Al centro della scena una figura umana, dalla forma serpeggiante, scossa. Nessun connotato che ne faccia intuire l’età o il genere, solo un sentimento che deforma il volto: la paura. Ha gli occhi sgranati, gialli. Le mani sul viso, ai lati, come a sostenerlo mentre la bocca si spalanca in un terribile grido. L’urlo è un dipinto angosciante, perché angoscia era ciò che provava Edvard Munch il giorno in cui s’imbattè nell’ispirazione da cui ha preso forma l’opera, durante una passeggiata lungo un sentiero sulla collina di Ekberg, nei pressi di Oslo. Quella sagoma disperata è l’autore stesso: “Camminavo sulla strada con due amici, il sole tramontava, sentii come una vampata di malinconia. Il cielo divenne all’improvviso rosso sangue. Mi arrestai, mi appoggiai al parapetto, stanco da morire. Vidi le nuvole fiammeggianti come sangue e una spada. Il mare e la città di un nero bluastro. I miei amici continuarono a camminare. Io rimasi là, tremando d’angoscia, e sentivo come un grande e interminabile grido che attraversava la natura”.
Con la sua opera e con queste parole, l’espressionista svedese racconta quello che in Germania chiamano Weltschmerz. Una parola, come diverse altre nella stessa lingua tedesca, che non può essere tradotta pienamente. Significa dolore cosmico, stanchezza del mondo, preoccupazione e ansia per ciò che accade al di fuori di noi, anche molto lontano da noi, e per cui non possiamo fare nulla.
Sheldon Cooper, iconico personaggio della serie tv The big bang theory, dopo aver diagnosticato che Leonard Hofstadter sta soffrendo di Weltschmerz, lo definisce come la depressione che nasce quando si paragona il mondo così com’è a un mondo ipotetico e idealizzato.
Qualche settimana fa, mentre mi trovavo in viaggio in una Lombardia già in piena emergenza siccità, un amico mi ha detto: “Mi sento sopraffatto”. Si riferiva a ciò che accade in questo momento non solo nel luogo in cui vive, ma sull’intero pianeta. Il suo elenco comprendeva, nell’ordine: il cambiamento climatico e le sue conseguenze, le guerre, la crisi economica, il COVID-19.
Sono sopraffatto. Vinto, sconfitto, non c’è niente che io possa fare.
Il termine è stato usato per la prima volta dallo scrittore e pedagogista Jean Paul, pseudonimo di Johann Paul Friedrich Richter, nel romanzo Selina, del 1872. Una delle sue opere, Il titano, ispirò il compositore Gustav Mahler, che lo rese musica nella Sinfonia n.1 in Re Minore (detta anche, appunto, Il titano). Il tema della natura e il pessimismo si rincorrono nelle note malinconiche del poema sinfonico. Il più noto dei movimenti è il terzo, in cui è centrale il tema della morte: Feierlich und gemessen, ohne zu schleppen (Solenne e misurato, senza trascinarsi). Si tratta di una grottesca marcia funebre, una sorta di parodia della canzone per bambini Fra Martino.
Ma fu soprattutto la letteratura (prima quella romantica, poi quella decadente) a essere influenzata da questo concetto. In Italia, Giacomo Leopardi espresse al meglio la sensazione di dover assistere, impotenti, a una situazione che non può evolversi positivamente. È consapevole che ogni essere vivente sta sperimentando uno stato di infelicità, a cui è costretto dalla natura, che è maligna e non permette un miglioramento delle condizioni del mondo. Scrive nel suo Zibaldone: “La natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno, come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità, è infelice, come chi non ha di che cibarsi, patisce di fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo, senza nemmeno aver posto la felicità nel mondo. Gli animali non han più di noi, se non il patir meno; così i selvaggi: ma la felicità nessuno.”
E nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia si rivolge direttamente alla colpevole:
“O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor?
perché di tanto
inganni i figli tuoi?” .
In Francia, il Weltschmerz è riconducibile alla corrente del Mal du siècle. Autori come François-René de Chateaubriand e Alfred de Musset scrissero della malinconia e della sfiducia provata al cambio di secolo, con la perdita di Napoleone, percepito come una figura paterna. Lo scrittore ungherese Nikolaus Lenau, invece, lascia morire il suo Don Juan nella stanchezza del mondo, in un lento Weltschmerz in cui il dolore è voluttà e la voluttà è dolore.
Dati i tempi, la percezione di quello che accadeva altrove era limitata rispetto a quella che si ha nell’epoca attuale, in cui le notizie arrivano nel momento stesso in cui accade il fatto e abbiamo i mezzi per connetterci con il pianeta intero. Quindi, anche il significato del termine si è evoluto: da disillusione per ciò che la natura non permette agli individui e agli altri esseri viventi, diventa frustrazione per i danni che l’uomo stesso ha causato a livello globale.
“Il fatto è che abbiamo creato un mondo in cui il Weltschmerz è quasi inevitabile – scriveva il giornalista Oliver Burkeman sul Guardian nel 2015 – se qualcuno, in qualsiasi parte del pianeta, si comporta in modo spaventoso, i mezzi d’informazione ce lo fanno sapere subito, mentre prima forse non lo avremmo mai saputo”.
Per decidere se una storia è pubblicabile, se ne valuta la notiziabilità. Ovvero, deve soddisfare alcuni criteri che riguardano la sua importanza e l’interesse che suscita nel pubblico a cui è diretta: l’impatto sul Paese dei lettori, sia nel tempo attuale che in prospettiva futura; il coinvolgimento di un personaggio rilevante o famoso; la vicinanza; la quantità di persone implicate; la stranezza di ciò che è accaduto. Se in un altro Paese viene ucciso un uomo, in Italia non sarà importante per il pubblico a meno che non riguardi un personaggio noto. Se viene compiuta una strage, nonostante la distanza, un numero più grande di utenti sarà attratto dalla news. Secondo i dati riportati dalla Ong Armed conflict location & event data project (Acled), specializzata nella raccolta, nell’analisi e nella mappatura dei conflitti, ad agosto 2022 sono in corso 59 conflitti nel mondo. Tuttavia, quello in Ucraina viene percepito in Europa con più paura e urgenza. Perché è vicino, innanzitutto. Perché Putin ha minacciato apertamente chi avrebbe dato solidarietà e aiuto al Paese invaso. Perché Gazprom sta tagliando la fornitura di gas agli Stati importatori. Perché c’è la crisi del grano, che l’Italia comprava da entrambe le nazioni in guerra. E poi perché ci sono i rifugiati, che si sono sparpagliati per il continente.
La solidarietà mostrata nei loro confronti è stata pressocché unanime. Le bandiere ucraine si sono moltiplicate sui social, sui balconi, nei palazzi delle istituzioni e nei musei. Si sono create catene di aiuti tali da far pensare che un po’ di umanità ancora esiste. Ma questo sentire l’altro, anche se viene da un’altra parte del globo, questo sentimento che ha portato la gente all’azione in nome del miglioramento della vita comune, questo Weltschmerz, si è dimostrato selettivo. È naturale: come scritto sopra, l’interesse spesso è legato imprescindibilmente all’impatto che un accaduto ha sulla nostra vita quotidiana. È istintivo. Altrettanto spesso, però, questa selettività nasconde un pregiudizio, diviene discriminazione. Nell’articolo “Appunti di guerra. Corrispondenza ucraina“, su Yanez, Mauro Mondello scrive: “Fuori, intanto, fa un freddo che taglia in due le mani e il cuore. O almeno, lo taglia a me il cuore quando vedo un gruppi di ragazzi indiani che viene messo ad aspettare in una coda a parte. Non posso fare a meno di pensare che la meravigliosa ondata di solidarietà che sta invadendo l’Europa valga soltanto se sei biondo, con gli occhi azzurri”.
Non vengono mostrati gli stessi sentimenti compassionevoli, spesso nemmeno la comprensione (figuriamoci la mobilitazione), quando si parla di rifugiati che arrivano in Italia sui barconi. L’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini definì la loro condizione “una pacchia”, traducendo, ahinoi, il pensiero di altri italiani. Ma perché non ci immedesimiamo così facilmente nelle persone che scappano dal conflitto libico, imprigionate in campi di concentramento, torturate? Poiché non ci somigliano, hanno un colore della pelle diverso e arrivano da un luogo che non viene considerato civile come il nostro. In pratica, non pensiamo che potrà mai accadere a noi. Neppure le immagini dei naufragi, le storie delle vite perse in mare e di quelle salve per miracolo, hanno provocato un’emozione tale da convincere la maggior parte del Paese che ogni guerra è ingiusta e che dovrebbe essere un diritto poter scappare da un conflitto, provare a migliorare la propria esistenza cercando una via d’uscita dall’inferno. No, al contrario, il nemico per alcuni sono le ONG e chi cerca di aiutare, chi non ha bisogno di una parola, né tedesca né italiana, per non essere indifferente.
Il Weltschmerz, dunque, non è un dolore davvero cosmico, rivolto a tutto il mondo, né un dolore universale, che tutti riescono a sperimentare. Dipende molto dalla nostra empatia, definita dall’Enciclopedia Treccani come “Capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro”. La parola italiana è di origine greca, deriva da εμπάθεια” (empátheia), composta da en- (dentro) e pathos (sofferenza o sentimenti). Era usata per riferirsi al rapporto che si instaurava durante gli spettacoli teatrali tra l’autore-cantore e il suo pubblico. In italiano, questo concetto spesso si utilizza per tradurre un’altra parola tedesca, Einfühlung. Alla base della teoria estetica di Vischer e Lipps, fu impiegata per definire l’arte come l’immedesimazione del sentimento nelle forme naturali, a causa di una simpatia o similitudine tra soggetto e oggetto. In altre parole, il piacere estetico non sarebbe che un godimento oggettivato di noi stessi, dal momento che vediamo la bellezza in ciò su cui riusciamo a proiettarci. Nelle scienze umane, l’empatia è una predisposizione a mettersi nei panni altrui, a osservare la sua vita e gli eventi che gli accadono dal suo punto di vista, senza giudicare.
Uno studio condotto su 46.800 persone dai ricercatori dell’Università di Cambridge, dell’Institut Pasteur, della Paris Diderot University e della compagnia per le analisi genetiche privata 23andMe, poi pubblicato sulla rivista Translational Psychiatry, ha scoperto che l’empatia (o la sua mancanza) è ascrivibile per il 90% a fattori ambientali. L’indagine statistica per cui sono state prese in considerazione oltre 10 milioni di varianti genetiche, ha portato alla conclusione che solo il 10% delle variazioni delle capacità empatiche della popolazione dipende dai geni.
Mentre mi trovavo ad Amburgo, da dentro il bar di un hotel del centro, ho visto un uomo lasciarsi cadere sul marciapiede, faccia al sole di luglio. Gli occhi chiusi, una bottiglia nella mano. Dalle condizioni delle scarpe e dei vestiti che portava, era evidente che fosse un clochard o, per lo meno, non un residente benestante che si è dato al day drinking e non l’ha retto. Un altro uomo, un turista americano, lo osservava come me dalla vetrata. Dopo averci pensato una manciata di secondi, ha commentato ad alta voce che non era in grado di capire queste persone, che scelgono di non essere una parte produttiva del loro Paese. Gli ho fatto notare che potevamo prendere in considerazione una prospettiva diversa: che sia stato lo Stato del senza tetto a non aver creato le condizioni per aiutarlo? Ho aggiunto che non sapevamo niente di come era arrivato fin lì e che si potrebbe trattare di scelte sbagliate, sì, ma anche di sfortuna, di poche opportunità, di disagi che non dipendono da lui. Oltre al fatto che neanche poteva soffrire in santa pace senza ricevere un giudizio infastidito da uno sconosciuto. In tutta risposta, il turista ha ribadito che, secondo lui, le mie erano motivazioni poco probabili.
Il cortometraggio Weltschmerz del regista Christian Walsh racconta la storia di una donna deportata dai nazisti in un campo di concentramento. Un ufficiale delle SS la sta torturando, in attesa che venga impiccata davanti a tutti, per farne un esempio. Alla durezza delle immagini si alternano altre sequenze luminose e placide, nelle quali due bambini stanno giocando nei pressi di un ruscello. Da grandi, quei bimbi si trovano in una stanza poco illuminata, in un lager. E quando lei si fa riconoscere, l’ufficiale si pente, soffre, ma non riesce a fare nulla. Anche chi lo guarda da uno schermo soffre, per le ferite della donna e per il rimorso dell’ufficiale. Poiché il tema dell’Olocausto genera un senso di rabbia e di impotenza, di angoscia e depressione, che sono sentimenti propri del Weltschmerz. Ed è una sensazione quasi universale (se tagliamo fuori i negazionisti), dato che non abbiamo mai assistito a una pagina peggiore nella storia dell’uomo. Ma che non vi abbiamo assistito o abbiamo girato la testa da un’altra parte, non significa che non ce ne siano anche altre, nell’epoca che viviamo adesso. Ma allora dobbiamo disperarci e soffrire per tutto quello che succede? Solo all’idea sembra di impazzire.
Nel dipinto Il campo di grano con volo di corvi il cielo scuro sembra scendere inesorabile insieme ai volatili neri, su un campo di cereali fatto di pennellate brillanti e agitate. Affidare il nostro Weltschmerz a una tela o a un quaderno non può che far bene, certo. Tuttavia, secondo lo psicologo Luca Mazzucchelli, c’è un’altra terapia da non sottovalutare: “occuparci” anziché preoccuparci. Aiutare, come si può, l’ambiente, i poveri vicini o lontani, i profughi, gli ammalati. O, per lo meno, non ostacolare in alcun modo chi lo sta facendo.
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