Come altre opere di Gian Lorenzo Bernini, il Ratto di Proserpina mette lo spettatore in uno stato di grazia, emozione e meraviglia, anche per quella sua tecnica prodigiosa che forse riteniamo irrimediabilmente perduta.
Non a caso è facile imbattersi nella condivisione entusiasta di foto che ritraggono proprio questo gruppo scultoreo, spesso focalizzando un dettaglio in particolare: le dita di Plutone che affondano voluttuosamente nella carni di Proserpina, lasciando una traccia visibile sul marmo e a noi l’illusione che quest’ultimo sia cosa viva.
Cito un internauta: “guardate le cazzo di mani di Plutone sulle cosce di Proserpina, ma di cosa stiamo parlando?!”.
Già. Di cosa stiamo parlando?
La storia ce la racconta Ovidio.
Siamo in Sicilia, nei pressi di Enna. Lungo le acque di un lago, Proserpina “gioca a raccogliere viole e candidi gigli”. Gioca, perché nei pochi tratti essenziali utilizzati da Ovidio per descriverla, spiccano quelli legati all’area semantica dell’ingenuità e della fanciullezza: Proserpina è una giovane donna incurante ancora dell’amore e ribelle all’idea delle nozze.
È anzi proprio questa sua reticenza ad armare la freccia di Amore per volere di Venere.
Il regno di Tifeo è instabile ed è necessario che Dite (Plutone) si sposi.
Ecco dunque che il suo cuore viene trafitto da un dardo, che ha come conseguenza subitanea quella di incendiare in lui il desiderio. Tutto si svolge velocemente.
“Tanto irrompe a precipizio l’amore”, che Proserpina è “subito vista e amata e rapita da Dite”.
Proserpina è atterrita; urla e chiama la madre.
Ha le vesti lacerate da cui cadono i fiori appena raccolti, e questa caduta sembrerebbe sancire simbolicamente la perdita della sua fanciullezza e ingenuità.
Nel gruppo del Bernini la vediamo opporre resistenza, con gli occhi quasi rivoltati, la bocca aperta nel grido, e una mano che respinge da sé Plutone che, al contrario, ha la presa ben salda… affonda le dita nella carne.
“Ma di cosa stiamo parlando”?
Parliamo evidentemente del racconto di uno stupro, di una donna che è presa contro la sua volontà per essere obbligata poi a un atto di congiungimento carnale.
La mitologia, a ben vedere, è piena di simili storie e rappresentazioni.
Zeus, “il padre degli dei e degli uomini”, principio di autorità dalle cui azioni, per gli antichi, derivava in terra il corso impresso agli avvenimenti umani e l’ordine stesso del mondo, Zeus, si diceva, potrebbe oggi essere definito, tra le altre cose, anche uno stupratore seriale.
Ricordiamo un caso tra tutti, quello di Europa.
Il mito è già attestato nella letteratura greca da Esiodo e poi ripreso ancora da Ovidio ne Le Metamorfosi.
Principessa fenicia, figlia di Agenore re di Tiro, cresce sulle sponde del Mediterraneo su cui si affaccia l’odierno Libano.
Anche lei è fatta bersaglio delle mire divine mentre è intenta a raccogliere fiori.
Tuttavia, nel mito di Europa, compare anche un altro elemento importante ai fini della rappresentazione: l’inganno.
Per circuirla, Zeus si trasforma infatti in un toro.
Cigno, aquila, cuculo, sono tanti gli animali di cui prende le fattezze Zeus nella mitologia, ma l’intento ultimo è spesso quello di ingannare una donna, per poi prenderla con la forza, accoppiarvisi, e infine renderla madre.
Ma torniamo alla storia.
Zeus è qui dunque un toro mansueto, dal manto candido come neve, che “cammina sull’erba tenerissima”, dirà ancora Ovidio, e con “il muso in pace”.
Europa offre anzi proprio a lui i fiori che ha appena raccolto, gli inghirlanda le corna, e il toro si comporta come fosse un cagnolino: mostra il petto per farsi accarezzare, rotola il fianco sull’erba. Al punto che Europa “osa” sederglisi sulla groppa.
Colpa sua, avrebbe a dire qualcuno oggi.
Perché ecco che il toro prontamente la rapisce e “senza parere”, ovvero senza interpellare niente e nessuno, “si porta la preda in mezzo al mare”, mentre lei, “terrorizzata”, guarda la spiaggia allontanarsi sempre più.
L’Europa nasce così.
Dal rapimento di una donna sulle coste del Medio Oriente che con la forza e l’inganno viene portata via dalla sua vita, dalla sua terra, in un luogo per lei lontanissimo, a Creta.
Qui sarà costretta ad unirsi a Zeus, diventerà madre di tre figli tra cui Minosse – futuro re – e infine, per questo, darà il suo nome a un intero continente.
Il mare che l’atterrita Europa attraversa sulla groppa del toro, segnerà anche il nuovo confine tra Oriente e Occidente, nato in modo bellicoso, come si vede.
Ma questa è un’altra storia.
Guardiamo invece una moneta da due euro.
Se siamo fortunati, ed è di conio greco, ci troveremo con molta probabilità il mito di Europa raffigurato su una delle due facce.
Voi cosa vedete?
Io personalmente una giovinetta civettuola, composta, che naturale si siede sul toro, quasi mettendosi in posa, mezza ignuda, come fosse in gita turistica in attesa di arrivare alle Seychelles.
Mi domando: è rappresentato l’attimo precedente al rapimento, quando Zeus è ancora un toro mansueto con cui giocare? O invece è da intendersi come un limite, dettato dalla necessità di economia nei mezzi espressivi?
Certo è che, in entrambi i casi, a chi distrattamente osservi i due euro che ci portiamo in tasca, l’immagine non evocherà nulla di offensivo, non susciterà l’idea di violenza e sopruso che invece, come si è visto, sono elementi fondanti di questo mito.
Ovvero di questa storia, che è solo una tra le tante.
La mitologia non è altro che uno dei più antichi serbatoi di storie con cui l’uomo, sin dall’antichità, ha cercato di rappresentare a se stesso il mondo, l’idea del bene e del male, del bello e del brutto, e anche del maschile e del femminile.
In queste dicotomie si nasconde ovviamente grande complessità, ma possiamo provare comunque ad avanzare delle riflessioni rimanendo sul nostro tema.
Quando Plutone viene trafitto dal dardo di Cupido e rapisce Proserpina, ci è restituita l’immagine di un uomo (anzi di un dio!) egli stesso preda di un istinto che non può combattere, o dominare. L’amore non ha nulla a che vedere con l’educazione sentimentale, ma è invece una forza cieca che chiede di essere soddisfatta, che irrompe “a precipizio”.
Così anche per Zeus, (il quale, lo ricordiamo, è il padre sommo, che incarna in sé il principio stesso d’autorità), l’amore non è altro che un esercizio di potere votato al soddisfacimento di una pulsione. Le donne poi che tentano di ribellarsi e di opporre resistenza alla furia predatoria, immancabilmente nella mitologia fanno una brutta fine.
In provincia di Siracusa, la Fonte Ciane prende il nome dalla ninfa sicula che, proprio nel mito di Plutone e Proserpina, cerca di opporsi al rapimento di quest’ultima.
– Non puoi averla con la forza –, dice Ciane a Plutone, – Non puoi sposare qualcuno incutendogli paura –.
Ma quando Plutone a queste parole scatena tutta la sua ira, Ciane, che nulla può contro l’atto di violenza, è presa da un dolore così cupo, e si apre in lei una “ferita così inconsolabile”, che si scioglie nelle lacrime fino a diventare acqua lei stessa.
In queste rappresentazioni del maschile c’è un nucleo consolidato che si ripete nella Storia e che mortifica anche gli uomini.
In un campo tanto importante come quello della sessualità, ecco che al maschile corrisponde solo l’idea di una virilità brutale, che si esercita con la forza, che gode nella sottomissione dell’integrità e della volontà dell’altro e che, in questo modo, perpetua l’esercizio del potere e lo consolida.
La donna invece, o è una vittima, o ripete anche lei nel mito alcuni modelli di comportamento affatto edificanti. L’amore, se non è subíto, si dà in lei come cieca passione, come ferita, con le conseguenze mortifere di una distruzione rivolta verso se stessa o verso altre donne. Pensiamo a Era, che di volta in volta non esita ad esercitare atroci forme di vendetta – di cui pagano le spese sempre le donne – perché ripetutamente tradita nei suoi sentimenti da Zeus.
Virginie Despentes, scrittrice controversa, ma che ha messo in moto alcune di queste mie riflessioni, indica nello stupro un progetto politico preciso: “ossatura stessa del capitalismo, è rappresentazione cruda e diretta dell’esercizio del potere”, che si deve tramandare per mano dell’uomo. Al tempo stesso, ricorda come proprio la fantasia di stupro sia un pensiero masturbatorio femminile ricorrente.
E a questo proposito scrive: “Queste fantasie […] non mi vengono in mente ‘out of the blue’. È un dispositivo culturale pregnante e preciso, che sessualmente predestina le donne a godere della loro stessa impotenza, vale a dire della superiorità dell’altro, così come a godere loro malgrado, piuttosto che come delle troie a cui piace il sesso. Nella morale giudeo-cristiana è meglio essere prese con la forza che essere prese per cagne, ce lo hanno ripetuto fino alla nausea. C’è una predisposizione femminile al masochismo, e non proviene dai nostri ormoni, né dal tempo delle caverne, ma da un sistema culturale; questa predisposizione ha implicazioni che intralciano l’esercizio delle nostre indipendenze. Voluttuosa ed eccitante, è al tempo stesso invalidante: essere attratte da quello che ci distrugge […]”.
La rappresentazione del rapporto tra uomo e donna, quale si è tramandata con stringente attualità dal mito fino al giorno d’oggi, va anch’essa nella direzione di un preciso paradigma culturale. Intaccarlo, richiede rischi, energie, frustrazioni, paure, come sono quelle che accompagnano la difficile battaglia – va ricordato: condotta soprattutto da e a spese delle donne – sul tema della sessualità e dell’identità di genere.
Ma va ricordato anche questo: siamo tutti coinvolti.
Anche gli uomini, che dalla loro dovrebbero lottare con uguale urgenza per emanciparsi “da una mistica maschile costruita come se fosse per natura pericolosa, criminale e incontrollabile”. Da un’idea del virile cui è attribuito “un carattere asociale, pulsionale, brutale”, che li equipara alla bestie, e da un desiderio che si dà come qualcosa di così impossibile da dominare, nel corpo e nella psiche, da lasciare sopraffatti.
Il famoso dardo di Cupido, a ben vedere, è ancora un’immagine perniciosa di ferita e di morte. Forse, dovremmo allora lasciare che anche nella sfera della nostra sessualità – là dove il mondo stesso ha origine – “irrompa” invece sempre di più Eros, inteso come pulsione di vita, dimensione affettiva e sì… amore.
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