacey, se apprezzo American Beauty, ma per la sceneggiatura. Partiamo dal voice over, Lester Burnham ci parla della sua vita alcuni mesi prima di morire. È un uomo depresso, sconfitto dalla monotonia di un’esistenza passata ad accettare quello che capita. Il monologo non è niente di sconvolgente: “Mi chiamo Lester Burnham. Questo è il mio quartiere, questa è la mia strada, questa…è la mia vita.”etc. Se leggiamo le scene però ci viene il sospetto che ci sia sotto qualcosa: perché quell’indicazione specifica di inquadrare Lester in camera da letto dall’alto? Quando guardiamo le immagini tutto torna. Per i primi sei minuti di film il protagonista è ripreso quasi sempre all’interno di un quadrato, nella plongée sul letto, dentro alla cabina doccia, dietro la finestra a griglia mentre guarda la moglie, dentro il cubicolo al lavoro e quando la sua faccia si riflette sullo schermo del computer. Ogni volta Lester è intrappolato, ingabbiato in un frame che rimanda al concetto di prigione. La macchina da presa spesso sovrasta l’attore, lo schiaccia, lo opprime. È un caso? Ovviamente no. Fare cinema vuol dire anche comporre le immagini, con l’aiuto della sceneggiatura, per suggerire un’idea a livello subliminale. Questa scoperta mi ha fatto cambiare gli occhi con cui guardo i film. E sì, è una motivazione molto soggettiva, ma di oggettivo ci sono cinque premi Oscar, sei BAFTA e tre Golden Globe.
Paola Moretti
9. Trainspotting (Danny Boyle, 1996)
“Scegliete la vita!”. “Ma perché dovrei fare una cosa così? Io ho scelto di non scegliere la vita: ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?”.
Renton che si tuffa in un cesso da vomito per recuperare le supposte di oppio che ha cacato per sbaglio. Spad e il suo colloquio di lavoro sotto anfetamina. Spad e le lenzuola piene di merda che schizzano su tutta la famiglia di Gail seduta a colazione. Il video porno amatoriale di Tommy. La scopata di Renton con Diane. Diane. I genitori di Renton. Begbie che lancia il bicchiere di birra da sopra a sotto e spacca la testa a una tizia. Le risse. “Credo che Allison abbia urlato tutto il giorno”. Il neonato morto abbandonato in culla di Allison e Sick Boy. L’insoddisfazione e la droga di Edimburgo. Parole dentro paesaggi splendidi e insufficienti. Le pere, le sigarette, la birra, le rapine. Un ultimo schizzo. L’overdose di Renton che sprofonda dento il parquet rosso sangue. La rota di Renton. I tentativi di normalità di Renton. Tommy ha l’HIV. Tommy muore di toxoplasmosi. Renton è a Londra. Un lavoro normale. Arrivano gli amici. Un buon affare di droga. “Questa doveva essere la mia ultima pera, ma cerchiamo di essere chiari, c’è ultima pera e ultima pera. Questa di che genere è?”. Va tutto bene, ecco i soldi. Poi la fuga. “È l’ultima volta che faccio cose come questa. Metto la testa a posto, vado avanti, rigo dritto, scelgo la vita.” In fondo arriva sempre il momento di farla finita con questa merda. Non smetterà mai di arrivare.
Serena Montera
8. Tre colori – Film rosso (Krzysztof Kieślowski, 1994)
L’ultimo della trilogia sui colori della bandiera francese di Kieslowski, film legato alla terza delle tre parole associate prima alla rivoluzione francese e poi diventate il motto nazionale del paese, sottende l’idea di fratellanza e di sorellanza. In questo film il rosso diviene il costante memento di quella fraternité che è sempre presente (o assente) tra gli uomini e tra le donne, e il fatto che esista oppure no tra questi dipende esclusivamente dalla loro volontà. Per via di questa idea di fratellanza sempre e comunque ubiqua, sia nella sua presenza ma anche nella sua assenza, un particolare scarlatto si trova in quasi tutte le scene del film, ma è spesso un dettaglio o un particolare irrilevante, come a dire, “io sono qui – esisto, anche se non sembro importante, ma ricorda: ci sono costantemente”. È quindi rosato il contenuto del bicchiere che apre la scena, appoggiato su una cartolina disegnata sui toni del rosso; è rossa la tenda da sole che ripara il negozio vicino a casa di Valentine; rossa è la jeep di Auguste, il vicino di Valentine, che lei però non conosce; sono rosse le pareti nella casa di Auguste e anche del giudice. Rosse sono le bretelle di uno dei personaggi, come una delle maglie indossate da Valentine; rosso è lo sfondo del suo servizio fotografico che poi verrà ingigantito e appeso per le strade di Ginevra, e rosse sono le coste di moltissimi libri nella libreria del giudice. Rosso è il guinzaglio di Rina, perché la sorellanza tra persona e animale è sempre e comunque una scelta – una volontà – della controparte umana. E come la fratellanza viene espressa attraverso un colore che fa da denominatore comune e rappresenta la ragione che accomuna tutti gli ingranaggi che muovono i personaggi, anche il telefono e la sua invisibile onnipresenza – attraverso i fili che raggiungono tutte le case di tutte le persone, lontane e vicine – diviene metafora dell’idea di connessione tra tutti gli esseri umani.
Virginia Patrone
7. Hong Kong Express (Wong Kar Wai, 1994)
Ashes of Time è un film che consuma Wong Kar Wai a tal punto da farlo entrare in una fase di forte stress emotivo e pressione psicologica. Decide allora di iniziare un altro film proprio per riscoprire il piacere di fare cinema. Procede quindi con un approccio da studente, disobbedendo alle regole delle grandi produzioni cinematografiche. Lo termina in 6 settimane. Il film deve fluire, essere spontaneo. Meno complesso e perplesso di Ashes of Time. Magari Hong Kong Express può salvare Ashes of Time. Invece no, Ashes of Time non si salva e Hong Kong Express va avanti per la sua strada, come uno studente non ancora impiegato in banca. Senza telefono cellulare. In una Hong Kong ancor colonia britannica, prima di essere consegnata alla sovranità cinese: siamo ancora nel 1994, anno del segno zodiacale del cane, secondo l’oroscopo cinese. Non si tratta, tuttavia, di una pubblicità felice con un golden retriever nel giardino interiore di una periferia. Piove piuttosto. Sono storie che si intrecciano. Corriamo in parallelo. Siamo tutti un groviglio. Un camminare in cerchio, un passaggio continuo di gesta, amori, fallimenti, ketchup, preoccupazioni. Si tratta di scale mobili, odori, speranze, ventilatori, saliva, abbandoni, acquari, attesa e asciugamani. Un caffè liscio senza zucchero. Stiro volentieri in mutande mentre fumo. Precarietà. Ho preso il lavoro solo per ora. Ti sto spiando perché mi piaci. In attesa che tu ricambi il mio sguardo vorrei molto generosamente occuparmi in segreto dei tuoi pesci rossi.
Endi Tupja
6. Le iene (Quentin Tarantino, 1992)
Film d’esordio di Quentin Tarantino, uscito nel 1992, in Reservoir Dogs il dialogo è il ritmo dell’azione. Ho sempre pensato che, per quanto la trama sia avvincente, le immagini affascinanti e la colonna sonora trascinante, siano le battute che i molti personaggi si scambiano, a rappresentare il cuore della storia. A ogni visione mi sono lasciata trasportare da tante sfumature, ma l’aspetto che è rimasto sempre, su cui ho concentrato la mia attenzione, a prescindere da tutto, sono le parole: il dialogo, inteso in senso cinematografico, è un’arte molto americana. Non sto parlando del teatro o della letteratura, non sto sostenendo che in quest’arte primeggino solo i film statunitensi. Ciò che voglio dire è che, uno dopo l’altro, si sono succedute opere cinematografiche in cui eccelle il dialogo, in cui il dialogo si posiziona allo stesso livello dell’immagine, tanto da riuscire a definire, anche nella realtà e in lingue diverse dall’inglese, il comico e il drammatico nelle parole che usiamo oggi. Che sia una buona cosa o no, non lo so; il suono, tuttavia, a differenza dell’immagine, ha un impatto più incisivo sulla coscienza di chi ascolta, più sotterraneo, più subliminale, e quindi con effetti più a lungo termine e inconsapevoli.
Se estrapolati dall’immagine, se messi per iscritto, gli scambi di battute di Le iene, veloci o riflessivi, costituirebbero un’opera a sé, altrettanto precisa, aggressiva e corale.
Giulia Priore
5. Principessa Mononoke (Hayao Miyazaki, 1997)
Provare dolore gonfia di odio. Il dolore rende folli, incattivisce.
Ho conosciuto Miyazaki in un momento in cui ne avevo assoluto bisogno.
Ero molto giovane e avevo inavvertitamente ferito una persona, che di risposta mi scagliò contro tutto il male di cui era capace. In poco tempo mi trovai isolato.
Principessa Mononoke mi arrivò in una videocassetta pirata avvolta in un foglio di giornale.
Me la prestò un amico che studiava cinema. Si vedeva molto male.
Ora di quell’anime ricordo molto poco. Ricordo un essere infuriato scagliato contro un villaggio. Era stata una pallottola ad avvelenargli il sangue e a tramutarlo in un demone. Tutte le ingiustizie a cui era stato sottoposto e tutto lo strazio che aveva provato gli avevano infettato l’animo. Addolorato, addolorava. Qualunque essere vivente con cui entrava in stretto contatto era destinato a diventare come lui. Non sceglieva le sue vittime, la sua rabbia infinita si scagliava indiscriminatamente contro tutti, rendendo gli innocenti, vittime. Al giovane eroe che riuscì ad ucciderlo, dopo averlo infettato, comunicò qualcosa come “Proverai quello che provo io e ne sarai tormentato come me”. Il giovane eroe aveva solo un modo per salvarsi, indagare la storia di quell’essere furioso che lo aveva condannato a morte, cercare di capirlo con l’animo non sopraffatto dall’odio. Principessa Mononoke è la storia di una rinuncia al rancore e alla vendetta. In cui il male non è altro che un orrendo fraintendimento.
Stefano Boring
4. Eyes Wide Shut (Stanley Kubrick, 1999)
Eyes Wide Shout esce nel 1999, senza che il suo creatore abbia mai il piacere di vederlo finito. Kubrick muore infatti pochi mesi prima della pubblicazione, lasciando una scia di fatta tracce di montaggio, tagli, note audio, ma non una versione definitiva.
Come possiamo quindi essere certi che sia questa l’opera completa del suo genio? Non possiamo.
Eyes Wide Shut è un film che attrae trasversalmente, perché ricco di significati nascosti, ma non impossibili da ritrovare, pezzi che si palesano cercandoli, prestando attenzione. I costumi, i nomi, l’adattamento musicale: una simbologia che spazia fra riferimenti pagani, capitalismo, i profondi legami di coppia, la repressione, la sessualità, l’identità stessa degli attori. Tutto può essere simbolico (o per nulla), tutto si può ricondurre alla vita privata di ognuno, agli istinti, a ciò che si vuole nascondere ed a ciò che invece è palese, ma velato da convenzioni sociali.
Lo si può guardare come un film erotico, come un’ode all’estetica, come uno dei capolavori controversi del cinema fine anni ’90.
Ogni volta può essere diverso, basta solo scegliere con che occhi guardarlo.
Luisa Barbero
3. Fargo (Joel Coen, Ethan Coen, 1996)
La neve scricchiola fresca sotto gli stivali, ieri notte ne è venuta giù molta. Oggi invece il cielo è bianco, l’aria fredda, secca, immobile. Il lago sul quale si trovano è indistinguibile sotto quel manto invernale. Marge si muove concentrata, mettendo un piede davanti all’altro. Lui giace qualche metro più avanti, con le mani si tiene la gamba, dalla ferita un rivolo di sangue sporca la neve tutto intorno. Sono entrambi sospesi sull’acqua, anche se l’acqua non si vede, laggiù sepolta. Marge è su di lui, lo osserva al di sopra del pancione di sette mesi che le sporge da sotto la camicia d’ordinanza, deformandola. È la prima volta che usa la pistola di servizio. E tutto solo per qualche stupido soldo di banca, tutto in una giornata così bella.
Elena Cascio
2. Fight Club (David Fincher, 1999)
Comprai la videocassetta di Fight Club nel 2000, poco dopo l’uscita nelle sale. Il film, due ore e mezza di adrenalina e riflessioni profonde, mi catturò subito, ma mi lasciò con molti dubbi e solo alcune certezze. Ad esempio, quella di non volere una vita “piena di condimenti e niente cibo” come la casa del protagonista. E quella di aver assistito dal divano al momento storico in cui Edward Norton era diventato figo quanto Brad Pitt. Se qualcuno mi avesse chiesto allora quale filosofia individuavo nel lungometraggio diretto da David Fincher, avrei risposto con un inflazionato ma sempre utile “carpe diem”. Nelle parole di Tyler Durden, non sentivo ancora Heidegger e il pensiero orientale che ci spingono alla consapevolezza della morte, per dare senso alla nostra esistenza. Non vedevo Marx e l’anticapitalismo, il fallimento del progetto anarco-fascista, né il Superuomo di Nietzsche, travisato nella trama come nella storia dei totalitarismi. Tuttavia, mi era chiaro già allora che dovevamo appigliarci al personaggio di Marla Singer. Non c’è spazio per lei nella società misogina costruita dal protagonista insieme al suo alter ego Durden, verniciata da ideali di uguaglianza, ma in verità fondata sull’ideale supremazia del testosterone e la paura della castrazione. Temuta e rifiutata, Marla non perde nemmeno per un secondo la propria identità, senza essere individualista né nascondere le sue debolezze. Riesce a far riaffiorare il dubbio tra le convinzioni del capo del progetto Mayhem, esercito di teste rasate senza nome, in cui il Fight Club si è evoluto. E’ l’antagonista del dogma.
Domenica Morabito
1. Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994)
Pulp /’pƏlp/ n. A soft, moist, shapeless mass of matter.
Caffetteria. Interno. Giorno.
“No, è troppo rischioso. Chiuso con queste stronzate.”
Ringo (Tim Roth) e Yolanda (Amanda Plummer), mentre stanno facendo colazione come una qualsiasi coppietta, prendono la malaugurata decisione di provare l’ennesimo colpo, derubando i clienti della caffetteria. Proprio di quella caffetteria.
La storia si sposta e si riavvolge su una coppia di sicari in abito scuro, Vincent Vega (John Travolta) e Jules Winnfield (Samuel L Jackson), che stanno andando a recuperare una misteriosa valigetta per conto del loro capo Marsellus Wallace (Ving Rhames).
Scopriremo solo molto dopo che i due sicari stavano anch’essi facendo colazione in quella caffetteria, e che per nessun motivo vorranno consegnare quella valigetta alla coppia di rapinatori.
La trama del film, non seguendo un ordine cronologico, si intreccia in una struttura circolare che si dilata e si intreccia attorno ad alcuni personaggi al limite: i due rapinatori della tavola calda, i due sicari che finiranno poi per andare a mangiare proprio nella tavola calda della rapina, Mia (U. Thurman) la moglie del capo dei due sicari che va in overdose, il pugile Butch (B. Willis) che vince un incontro truccato che doveva perdere e deruba il proprio capo.
Pulp Fiction non è però soltanto la sua trama surreale. È uno scorrere continuo di dialoghi paradossali, sottolineati da una splendida colonna sonora ed interpretati da un cast straordinario. Un susseguirsi di sequenze sconclusionate, intrise di violenza, crude, divertenti. Scene entrate nell’immaginario della cultura POP, come il celeberrimo ballo tra Uma Turman e Jonh Travolta al Jack Rabbit Slim’s sulle note di You never can tell di Chuck Berry (omaggio alla scena di ballo tra Barbara Steele e Mario Pisu in Otto e mezzo di Fellini). O il monologo di Mr. Wolf (Harvey Keitel) in procinto di risolvere l’ennesimo problema creato dall’assurda coppia di sicari. O ancora, la citazione di “Ezechiele, 25:17” recitata da un grandissimo Samuel L. Jackson prima di giustiziare le sue vittime.
Pulp Fiction è entrato di diritto nella storia del cinema del ventesimo secolo.
Quindi.
Se non l’avete mai visto, dovete certamente vederlo.
Se l’avete già visto, quale migliore occasione di questa quarantena forzata per rivederlo?
Se lo conoscete a memoria, potete sempre aprire Youtube e cercare “Pulp Fiction Fuckin’ Short Version” (Il film contiene 265 volte la parola “Fuck” appena sotto le 269 volte de Le Iene)
Infine, semplicemente, potreste vederlo per cercare di scoprire cosa c’era in quella misteriosa valigetta nera.
Pier Attilio De Luca
Hanno collaborato alla realizzazione di questo pezzo, in ordine sparso: Nunzio Gringeri, Giuseppe Cassone, Denis Michelotti, Elisa Leonzio, Claudia Valentini, Chiara Sagramola, Cavezzi, Elena Arcidiacono, Lorenzo Monfregola, Loris Rizzo, Gianluca Palma, Viola Mondello, Alessandro Borscia, Nora Cavaccini, Silvia Caneva, Giada Negri.
L’illustrazione di copertina è di Ivano Talamo
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