Rivista Eterna, sorellina di Yanez e spin off del progetto berlinese Le Balene Possono Volare, è una rivista letteraria che, lentamente ma implacabilmente, andrà a consumarsi fino a morire. Chi l’ha creata ha deciso di condannarla a morte: nascerà, crescerà, invecchierà e giungerà al suo termine. In soli tre numeri, distribuiti in tre anni.
La prima call della rivista è dedicata alla morte.
Sul primo numero di Eterna, che sarà pubblicato in cartaceo nell’autunno del 2021, usciranno sette racconti, scelti fra 149 elaborati ricevuti nell’arco di tre mesi.
Alcuni dei racconti arrivati a Eterna, nonostante siano piaciuti molto al Comitato di Valutazione, non sono riusciti a trovare spazio all’interno del primo numero. Quattro di quei racconti – più un extra speciale – saranno pubblicati su Yanez, una volta al mese fino all’uscita del numero 1 in cartaceo.
Ogni racconto sarà illustrato da un collaboratore di Yanez.
Leggi anche gli altri racconti:
Omelia di Elasia Viviano
Il Fiume di Andrea Tani
Battista di Silvia Guberti
Antiracconto di Eva Luna Mascolino
Un racconto di Margherita Seppi
Illustrato da Cristiano Baricelli
È la sera del 21 dicembre quando il mio collo si spezza.
Fuori dalla finestra la neve cade sottile. Volteggia leggera e il vento la posa sui vetri con garbo, in completo silenzio.
L’osso del mio collo, invece, si rompe con un rumore sordo, uno scoppiettio breve e sinistro.
Fa: Clock
La mia testa cade di lato e i capelli invadono gli occhi. Alcuni ciuffi entrano in bocca. Per qualche secondo il mio corpo sussulta e dalla gola sgorga un rantolo roco.
Poi taccio.
Le gambe sospese ondeggiano e proiettano ombre, sembrano gatti che corrono dietro a una corda. Sulla parete una zampa si allunga. Nel petto il mio cuore si arresta.
Un’ultima volta fa: Tum
Pensavo fosse più doloroso.
Invece sento solo la pesantezza che scivola via.
Mentre il sangue nelle vene si ferma, tutta la tristezza, la mia incontenibile tristezza, inizia a gocciolare.
Cola dalle dita dei piedi, dalle unghie rosicchiate delle mani, dai pori della pelle, gocciola dalle mie ciglia lunghe e nere, dai lobi delle orecchie, dai peli che non mi radevo da mesi, trasuda dalla fronte, dalle ginocchia, dalle mie prime rughe leggere, scende dai gomiti, dal naso dritto, dai seni.
Gocciolando fa: Splash
Cade sul parquet marrone del monolocale e forma pozze dense e scure nelle quali, da quassù, ciondolante mi specchio e mi ricordo.
Il muro scrostato del giroscale.
Nel punto esatto in cui ci siamo incrociati per la prima volta, due anni fa, c’è una crepa che sembra una Emme: come le nostre iniziali, Maddalena e Maurizio. Ogni volta che salivo le scale passavo il dito indice sull’intonaco spaccato e ripetevo sottovoce tutte le parole belle con la Emme che mi venivano in mente, poi pensavo ai nostri nomi. Creavo associazioni cosmiche, guidavo le stelle in nostro favore, spostavo l’energia verso un futuro comune.
Che ti chiami Maurizio l’ho scoperto dal campanello del tuo appartamento. Maurizio Russo. Che vive al terzo piano, interno due, con Veronica Dell’Eva.
Non vi assomigliate per niente, ne sono stata felice quando vi ho visti insieme: mia madre dice sempre che le coppie meglio assortite sono quelle che hanno simili tratti. Veronica ha i capelli biondicci e fini, gli occhi chiari che paiono due sputi e un’aria fragile, come una lastra di ghiaccio su cui si cammina. Tu sei moro, come me, hai la fronte ampia e il naso dritto, come il mio, e le ciglia lunghissime e nere. Come le mie.
L’odore del bus numero 18.
Quello che prendevo quasi tutti i giorni da casa all’ospedale e viceversa. Tutte le cose inanimate hanno lo stesso odore di base: un misto di petrolio, plastica e ferro, che si mescola ad odori umani. Il bus numero 18 aveva all’andata odore di plastica e resina, ferro e menta piperita, petrolio e zucchero a velo. Poi c’erano anche aromi di cuoio, olio d’oliva, rum, formaggi di malga, tabacco, terra secca e terra bagnata.
L’ospedale invece aveva odore di ospedale e al rientro anche l’autobus numero 18 odorava di ospedale.
Arrivavo a casa alle cinque, mi toglievo l’uniforme e la chiudevo subito in un cassetto, perché quel lezzo non si appropriasse anche del resto delle mie cose.
Mi lavavo.
Ogni colpo di spugna era un passo in meno nelle corsie, ogni manciata di sapone era un paziente in meno con cui avevo parlato, ogni risciacquo era un caffè slavato in meno. Uno, due, tre, trecento colpi di spugna, quattro anni in meno. Sono andata indietro nel tempo, sono tornata alla sopportabilità delle cose. Ma a un certo punto lavarsi non basta più, il rituale di purificazione si svuota del suo potere mistico e l’acqua rimane acqua, il sapone rimane sapone, non riescono più a riportarti indietro negli anni. Quando quello ha smesso di funzionare , ho preferito chiudere fuori dalla porta tutto il tanfo e restare dentro, al sicuro. Non sono più uscita.
Aprivo la porta solo per incontrare te.
Alle sei e mezzo arrivavi dall’ufficio, ti vedevo scendere dall’autobus numero 77 – chissà di che cosa odora quello, chissà se tu ci fai caso, se quando arrivi a casa ti spogli perché odi quello che fai e vuoi scinderti dalla persona che sei durante il giorno – mentre attraversavi la strada io mi scioglievo i capelli, slacciavo due bottoncini sulla scollatura e poi scendevo le scale.
Ciao Maurizio.
Ciao Maddalena.
Ma, passandomi accanto, non mi guardavi mai.
I gemiti e le grida di piacere.
Quando vi sentivo iniziare – al principio erano solo passi e respiro affannato – andavo in cucina, tiravo le tende della finestra e di fretta mi toglievo i vestiti. Era bizzarro, le prime volte, essere nuda in quella parte della casa: guardare in basso e vedere i miei peli pubici accostati ai cuscini scozzesi su cui mi sedevo a mangiare, un po’ più su i capezzoli in linea d’aria con il tostapane. Con il passare dei mesi, però, è diventata un’abitudine: sdraiarsi sulle piastrelle fredde, allungare il braccio e aprire l’ultimo cassetto della credenza, tastare fino a trovare il vibratore. Tu non lo sai, perché qui non ci hai mai messo piede, ma la tua camera da letto è sotto al mio cucinino.|
Sdraiata su un fianco, con l’orecchio appoggiato al pavimento, chiudevo gli occhi e li ruotavo, così le mie pupille avrebbero guardato solo quello che esiste all’interno del mio cervello, ciò che emerge dall’amabile interconnessione dei neuroni: tu e le tue mani e il tuo fiato e le tue consistenze e le tue fragranze ed io e i miei brividi e i miei capelli sudati, le mie risate soffocate e la mia saliva e la mia stanchezza e infine la calma e i miei piedi a scaldarsi sotto alle tue cosce.
Con il vostro silenzio, aprivo gli occhi. Mi alzavo e, restavo a guardare stranita l’alone che il mio corpo aveva lasciato sul pavimento. Mi sorprendevo a pensare che, quell’atto solitario consumato per terra in cucina, conteneva in se stesso più amore dei letti spartiti con uomini veri.
Il telefono che suona.
Ha suonato tutti i giorni, una volta al giorno, alle nove di sera, fino a quando mia madre è esistita.
In qualsiasi circostanza, io ho dovuto rispondere, solo quando ero di turno in ospedale era ammessa un’eccezione, della quale però lei doveva essere al corrente già a inizio settimana.
Mamma, infatti, si rompeva facilmente. Bisognava tenerla al riparo, proteggerla come fosse una bambina. Bisognava dirle cose come: Sei stata brava, sono felice, è proprio una bella giornata, certo che va tutto bene.
Dopo la morte di mio padre qualcosa in lei si incrinò, una crepa partì dal suo cuore e si diramò attraverso tutto il suo corpo, fino a qualche punto misterioso e fondamentale del suo cervello. Da allora dovevamo stare bene attenti a tenerla insieme, al riparo, perché tutto quel suo essere frastagliato non cadesse a pezzetti.
Mi chiamava dalla casa di riposo e spesso mi chiedeva di te.
Come va con Maurizio? State insieme da tanto, perché non me lo porti mai?
Va benissimo mamma. Sai, il lavoro. Certo che va tutto bene.
La mappa delle farmacie della città.
In città ci sono trentadue farmacie. In due anni le ho girate tutte due volte, una dopo l’altra.
ho comprato sempre la stessa cosa, all’inizio ogni due settimane, negli ultimi tempi ogni cinque o sei giorni.
La ricetta la scrivevo da me.
Un tuffo nel passato: rivedo mia madre e le sue boccette colorate sul comodino, di fianco al letto; quando ero bambina le mettevo in fila, in base al colore decidevo se fossero maschio o femmina, le facevo fidanzare, litigare, sviluppare superpoteri, combattere, morire. Mentre le mie compagne di classe si divertivano con le bambole, io giocavo con i farmaci.
Ho aspettato fino ai quattordici anni prima di provare una compressa. Era una dolce perlina rosa, piccola e graziosa come una zigulì.
Il 21 dicembre.
Questa mattina l’ho trascorsa a letto fino alle 11, poi sono andata in bagno, mi sono guardata allo specchio qualche secondo, ho registrato velocemente: le occhiaie, il pallore, gli occhi che sembrano sconosciuti. Ho aperto la bocca e mi sono studiata i denti, ho tirato fuori la lingua e ci ho trovato delle piccole afte. Poi ho preso una compressa a base di Fentanil.
Sono tornata a letto fino alle due.
Dalle due alle cinque non ricordo cos’ho fatto,mi sono resa conto di essere sotto la doccia, l’acqua fredda mi punge la carne, scroscia sul pavimento, mi guardo la punta dei piedi chissà da quanto tempo. Mi sono lavata, ma il passato non si è lasciato sfregare via, quindi ho inghiottito un’altra compressa. Poi ho infilato un paio di jeans e un maglioncino, ho messo un filo di trucco ma la mano ha tremato e ho sbavato la matita, non mi sono presa la briga di rimediare. Ho aspettato le diciotto e trenta e, quando tu sei sceso dall’autobus, sono uscita dall’appartamento.
Ho inciampato sui primi gradini, forse di compresse ne ho prese tre, forse cinque, forse non ho mangiato, ma mi sono rialzata appena prima che tu spuntassi dal secondo piano.
Ciao Maurizio.
Ciao Maddalena.
La voce è uscita strana, impastata, dal riflesso nella finestra mi sono vista la faccia colare, i capelli confusi, l’espressione stravolta.
Non ha importato, perché tu, ancora una volta, non mi hai guardata.
Ho desiderato fermarti, afferrarti il braccio e costringerti a girarti, prenderti la testa fra le mani, strizzarla e sollevarla in modo che i tuoi occhi incontrassero i miei, gridarti: Guardami! Cristo, guardami! Voglio solo che tu, per una volta, mi guardi! Nient’altro di più, solo che tu, per una volta, mi veda.
Sono stata zitta. Ti sei chiuso la porta alle spalle e allora mi sono accasciata sui gradini, fissando la nostra crepa a forma di Emme.
Dal tuo appartamento ho sentito lei che ti ha chiesto: Con chi parlavi? E tu che le rispondi: Nessuno, solo quella del piano di sopra.
Mentre ricordo passano le ore. Sento un freddo tremendo, trascendente, il gelo dello spazio profondo. Tutto sembra distante, galassie lontane e da qui, da questo posto immobile e remoto, ora vedo più chiaro.
Sono Maddalena, sono il mio corpo che diventa mezzena, un pezzo di carne che inizia a marcire. Sono i pensieri che slittano via e finalmente trovano spazio, si dispiegano, risplendono e diventano coscienza universale. Sono il terrore di essere abbandonata, sono la mia voce che esce strozzata tutte le volte che c’è da dire la parola fine. Sono la paranoia di mia madre, l’abbandono di mio padre, i silenzi che non ho saputo spezzare, le volte che ho lasciato una stanza perché avevo paura delle persone che c’erano dentro.
Ma sono anche le mie guance che si increspano quando sorrido, sono io a cinque anni che gioco e immagino di essere un cavallo che corre, che voglio essere una principessa ribelle. Sono la sfumatura di umorismo che mi diverte e che non deve essere mai volgare, i libri di biologia vicino al letto, la pacatezza, l’eccessiva delicatezza che mi ha fatto solo sfiorare le cose, per timore o per troppo rispetto, che per il resto del mondo è una menomazione ma che io, di me, apprezzo. Sono il desiderio sessuale che non ho mai confidato, non ho mai realizzato, sono i pensieri cattivi, quelli confusi, le dipendenze e l’arrendevolezza. Sono l’ossessione per un uomo che non mi vede.
Sono i miei studi. So cosa sta succedendo ora al mio corpo.
Il freddo mi abbandona e i muscoli tornano a rilassarsi, in questo momento le membrane si spezzano, scoppiano come pop corn e rilasciano enzimi, che si saziano delle mie cellule, le mangiano dall’interno verso l’esterno. È passato più di un giorno da quando sono morta. Su fegato, cuore, polmoni e sulla mia pelle si formano lisosomi; uno a uno si lacerano e rilasciano fluido che rende il mio corpo lucente. Vorrei che mi vedessi ora, splendo come diamante, brillo, sono un gioiello, uno sfarzo, un incredibile pendente prezioso. Ma non è ancora il momento, devo aspettare.
Cambio colore. La gravità fa depositare i globuli e la mia pelle diventa purpurea, poi blu come l’uva. Da questa angolazione, con la testa che pende, intravedo le dita delle mani: ho sempre provato una certa ripugnanza per le mie mani, anemiche e grinzose sin da adolescente, ora invece mi sembrano belle, così particolari nella loro nuova tonalità.
Dai miei tessuti corrotti, dagli anfratti e dalle cavità ora abitate da larve, si liberano gas, vapori sottili.
Il livore è quello che stavo aspettando, finalmente una parte di me fuoriesce dal corpo: il mio odore striscia sul pavimento, si espande, infine scivola sotto la porta.
Per l’ultima volta scendo le scale e vengo a trovarti.
Le ultime ore di vita sono state serene. Dopo avervi sentiti parlare sono tornata nel mio appartamento, per scrollare via il torpore dei farmaci, ho cucinato e mangiato. Con calma serafica, sul divano, ho bevuto un caffè guardando la neve, fuori.
Ho ascoltato della musica. Mina cantava Fumo blu, ballando mi sono spogliata, sono andata all’armadio e ho indossato il vestito più bello. Blu anche quello. Ho spazzolato i capelli mentre Mina lasciava il posto a Nada. Ho sistemato il trucco sbavato, poi mi sono fissata nello specchio. Quella faccia così familiare, con le orecchie troppo grandi per il mio volto, il buco del piercing al labbro che non si è mai rimarginato, gli occhi scuri come la liquirizia, le rughe alle quali ancora non mi sono abituata. Un volto che non rivedrò mai più.
Sono salita sulla sedia.
Quando sento i passi sulle scale devono essere passati cinque giorni e in me, come speravo, c’è ancora un’ombra di vita.
Tanto basta per sentire la tua voce che mi chiama e guardare la maniglia abbassarsi. Vedere la tua figura sulla soglia, il viso che ti si contorce, deforma. Le mani che si arrampicano sulla bocca e bloccano un urlo che vuole uscire ma non ce la fa, rimane là a strozzo.
Per osservare avidamente i tuoi occhi che indugiano su me, si arrestano e non riescono a staccarsi.
Finalmente, ora, mi hai vista.
Margherita Seppi:
Nasce in un paese di 300 anime in Trentino, dove per i primi 18 anni di vita fa esperienza di dove non vuole stare. Si redime trasferendosi prima a Bologna, dove si laurea in Scienze della Comunicazione, poi a Trento, dove si laurea in Filosofia e ottiene un master in Web Marketing e infine a Berlino, dove si guadagna da vivere scrivendo, ma non quello che lei vorrebbe. Se la cerchi la trovi ad un concerto, o in una situazione strana. Storica collaboratrice di Yanez e nella redazione di Rivista Eterna.
Cristiano Baricelli:
Cristiano Baricelli nasce a Genova nel 1977. Autodidatta dal 1997 elabora una personale tecnica di disegno basata sull’uso della penna a sfera.Ha partecipato a numerose mostre collettive e personali e collabora con Fanzine e Magazine di illustrazione tra cui: Grrrz Comic Art Books, Nurant, Watt, CartaCanta, Nitch, L’inquieto, Pastiche, Verde Rivista, Antropoide, Illustrati, Nèura, Freak Out, Guida 42, Carie, Rituali, Effe Rivista, Risme, Squadernauti, Racconti Crestati, Digressioni, 88Bestie , Aguaplano, Horror Moth, Framed, Settepagine, Fillide, Birdmen, Isterismo, Slerfa, StreetBook, Eterna, Hypnos, Medicine, L’ombroso, Machina, Interiors, Yanez, Axolotl. Attualmente sta sperimentando tecniche miste e odia svegliarsi presto la mattina
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