La maggior parte di noi è abituata a vivere, vorrebbe vivere o, ancora più precisamente, crede di voler vivere, in un sistema meritocratico, ovvero che premia i più capaci, i più meritevoli. Similmente, l’idea di essere liberi impregna il nostro agire di senso, dà alla nostra vita valore di essere vissuta.
Senza libero arbitrio le nostre azioni sarebbero vuote e senza meritocrazia vivremmo in uno stato ingiusto, vero?
No, falso.
Alla fine di questo articolo spero di aver messo in dubbio entrambe questi assiomi. Quello che state per leggere è un testo contro la meritocrazia e che nega il libero arbitrio. E le due cose, sono collegate.
Parliamoci chiaro: io sono una persona fortunata e, se state leggendo da un computer o da uno smartphone, suppongo che anche voi non ve la passiate malissimo.
Sto scrivendo questo articolo da una stanza con una bella vista su Malta, ho un buon lavoro, non ho problemi economici, ho alcuni amici davvero stretti, ho la libertà di muovermi e di esprimere la mia opinione, sono sufficientemente sicura in me stessa da procedere nella vita pressoché come voglio. Questo perché sono cresciuta in una nazione del primo mondo in una famiglia che mi ha dato affetto e la possibilità di istruirmi, sviluppando il talento naturale di cui il patrimonio genetico mi ha fornita, ho avuto la giusta dose di traumi da farmi diventare più consapevole senza distruggermi la psiche, ho un aspetto decente e non ho malattie né fisiche né mentali.
Mi merito quello che ho oggi? No, ce l’ho e basta.
Allo stesso modo, sono stata libera di compiere le scelte che mi hanno portata in questa stanza, in questo momento? Io non credo proprio.
Più o meno così la pensava anche Michael Young: l’uomo che, nel 1958, coniò il termine meritocrazia, intendendolo in un senso tutt’altro che lusinghiero.
Young fu un indesiderato bambino inglese d’inizio Novecento. I suoi genitori, troppo impegnati in attività mondane, lo reputavano più un fardello che un dono del cielo. Dopo aver considerato la possibilità di mandarlo in adozione, optarono per una scelta meno drastica e lo spedirono invece in un collegio sperimentale, il Dartington Hall.
Fu la fortuna di Michael. La combinazione della sofferenza patita in giovane età e l’incontro con i suoi insegnanti, i filantropi Leonard e Dorothy Elmhirst, nonché con l’élite trasformista del tempo, tra cui il Presidente Roosevelt e Henry Ford, destarono in lui una profonda sete di giustizia: lo scopo di Michael diventò quello di cambiare la società cambiando l’animo della gente.
Young diventò uno tra i più grandi sociologi del secolo scorso e fu il pioniere della moderna esplorazione scientifica della vita sociale della classe operaia inglese. L’ideale cui Young mirava aveva al suo centro un sistema in cui sarebbe stato possibile per ognuno coltivare la propria personalità e le proprie attitudini, qualunque forma esse prendessero. Fu così che Young, come direttore del reparto di ricerca del Partito Laburista, aiutò ad introdurre il welfare state, a modificare la tassazione dei ricchi, a rendere il sistema educativo più equo, a diminuire le ore di lavoro ed aumentare la paga degli operai.
Questi sforzi permisero ai figli della classe lavoratrice di allora di scalare la gerarchia delle occupazioni e del reddito: tempo un paio di generazioni, e la classe operaia modificò il proprio status.
Benché profondamente consapevole di questi risultati e della loro necessità, Young era però anche preoccupato per i loro limiti: temeva che le riforme avrebbero sì dissolto le vecchie gerarchie, ma allo stesso tempo ne avrebbero create di nuove. E ciò che avrebbe creato tali nuove gerarchie sarebbe stata proprio la meritocrazia.
Young fu il primo a menzionare il termine “meritocrazia” nella sua opera del 1958 intitolata “The rise of Meritocracy”. Si trattava di una satira, nella quale l’autore tratteggiava le conseguenze distopiche che la distribuzione di privilegi e potere basata su intelligenza, educazione, talento, impegno, avrebbe prodotto sulla società. Secondo Young, in poche parole, la meritocrazia avrebbe creato una nuova aristocrazia basata sul fumoso concetto di merito.
Nel concreto, il libro di Young è una finta analisi scritta nel 2034 da uno storico che ripercorre lo sviluppo della società britannica durante i decenni precedenti. In quel lontano futuro, la nuova classe dirigente viene selezionata in base alla formula “QI + sforzo = merito”. L’aristocrazia ha ceduto il posto al governo dei più intelligenti, ma non per questo le disuguaglianze sono scomparse; semplicemente, ne sono sorte di nuove. Nella realtà distopica di Young, la ricchezza va mano a mano sempre più a riflettere l’innata distribuzione del talento naturale, sostituitosi all’eredità di sangue. Parallelamente i ricchi, gli intelligenti e i talentuosi che costituiscono la classe più alta, si isolano e procreano a tra loro, creando in questo modo una vera e propria casta. Di conseguenza, la società si spacca in due classi principali: i ricchi ed acculturati ed i poveri ed ignoranti. In questo contesto, tutti gli attori accettano il proprio ruolo: “gli eminenti sanno che il successo è una giusta ricompensa per le proprie capacità, i propri sforzi”, e gli ordini inferiori sanno di aver fallito ogni possibilità che gli è stata data e così ricoprono mansuetamente il loro posto di “poveri” e “stupidi”.
Cos’è il merito? O forse è meglio prima di tutto chiedersi, cosa non è il merito?
Quello che Young comprese già al suo tempo, prima che l’ideale di meritocrazia si diffondesse, è che esso confonde due diverse preoccupazioni, una è una questione di efficienza, l’altra è una questione di valore umano. Insomma, un sistema di classe filtrato dalla meritocrazia è, secondo Young, non migliore degli altri sistemi di classe, anzi: esso comporta una gerarchia di rispetto sociale, garantisce dignità ai vertici, ma nega rispetto e rispetto di sé a chi non eredita del talento e non ha accesso ad un’istruzione adeguata.
Proviamo a vedere la questione più nel dettaglio: se vogliamo che alcune persone svolgano lavori difficili che richiedono talento, istruzione, impegno, formazione e pratica, dobbiamo essere in grado di identificare i candidati con la giusta combinazione di attitudine e volontà e fornire loro incentivi per la loro formazione. Poiché ci sarà un’offerta limitata di opportunità educative e professionali, dovremo avere modi per assegnarle, ovvero dovremo applicare alcuni principi di selezione per abbinare le persone alle posizioni, ed istituire degli incentivi appropriati per garantire che il lavoro necessario venga svolto. Se questi principi di selezione sono stati concepiti in modo ragionevole, possiamo dire, se ci fa piacere, che le persone che soddisfano i criteri per entrare nelle scuole o ottenere i lavori “meritano” quelle posizioni.
Ma “merito” in questo contesto ha un’accezione molto debole e non ha nulla a che fare con la dignità intrinseca delle persone che entrano all’università o che ottengono un lavoro, non più di quanto i vincitori della lotteria siano persone di merito speciale e i perdenti in qualche modo siano meno degni. Innanzitutto perché, anche ai massimi livelli di successo, il caso e la fortuna giocano un ruolo enorme. Se Margherita Hack fosse nata un secolo prima, probabilmente, come donna, non avrebbe potuto dare contributi importanti al suo campo; se il padre di Mozart, invece di un compositore, fosse stato un macellaio, non avremmo “Le nozze di Figaro”. Nessuno dei due avrebbe potuto sfruttare le proprie attitudini se fosse cresciuto tra gli aborigeni in Australia.
E, naturalmente, intelligenza e capacità di lavorare sono esse stesse il risultato di patrimonio genetico e di educazione. Quindi né il talento né lo sforzo, le due cose che determinerebbero le ricompense nel mondo della meritocrazia, sono di per sé qualcosa di guadagnato.
Il futuro distopico ritratto in The Rise of Meritocracy si è in gran parte realizzato.
Per rendere più chiaro perché Young temesse l’avvento della meritocrazia e per spiegare perché essa, nella sua realizzazione, abbia fallito nei suoi propositi, analizzerò ora in modo più sistematico alcuni concetti problematici che ruotano attorno a questo ideale.
Iniziamo con il fulcro dell’ideale di meritocrazia, ovvero la nozione stessa di merito.
Cos’è il merito? O forse è meglio prima di tutto chiedersi, cosa non è il merito?
Il merito non è un parametro a-temporale capace di riassumere in se stesso tutte le qualità proprie di un essere umano, restituendo una stima oggettiva delle sue doti. “Merito” è un concetto relativo, radicato in un contesto filosofico, politico, sociale ed economico preciso, il quale inevitabilmente rispecchia gli ideali di tale contesto. Pensiamo un momento a quali professioni riteniamo degne di essere le più meritevoli, che tradotto significa “le meglio pagate”, oggi nella nostra società. Ecco cosa risulta da una veloce ricerca in Google: Senior Developer Engineer nel settore IT, Data Engineer, consigliere d’amministrazione, medico, broker o intermediario finanziario, dirigente nel settore banking, moda e lusso, Marketing Manager.
Cos’hanno in comune queste professioni? Richiedono tutte anni di studio, un tipo di intelligenza analitico-matematica, training, capacità di sopportare lo stress, una predisposizione all’impegno continuo.
Trovate qualcos’altro di accomunante? A ben vedere, tutte, ad eccezione del medico, sono volte all’arricchimento, alla vendita o allo sviluppo di tecnologie, non richiedono particolare intelligenza emotiva, sono professioni completamente slegate dall’ambito artistico, sociale, letterario e filosofico e sono anche sconnesse dai nostri bisogni primari, dalla quotidianità e dalla manualità. In sintesi, si può dire che rispecchino i valori di un sistema capitalistico: il merito, nella nostra società, è legato a valori capitalistici e neoliberisti. Certo, permettiamo alcune eccezioni: ammiriamo l’uomo che si è fatto da solo, il genio che ha fatto una scoperta rivoluzionaria, l’artista eccentrico che espone al Moma, ma anche in questo caso si tratta di individui che sono riusciti ad avere successo grazie ad un connubio tra fortuna e talento.
Il problema, quindi, è: che ragione ha di esistere un tale dislivello di paga tra tali professioni e altre, come il contadino, l’artista di strada o la donna delle pulizie? Perché il manager sarebbe un lavoro più dignitoso, più meritevole del pescatore? Se ci pensiamo attentamente, notiamo come questa distribuzione di privilegi sia completamente arbitraria e non abbia alcunché di giusto di per sé.
Anzi. Se gli sconvolgimenti causati dal Covid 19 ci hanno insegnato qualcosa, è stato proprio a mettere in dubbio l’importanza che diamo a certe figure lavorative. In piena pandemia abbiamo bisogno di fattorini, infermieri, negozianti, assistenti sociali, magazzinieri e psicologi, tanto per dirne alcuni. Non di broker finanziari e di marketing manager.
La meritocrazia è corrosiva del bene comune. Porta all’arroganza dei vincitori e all’umiliazione di chi ha perso.
Questa ultima considerazione ci porta al secondo snodo problematico: la nostra concezione di successo e fallimento.
Laddove il successo è determinato dal merito, ogni vittoria può essere vista come un riflesso di virtù e valore propri della persona. La meritocrazia è il più autocelebrativo dei principi di distribuzione: la sua alchimia ideologica trasmuta la proprietà in lode, la disuguaglianza materiale in superiorità personale. Autorizza i ricchi e i potenti a considerarsi geni produttivi. E, sebbene questo effetto sia più spettacolare tra le élite, quasi ogni risultato può essere visto con occhi meritocratici. Il diploma di scuola superiore, il successo artistico o semplicemente il denaro possono essere visti come prove di talento e impegno, trascurando tutti gli altri fattori in gioco. Allo stesso modo, i fallimenti mondani diventano segni di difetti personali, fornendo una ragione per coloro che sono in fondo alla gerarchia sociale per rimanere lì.
Abbiamo bisogno di una società che sia più tollerante e solidale con le classi inferiori: quando la meritocrazia diventa lo strumento delle classi superiori per giustificare se stesse, allora ha fallito i suoi propositi.
A tal riguardo ha scritto e detto molto Michael Sander, filosofo politico che negli ultimi anni è stato al centro del dibattito intellettuale anglosassone, tanto da guadagnarsi il soprannome di “Rock Star Moralist”. Nelle sue parole:
“Negli ultimi decenni, il divario tra vincitori e perdenti è cresciuto sensibilmente, avvelenando la nostra politica, dividendoci. Questa divisione ha in parte a che fare con la disuguaglianza. Ma anche con il nostro atteggiamento nei confronti di vittoria e sconfitta che ne derivano. Chi è arrivato ai gradini più alti si è convinto che il proprio successo lo debba solo a se stesso, come fosse un metro del loro merito, e chi ha perso, a sua volta, può incolpare solo se stesso.
Questo modo di guardare al successo deriva da un principio apparentemente attraente. Se tutti abbiamo le stesse possibilità, i vincitori meritano la loro vittoria. Sono le basi del concetto di meritocrazia. La pratica, ovviamente, è molto diversa. Non tutti hanno le stesse possibilità di ascesa. I bambini nati in famiglie povere tendono a rimanere poveri crescendo. I genitori agiati possono dare in eredità le loro ricchezze ai propri figli.
Ma il problema non è unicamente il fatto che abbiamo fallito nel seguire i principi di meritocrazia che tanto acclamiamo. L’ideale in sé è difettoso. Ha un lato oscuro. La meritocrazia è corrosiva del bene comune. Porta all’arroganza dei vincitori e all’umiliazione di chi ha perso. Incoraggia chi ha successo a crogiolarvisi troppo dimenticando la fortuna che li ha aiutati nel loro percorso. E li porta a guardare dall’alto al basso i meno fortunati, meno qualificati di loro. La politica deve interessarsi a ciò. Una delle maggiori cause di sommosse popolari è la sensazione degli operai di essere giudicati dall’élite del paese. È una rimostranza più che giustificata”.
Sandler, docente ad Harvard, tratta anche diffusamente la tematica del ruolo dell’istruzione e delle università in un contesto meritocratico.
In “The Tyranny of Merit” scrive ad esempio di come, a Princeton e Yale, ci siano più studenti appartenenti all’uno per cento dei privilegiati che al resto della popolazione ai livelli inferiori sommata insieme; due terzi degli studenti in tutte le scuole della Ivy League provengono inoltre da famiglie che appartengono al 20% più ricco della popolazione. Ciò è in gran parte dovuto al vantaggio che si è intessuto nella stessa vita delle classi abbienti: sostegno negli studi, conversazioni coinvolgenti, contatti maggiori con persone istruite, scuole migliori, tutor privati, viaggi all’estero e, in generale, maggiore stimolazione intellettiva.
La dura realtà è che il sistema educativo oggi rafforza le linee di classe piuttosto che offuscarle, contribuendo ad ampliare ulteriormente il vantaggio di coloro che sono già avvantaggiati da talenti naturali e reddito familiare.
Guardiamo, ad esempio, al sistema scolastico tedesco. La Germania seleziona i ragazzi per i tre indirizzi di formazione (Hauptschule, Realschule e Gymnasium) già all’età di dieci anni, massimizzando in questo modo l’influsso della famiglia d’origine. L’aver frequentato l’Hauptschule – più o meno paragonabile agli istituti professionali italiani – è diventato un vero e proprio stigma sociale, un segno di discredito e inettitudine, difficile poi da togliersi.
Ho accennato qualche volta nel corso dell’articolo al posto che ricopre la fortuna – o il caso, o la contingenza se preferiamo – nel determinare il nostro successo. L’economista statunitense Robert Frank ne scrive in modo interessante nel libro “Success and luck: good fortune and the myth of meritocracy”.
Attingendo all’economia e alla psicologia comportamentale, Frank discute alcuni dei pregiudizi cognitivi che portano le persone di successo a non apprezzare il ruolo della fortuna nella loro scalata. Un numero crescente di ricerche in psicologia e neuroscienze suggerisce che credere nella meritocrazia renda le persone più egoiste, meno autocritiche e ancora più inclini ad agire in modo discriminatorio.
Vediamo come.
L’ultimatum game è un esperimento, comune nei laboratori psicologici, in cui ad un giocatore (il proponente) viene chiesto di distribuire una somma di denaro fra se stesso ed un altro giocatore (il rispondente), il quale può accettare l’offerta o rifiutarla. Se il rispondente rifiuta l’offerta, nessun giocatore riceve nulla. L’esperimento è stato replicato migliaia di volte e solitamente il proponente suggerisce una divisione relativamente uniforme: se l’importo da condividere è di 100 euro, l’offerta sarà mediamente compresa tra 40 e 50 euro.
Una variazione di questo gioco mostra che, credere di essere più abili – e qui è credere la parola chiave – porta ad un comportamento più egoista. In una ricerca presso la Beijing Normal University, i partecipanti sono stati divisi in due gruppi: nel primo gruppo i soggetti hanno preso parte ad un finto gioco di abilità prima di decidere le offerte all’ultimatum game, nel secondo gruppo si è proceduto nel modo standard. I giocatori che sono stati (falsamente) indotti a credere di aver “vinto” al gioco hanno preteso di più per se stessi rispetto a quelli che non hanno giocato al gioco di abilità. Altri studi confermano questo risultato. Gli economisti Aldo Rustichini dell’Università del Minnesota e Alexander Vostroknutov dell’Università di Maastricht nei Paesi Bassi hanno notato come che i soggetti che per primi si sono impegnati in un gioco di abilità siano molto meno propensi a sostenere la ridistribuzione dei premi rispetto a quelli che si sono impegnati nei giochi d’azzardo.
Dall’altra parte dello specchio, ricerche sulla gratitudine indicano invece che ricordare il ruolo della fortuna aumenta la generosità. In uno studio citato da Frank, il semplice fatto di ricordare ai soggetti il ruolo di fattori esterni nei loro successi, come l’aiuto ricevuto da amici, rende quest’ultimi più propensi a donare in beneficenza rispetto ai soggetti a cui viene chiesto di ricordare i fattori interni, come sforzo e abilità.
Forse più inquietante, il semplice fatto di considerare la meritocrazia come un valore sembra promuovere comportamenti discriminatori. Lo studioso di management Emilio Castilla presso il Massachusetts Institute of Technology e il sociologo Stephen Benard presso l’Indiana University hanno studiato i tentativi di implementare pratiche meritocratiche nelle società private, come la compensazione basata sulle prestazioni. I risultati hanno mostrato che, nelle aziende che consideravano esplicitamente la meritocrazia come valore fondamentale, i manager assegnavano maggiori ricompense ai dipendenti di sesso maschile rispetto alle dipendenti con identiche valutazioni delle prestazioni. Questa preferenza scomparivano laddove la meritocrazia non veniva esplicitamente adottata come valore.
Ciò è sorprendente perché l’imparzialità è il fulcro dell’appello morale della meritocrazia. L’even playing field è inteso a evitare disuguaglianze ingiuste basate su genere, razza e simili. Eppure Castilla e Benard hanno scoperto che, ironia della sorte, i tentativi di implementare la meritocrazia portano proprio al tipo di disuguaglianze che mirano ad eliminare. Gli studiosi suggeriscono che questo paradosso si verifichi perché l’adozione esplicita della meritocrazia come valore convince i soggetti della propria bona fides morale. Soddisfatti di essere giusti, questi diventano meno inclini a esaminare il proprio comportamento alla ricerca di segni di pregiudizio.
Questo non è l’unico problema dell’even playing field. Possiamo e dobbiamo cercare di creare un terreno dove tutti hanno le stesse opportunità di crescita e di successo, ma allo stesso tempo dobbiamo essere consci che una completa equità sarà sempre impossibile da raggiungere. L’even playing field è solamente un mito.
mettere in dubbio il libero arbitrio avrebbe conseguenze spaventose, perché senza libero arbitrio non esiste responsabilità morale.
Slittiamo ora verso un altro argomento e mettiamo per un po’ in pausa il tema meritocrazia. Nelle prossime righe farò un passo in un territorio più speculativo e pericoloso: l’impervia foresta di rovi del libero arbitrio.
Di libero arbitrio se ne discute dall’inizio dei tempi. Filosofi, scienziati, psicologi, fisici, neuroscienziati si sono interrogati fino all’esaurimento sulla sua esistenza senza raggiungere nessun accordo, quindi lungi da me tentare di portare a termine la loro impresa. Vorrei tuttavia mostrare come una delle squadre in campo padroneggi meglio il pallone nell’argomentare, e infine riallacciarmi al discorso sulla meritocrazia.
Ecco quello che credo: la mia vita è una catena di cause e conseguenze che inizia con la mia nascita. Tutto quello che è accaduto da quel momento, è il diretto risultato di quello che è successo nel secondo precedente. Facciamo un esempio: il fatto che io adesso sia qui a scrivere dipende da tutta una serie di cause visibili e tangibili, come avere un computer a disposizione e avere un tetto sulla testa, che non sarebbero possibili fossi nata in un altro contesto storico e sociale. Dipende anche dal fatto che mi piace scrivere, che a sua volta dipende dal fatto che il mio cervello è conformato in un modo che mi predispone a questo desiderio e dal fatto che da bambina ero una sfigata e ho letto tutto il possibile per sentirmi meno sola. Dipende poi dal fatto che sono capace di scrivere, che a sua volta dipende dal fatto che ho avuto un’istruzione e un dato talento. L’avere un’istruzione mi ha spinta a viaggiare, l’essere nata in un paese di 300 abitanti mi ha invogliata a trasferirmi in una metropoli come Berlino, dove durante un corso di scrittura ho incontrato il direttore di questo giornale. Potrei andare avanti per ore a sviscerare tutte le cause che hanno preceduto questo semplice evento della mia vita che è il mio scrivere qui e ora: alcune sarebbero manifeste ed evidenti, altre molto più sottili e difficili da individuare, ma non per questo meno reali. In sintesi, io sono qui a scrivere, adesso, perché non ho un’altra scelta, non potrei fare altro.
La teoria per cui tutto nell’universo è spiegabile attraverso una catena di cause e connessioni, in filosofia, si chiama determinismo. Ad esso si oppone il libertarismo.
Per ragioni di spazio provo a sintetizzare il dibattito tra i due in poche righe, perdonatemi le semplificazioni:
Il libero arbitrio si basa sul principio dell’alternata possibilità, per il quale un’azione viene considerata libera solo se l’agente avrebbe potuto agire altrimenti.
Il determinismo esclude tale principio, in quanto sostiene che ogni azione è causata da un evento precedente.
I libertari concedono che gli eventi fisici abbiano sempre una causa, ma non estendono la regola agli eventi mentali: un agente dotato di una mente può essere egli stesso la causa di una catena di eventi che non sono pre-determinati, ovvero può prendere delle decisioni che influenzano gli eventi esterni.
I deterministi rispondono: “Ma da dove vengono queste decisioni? Se per ogni decisione presa si è in grado di dare una spiegazione sul perché è stata presa, allora anche quella decisione è pre-derminata”. Insomma, per i deterministi non c’è differenza tra eventi fisici ed eventi mentali.
Il dibattito prosegue su questa linea e si fa sempre più serrato, e alla fine l’unico argomento che rimane in mano ai libertari è che “se ci sentiamo così liberi, dobbiamo considerare la possibilità di essere davvero liberi”, la cui legittimità logica è piuttosto discutibile. La question è molto più complessa ed interessante di così, ma ho reso l’idea. Se volete approfondire vi segnalo questo video e anche questo.
A mio avviso, rifiutare una visione deterministica del mondo è davvero difficile. Da qualsiasi parte la si guardi, essa rimane la teoria più sensata e logicamente coerente.
Ma, vi chiederete voi, perché sto tirando in campo un millenario dibattito filosofico proprio adesso? Cos’ha a che fare con il discorso sulla meritocrazia? Io penso che la connessione tra le due idee l’abbiate già vista, se ho fatto bene il mio lavoro di narratrice: è perché la teoria deterministica costituisce la radicalizzazione e il completamento del discorso sulla meritocrazia che abbiamo iniziato precedentemente. Se l’ambiente in cui sono cresciuto, la mia educazione, il mio patrimonio genetico hanno un ruolo così importante in quello che sono oggi, ho davvero avuto la scelta di diventare quello che sono? Se, nel corso della mia vita, non ho davvero mai avuto la libertà di una scelta, se quello che fino ad ora è accaduto non sarebbe potuto andare diversamente, che senso ha parlare di merito? Che senso ha parlare di fallimento? Questi diventano concetti vaghi, forse utili a dare una descrizione sommaria degli eventi, ma che si svuotano della loro connotazione morale.
Forse il ragionamento risulta più chiaro se pensiamo agli estremi. Quando ci troviamo di fronte a quello che consideriamo un “genio”, ovvero qualcuno con un QI decisamente superiore alla norma, non diciamo che “se l’è meritato” se prende 10 al compito o se ottiene un lavoro dirigenziale al CERN. Pensiamo che sia nato fortunato (in caso avessimo questa concezione di fortuna). Allo stesso modo, se una persona ha dei deficit mentali, non ci sogneremmo mai di dire che è colpa sua se non passa il test di matematica e non azzarderemmo mai ad indignarci con un autistico per le sue scarse abilità sociali. Saremmo invece comprensivi.
Beh, noi non siamo altro che delle sfumature fra questi estremi. Non siamo diversi, solo gradazioni.
Il sentimento della libertà e la certezza che noi siamo gli artefici del nostro destino sono delle sicurezze profondamente radicate in noi e, metterle in dubbio, comporta una specie di dissesto ontologico, ci priva di una parte di noi che definisce il nostro essere umani. Sono talmente profonde da rendere quasi impossibile pensare che le cose stiano in altro modo. Ma questa è un’argomentazione sufficiente per accettare che il libero arbitrio di fatto esista? Ogni modalità di indagine scientifica e filosofica esclude la possibilità di raggiungere una conclusione avendo un sentimento come unica prova: fino a che non si hanno altri riscontri, il suggerimento è quello di lasciare la teoria in sospeso.
Le ricerche neuroscientifiche al momento non danno risposte univoche sull’esistenza o meno del libero arbitrio, ci sono solo tante ipotesi. D’altra parte, c’è anche accordo nella comunità scientifica sul fatto che le nostre interconnessioni neurali determinino tutti i nostri pensieri, speranze, ricordi e sogni. Sappiamo che i cambiamenti nella chimica del nostro cervello possono alterare il comportamento, altrimenti né alcol né antipsicotici avrebbero gli effetti desiderati. Lo stesso vale per la struttura cerebrale: i casi di persone ordinarie che, dopo aver sviluppato un tumore al cervello, diventano assassini o pedofili attestano quanto siamo dipendenti dalle proprietà fisiche della nostra materia grigia. Tutto ciò non prova l’inesistenza del libero arbitrio, ma a mio parere dà delle indicazioni in questo senso che sarebbe sciocco ignorare solo perché noi ci sentiamo liberi.
La classica e più forte critica al determinismo, che si può anche applicare ad un rifiuto del sistema meritocratico, è una critica di tipo consequenzialista: mettere in dubbio il libero arbitrio avrebbe conseguenze spaventose, perché senza libero arbitrio non esiste responsabilità morale. Similmente, se togliessimo la componente “merito” dal sistema, se “successo” e “fallimento” si svuotassero di significato, nessuno si sforzerebbe più di raggiungere buoni risultati. Se la responsabilità delle mie azioni non è mia, che ruolo hanno i tribunali, chi mi impedisce di comportarmi egoisticamente, di adagiarmi su me stesso, di lasciarmi travolgere passivamente da questa catena di eventi che controlla la mia vita?
In effetti, una serie di studi sembrerebbe confermare che smettere di credere nel libero arbitrio comporti una sorta di atrofizzazione morale.
Nel 2002, Kathleen Vohs dell’Università dello Utah e Jonathan Schooler dell’Università di Pittsburgh hanno effettuato una serie di esperimenti che sembrano mettere in luce come le persone che non credono nel libero arbitrio siano più propense ad imbrogliare e a prendere meno sul serio il loro lavoro. “Sembra che quando le persone smettono di credere di essere agenti liberi, smettano di considerarsi biasimevoli per le loro azioni. Di conseguenza, agiscono in modo meno responsabile e cedono ai loro istinti più bassi”, sostengono i due ricercatori.
Un altro pioniere della ricerca sulla psicologia del libero arbitrio, Roy Baumeister della Florida State University, ha esteso questi risultati. Ad esempio, lui e colleghi hanno scoperto che gli studenti con una credenza più debole nel libero arbitrio hanno meno probabilità di dedicare volontariamente il loro tempo per aiutare un compagno di classe rispetto a quelli la cui fede nella libertà è più forte. Ulteriori studi di Baumeister e colleghi hanno collegato una diminuita credenza nel libero arbitrio a stress, infelicità e un minore impegno nelle relazioni. Hanno scoperto che quando i soggetti sono stati indotti a credere che “tutte le azioni umane derivano da eventi precedenti e alla fine possono essere comprese in termini di movimento delle molecole”, quei soggetti sono usciti con un senso inferiore di significato della vita.
Quindi cosa fare? Meglio nascondere la teoria deterministica per paura delle conseguenze? È meglio la felicità o la verità?
Saul Smilansky, “determinista credente” e professore di filosofia all’Università di Haifa, in Israele, ha lottato per tutta la sua carriera con questo dilemma ed è giunto a una conclusione dolorosa: “Non possiamo permetterci che le persone interiorizzino la verità”.
Il determinismo non solo mina la colpa, sostiene Smilansky; mina anche la lode. Ogni impresa eroica sarebbe vista, nelle parole del filosofo, come “un dispiegamento del dato”, e quindi difficilmente degna di ammirazione. E proprio come indebolire la colpa rimuoverebbe un ostacolo all’agire malvagiamente, così indebolire la lode rimuoverebbe un incentivo a fare del bene. I nostri modelli sarebbero meno lodevoli, i nostri successi meno degni di nota, e presto sprofonderemmo nella decadenza e nello sconforto.
Io credo però che questi esperimenti e considerazioni siano in qualche modo viziati dal contesto. Noi siamo cresciuti in un mondo che ci ha insegnato – in buona parte per retaggio religioso – che è la libertà ad impregnare di senso la nostra vita. Se ad un certo punto questa nostra granitica credenza venisse sgretolata, ovvio che ne subiremmo un impatto psicologico devastante. Ma cosa accadrebbe se invece creassimo i presupposti per l’accettazione di questa – possibile – verità? Non dobbiamo dimenticare che il contesto in cui viviamo è uno dei fattori che hanno più influenza sulla nostra esistenza; nel contesto giusto, sarebbe possibile sviluppare un sistema non incentrato sulla meritocrazia e una credenza deterministica senza subirne le conseguenze negative?
È proprio su questi punti che ha qualcosa di interessante da dire il neuroscienziato e scrittore Sam Harris.
Come Smilansky, Harris non crede nell’esistenza del libero arbitrio, ma allo stesso tempo crede anche che essa non sia assolutamente necessaria. “Le illusioni, non importa quanto ben intenzionate, ci tratterranno sempre. Ad esempio, attualmente utilizziamo la minaccia della reclusione come uno strumento grezzo per persuadere le persone a non compiere azioni cattive. Ma se accettiamo invece che il comportamento umano deriva dalla neurofisiologia, allora possiamo capire meglio cosa spinge le persone ad agire deplorevolmente nonostante la minaccia di punizione e possiamo studiare come fermarle. Abbiamo bisogno di conoscenza per disegnare una società capace di incoraggiare le persone ad essere la migliore versione di se stesse sulla base di informazioni che non siano una mera illusione”.
Secondo Harris, dovremmo riconoscere che anche i peggiori criminali, assassini o stupratori, ad esempio, sono in un certo senso sfortunati. “Non hanno scelto i loro geni. Non hanno scelto i loro genitori. Non hanno creato i loro cervelli, ma i loro cervelli sono la fonte delle loro intenzioni e azioni”. In un senso profondo, i loro crimini non sono colpa loro. Riconoscendo questo, possiamo considerare spassionatamente come gestire i delinquenti al fine di riabilitarli, proteggere la società e ridurre i reati futuri. Harris pensa che, col tempo, “potrebbe essere possibile curare qualcosa come la psicopatia”, ma solo se ammettiamo che il cervello, e non un magico libero arbitrio, sia la fonte della devianza. Possiamo trasferire il discorso anche, nel piccolo, su noi stessi. Comprendendo da dove arrivano le nostre pulsioni, le nostre mancanze e i nostri talenti, potremmo gestire meglio la nostra vita. Il rischio di cadere nel compatimento o nell’autocompiacimento sarebbe minore, saremmo più compassionevoli verso noi stessi e probabilmente meno tendenti all’arroganza.
Accettare tutto ciò ci libererebbe anche dall’odio. Ritenere le persone responsabili delle loro azioni potrebbe sembrare un perno fondamentale della vita civile, ma paghiamo un alto prezzo per questo: incolpare le persone ci rende arrabbiati e vendicativi, e ciò offusca il nostro giudizio.
“Confrontiamo la risposta all’uragano Katrina”, suggerisce Harris, “con la risposta all’atto di terrorismo dell’11 settembre”. Per molti americani, gli uomini che hanno dirottato quegli aerei sono l’incarnazione di criminali che scelgono liberamente di fare il male, un esempio lampante di puro male. Ma se rinunciamo alla nostra nozione di libero arbitrio, allora il loro comportamento deve essere visto come qualsiasi altro fenomeno naturale. Questa visione, crede Harris, ci renderebbe molto più razionali nella nostra risposta.
Nel caso di Katrina, nessuno si è sforzato di vendicarsi delle tempeste tropicali o di dichiarare una guerra al tempo, quindi le risposte si sono potute concentrare semplicemente sulla ricostruzione e sulla prevenzione di disastri futuri. La risposta all’11 settembre, sostiene Harris, è stata offuscata dall’indignazione e dal desiderio di vendetta, e ha portato alla perdita inutile di innumerevoli altre vite. Con questo lo scienziato non sostiene che non avremmo dovuto reagire affatto all’11 settembre, solo che una risposta non accecata dall’odio sarebbe stata molto diversa e probabilmente sarebbe stata molto meno dispendiosa. “L’odio è tossico e può destabilizzare vite individuali e intere società. Perdere la fiducia nel libero arbitrio indebolisce la logica per aver mai odiato qualcuno”.
Il grosso problema, secondo Harris, è che le persone spesso confondono il determinismo con il fatalismo. Il determinismo è la convinzione che le nostre decisioni facciano parte di una catena indissolubile di causa ed effetto. Il fatalismo, d’altra parte, è la convinzione che le nostre decisioni non contano davvero, perché tutto ciò che è destinato ad accadere accadrà, come il matrimonio di Edipo con sua madre, nonostante i suoi sforzi per evitare quel destino.
Quando le persone prendono atto dell’inesistenza del libero arbitrio, possono diventare erroneamente fataliste; pensano che i loro sforzi non faranno differenza. Ma questo è un errore. Le persone non si stanno muovendo verso un destino inevitabile: dato uno stimolo diverso (come un’idea diversa sul libero arbitrio), si comporteranno in modo diverso e quindi avranno vite diverse. Se le persone comprendessero meglio queste sottili distinzioni, ritiene Harris, le conseguenze della perdita della fiducia nel libero arbitrio sarebbero molto meno negative di quanto suggeriscono gli esperimenti di Vohs e Baumeister.
Io trovo le considerazioni di Harris le più sensate, forse anche perché spero siano quelle vere. In generale, credo che lui e Michael Sandel farebbero una bella squadra, e se volete ascoltare una loro conversazione, lo potete fare qui.
Ho cercato in questo articolo di sintetizzare tanto delle mie riflessioni degli ultimi anni. Ricordo addirittura di aver scritto alle superiori un tema al riguardo, in cui le mie considerazioni erano per ragioni ovvie molto più grezze. La mia professoressa lo catalogò come un pensiero pericoloso. Evidentemente di quel pensiero pericoloso non me ne sono mai liberata.
A dire il vero vorrei scrivere molto di più, c’è tantissimo da approfondire, ma mi trovo con la necessità di mantenere il testo di una lunghezza approcciabile. Mi rendo conto che manca una parte propositiva: quali sono le alternative alla meritocrazia? Se delle alternative esistono, s’intende. Vi lascio alcune fonti esterne, uno e due e, giusto per darvi un input, vi dico che Sandel, ad esempio, propone l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie e ha anche alcuni suggerimenti provocatori, come la creazione di un sistema “a lotteria” per l’ammissione ai college d’élite; altri propongono una rielaborazione del funzionalismo. Ma volete la verità? Le alternative sono complicate e nessuno ne ha una decente, per il momento.
Questo non significa che dobbiamo fare a finta che la meritocrazia sia l’unica soluzione a disposizione e, soprattutto, che sia la migliore opzione che abbiamo. Cominciare a vedere i limiti di questo sistema e ad interiorizzarli può portare ad un modo di vivere socialmente più solidale e compassionevole. Lo stesso vale per il libero arbitrio: staccarci da una visione della vita dove la libertà occupa un posto centrale, non porterà necessariamente all’arrendevolezza e alla degenerazione morale. Al contrario, vedere il determinismo come una possibilità potrebbe promuovere un convivere meno corrotto dall’odio e dalla filosofia della vendetta.
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