Mauro Mondello, direttore di Yanez, sta seguendo sul campo, come corrispondente per diverse testate, sin dallo scorso 24 febbraio, l’invasione russa in Ucraina.
Questo pezzo contiene una selezione di pensieri sparsi, riflessioni, appunti,
fissati a penna sulla sua agenda e qui trascritti.
Medyka, confine Polonia – Ucraina
Lo sapevo che avrebbe fatto freddo, penso. Eppure, prima di partire, mi dico sempre “ma sì, quanto freddo potrà mai fare?”. E poi ne fa tanto. Le mie scarpe da corsa non si difendono dal gelo doloroso che s’infiltra nelle doppie calze di cotone spesso che ho appositamente comprato in previsione di questa precisa situazione, e che non bastano. Nemmeno le suole di lana che mi hanno regalato e ho aggiunto al fondo bastano. L’unico elemento che mi sostiene sono gli occhi dei miei giovanissimi compagni di fila. La coda per superare questo confine è lunga chilometri, cinque o sei almeno. Ne ho già camminati più di due e continuo a superare auto abbandonate: per attraversare in macchina fra Ucraina e Polonia ci vogliono più di novanta ore, a piedi invece pare ce la si possa cavare con sessanta. Sembra poco, ma fa la differenza. Il freddo, dicevo. Si aspetta al buio, con temperature siderali, e nessuna assistenza, o un bicchiere d’acqua calda, nemmeno un bagno. A un certo punto, saranno state le tre di notte, mentre cercavo di scaldarmi le mani avvolgendole nell’unica cosa simile a una sciarpa che ho portato con me, una kefiah nera comprata ad Aleppo ancora prima della guerra in Siria, oltre dieci anni fa, un bambino, da una macchina scura piena di valigie caricate dentro un portabagagli che è legato al paraurti posteriore con una corda gialla e un gancio, batte il dito sul vetro, verso di me: mi chiede se voglio entrare. Che cosa incredibile, penso, che un bambino di sette, otto anni, possa avere un pensiero così gentile per uno sconosciuto, nemmeno fisicamente tanto simile agli sconosciuti che è abituato a trovarsi intorno. Lo guardo con gli occhi della felicità più vera, mi basta che me l’abbia chiesto e mi solleva un poco realizzare, in mezzo alla disperazione che calpesta quest’asfalto, che l’essere umano non nasce orribile, ma puro, e che sono l’esperienza, la cultura economica, i traumi e le vicissitudini a trasformarlo, a volte, in un individuo peggiore di quello che sarebbe potuto diventare. Mi metto la mano sul cuore, come ho imparato a fare in Medio Oriente, ma ormai non serve a nulla. Il padre del bambino scende dalla macchina, mi cede il suo posto. Provo a dire di no, ma non è possibile: entro. C’è un caldo prezioso, che mi scongela i piedi, il naso, il cappello e i sentimenti buoni, che in questi giorni si erano nascosti. Rimango appena pochi minuti, in un silenzio pieno di sorrisi e movimenti ondulatori della testa. Quando scendo, mi è ritornata un poco di speranza.
Leopoli, Ucraina
Com’è strana questa città, in cui tutto continua e tutto sembra fermo. Migliaia di persone si sono date appuntamento qui, a una manciata di chilometri dal confine con la Polonia, nella speranza che almeno questa fetta di paese non venga bombardata. “La colazione è dalle 7.30 alle 10.30. La stanza è al terzo piano, l’ascensore è sulla destra, ma quando suonano le sirene meglio fare le scale. Il rifugio è nel parcheggio sotterraneo, basta scendere fino in fondo. Il check out è entro le ore 12.” Di fronte alla stazione ferroviaria di Golovni, con la sua cupola centrale a esagono e la bandiera ucraina a sventolare in cima, c’è una fila di persone infinita, nell’attesa di potersi schiacciare dentro a un treno diretto in Polonia. Si allunga per tutta la via Chernivetska, fino all’angolo con un negozio che, lo guardo e non posso fare a meno di sorridere, porta un’insegna con su scritto Pizzeria Celentano. Qui la guerra è più strana che negli altri posti. C’è un’attesa di paura, uno sfinimento dell’anima, la sensazione di vivere dentro un non-luogo, una terra di mezzo che potrebbe aprirsi in due da un momento all’altro. Visito la birreria di quartiere dove i ragazzi imbottigliano molotov, in silenzio. Si è parlato tanto di queste iniziative popolari di resistenza, a volte pure troppo, mitizzando uno spirito combattivo che in realtà, negli occhi di questa gente, è velato da un’angoscia profonda. Quello che respiro a Leopoli, più che negli altri luoghi che ho sinora visitato durante questi giorni, è un senso di inadeguatezza, come di neve caduta sulla sabbia. Sembra che qui l’eventualità di un bombardamento sia vista come un affronto più ingiusto, più iniquo, più brutale. In ogni palestra, in ogni scuola, in ogni museo, in ogni soggiorno di ogni casa privata, c’è buttato a terra un materasso. Arrivare qui appare come una liberazione, dopo decine di ore passate in vagoni che potrebbero ospitare sessanta persone, e dove ce ne stanno invece accalcate più di cento. Ma dura poco. Presto ci si accorge che Leopoli non è la soluzione, ma solo la penultima fermata dentro l’Apocalisse.
Uzhgorod, confine Ucraina – Slovacchia
La stazione degli autobus di Košice mi ricorda un film di Aki Kaurismäki. Siamo nel 2022, ma siamo pure nel 1991. Il tetto di lamiera che copre la fermata è verniciato con un blu forte, intaccato non tanto dal tempo, quanto dalla vita che gli è passata sopra e sotto. Il bus verso l’Ucraina arriva pieno di ragazze, di signore, di bambini, che aiutiamo a scendere, portando fuori dai portabagagli le borse di tela, i trolley, le valigione, dentro cui resta un ultimo pezzo d’esistenza. A ripartire verso Uzhgorod siamo soltanto in cinque. Tre uomini, che tornano a combattere, e una signora sulla cinquantina, che ha accompagnato fuori la figlia di 23 anni con una nipotina appena nata, ma che torna a casa, “perché il marito l’aspetta”. Appena cinquecento metri e via, ci si ferma subito. A caricare scatole, pacchi, cartoni, borse, piene di aiuti umanitari. Scendiamo tutti a dare una mano e quando si riparte l’autobus è colmo di coperte, pannolini, cibo in scatola, che verrà distribuito, come possibile, in giro per tutta l’Ucraina. Ci vogliono meno di due ore fino alla frontiera, attraversando, nel buio fitto, villaggi di casette basse e una pianura cupa, grigia, un po’ senza speranza. A Vysne Nemecke, di fronte ai blocchi di cemento che, poggiati sull’asfalto, limitano l’accesso ai controlli doganali, c’è un universo di luci e di ragazzi in pettorina gialla, che aspettano i migranti ucraini appena dopo la frontiera. Pensavo ci volesse meno, a passare dall’altra parte, e invece per cinque lunghe ore rimaniamo fermi, aspettando che un militare effettui i controlli sui nostri documenti. Fuori, intanto, fa un freddo che taglia in due le mani e il cuore. O almeno, lo taglia a me il cuore quando vedo un gruppi di ragazzi indiani che viene messo ad aspettare in una coda a parte. Non posso fare a meno di pensare che la meravigliosa ondata di solidarietà che sta invadendo l’Europa valga soltanto se sei biondo, con gli occhi azzurri. Proprio ieri, mi ha scritto un’amica di Grupa Granica, l’unica organizzazione che continua ad assistere i migranti respinti al confine fra Polonia e Bielorussia, è morto assiderato un ragazzo senegalese di 24 anni, tra i boschi di Bialowieza. Penso sia importante dirle queste cose. In queste settimane qualsiasi opinione che proponga un approccio non di contrarietà, ma anche solo di riflessione, di idea critica, rispetto a una posizione dell’Ucraina, viene tacciato di propaganda russa: mi sembra una cosa molto pericolosa.
L’attacco russo è folle, orribile, disseminato di azioni che chiaramente vanno contro ogni regola dell’ingaggio militare e che costituiscono un crimine di guerra. La solidarietà all’Ucraina doverosa, totale, giusta. L’assistenza a chi è obbligato a fuggire per evitare di morire, di fame o di bombe, un gesto di civiltà meraviglioso, anche se purtroppo inedito: c’è sempre una prima volta e sono felice sia arrivata adesso, anche per l’Europa. Ma non bisogna cadere nel meccanismo del pensiero unico. Se l’Ucraina fa una cosa sbagliata, se si pensa che Zelensky o chiunque altro stiano compiendo, dicendo, qualcosa che non ci convince, va bene dirlo, è fondamentale sottolinearlo. Questo non cancella nulla di quanto detto sopra, nemmeno un centimetro della solidarietà all’Ucraina e della condanna, senza giustificazione alcuna, per Mosca ed il suo esercito. Ma criticare, ad esempio, alcuni militari ucraini per le distinzioni etniche, evidenti e più volte riportate da osservatori esterni, nei controlli di frontiera, non significa essere dalla parte della Russia, ma solo denunciare una vicissitudine importante. Se non si compie uno scarto, da questo punto di vista, saremo destinati, anche in questa guerra, così come per la grandissima parte delle informazioni che ci arrivano, a costruire la nostra opinione in maniera piatta, e non attraverso un approccio critico: è il punto cruciale di una buona informazione.
Siret e Chisinau (Confine Ucraina-Romania e Moldavia)
In queste settimane ho visto tanti profughi ucraini, ma questi sono più stanchi, più provati, più spenti. Vengono quasi tutti da Kharkiv, da Cherson, dalle città più martoriate dai bombardamenti. La neve cade a copiosi fiocchi bianchi in questo posto di confine e le giovanissime mamme trascinano bambini e borse, mentre i volontari fanno del loro meglio per trovare un posto su uno degli autobus che le porti via, in uno dei campi di prima accoglienza. Fa -15 qui a Siret, nella regione di Bucovina, una pianura immensa di animali che non si vedono, di verdure che non crescono. Nella palestra del centro rifugiati i bambini giocano a pallone. Mi metto un un po’ con loro, ma mi viene subito la tristezza. Mi sembra bello, che per questi ragazzini in fondo basti poco per ritornare a vivere una dimensione di felicità simile a quella di ogni giorno, ma non posso fare a meno di pensare che forse a casa non ci torneranno mai, che forse non sapranno mai che cos’è stata, la loro casa, il luogo nel quale sono nati. Come dev’essere crescere mentre scappi da una guerra? Mi sento ingiusto, poi, perché in questi giorni penso troppo spesso a quanto non abbiamo accolto tutti gli altri, ma solo questi. Ci penso di nuovo allo stadio di atletica di Chisinau, fra i materassi buttati sulla pista e la sporcizia, mentre racconto a un ragazzo spagnolo che è arrivato per dare una mano in cucina che questa straordinaria ondata di solidarietà mostra pure, allo stesso momento, tutto il nostro razzismo.
Odessa (Ucraina)
Gli ostacoli anticarro bloccano la vista di uno dei teatri più belli d’Europa, ma com’è bella Odessa, anche così, mentre aspetta l’attacco che viene dal mare, mentre si sposta sottoterra per evitare di morire sotto le bombe. La città, anche nel vuoto del silenzio, ha un’anima di fuoco che non si quieta. Non si avverte la rassegnazione impaurita di Leopoli, l’orgoglio ferito della capitale Kiev, la calma incosciente delle città dell’Ovest meridionale, ma una convinzione pura di chi è rimasto per combattere fino all’ultimo secondo, perché questa è la madre delle città d’Ucraina: è un sentimento, non è soltanto un posto. I militari ti guardano dalle fessure dei passamontagna, nascosti con il fucile a spalla dietro i sacchi di sabbia. Nei loro occhi non vedo determinazione, coraggio, ansia, ma solo comprensione del momento: siamo qui, adesso, e faremo quello che andrà fatto per difendere questo pezzo della nostra terra.
Sento il rumore dei miei passi infreddoliti sbattere sui ciottoli della via Troitska, mentre faccio il giro largo per rientrare in albergo, negli ultimi minuti di libertà della notte. Mi sembra, per la prima volta da quando sono in viaggio per raccontare l’invasione russa, di non essere qui, ma da un’altra parte. No. Non mi sembra. Io vorrei essere da un’altra parte, forse su un altro pianeta. Sicuramente non qui, non adesso. Come tutti gli ucraini che sono obbligati a restare e a combattere. Come tutti i russi che sono forzati a venire e a combattere.
Spengo la luce. Domani è un’altra guerra, la stessa guerra.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin