L’illustrazione di copertina è di Ivano Talamo
La composizione del pezzo è a cura di Mauro Mondello
Abbiamo chiesto a tutti i membri della redazione di inviarci una lista con i cinque film girati nel decennio 1970-1979 secondo loro più belli e importanti. Per provare a rendere la rilevazione ancora più oggettiva, abbiamo ampliato il parterre di contributi, aggiungendo al conto oltre venti liste inviate da esperti esterni, scelti in un intervallo vario e trasversale di età, occupazione, residenze e interessi.
E’ stata più difficile delle altre volte, perché la decade del Settanta comprende una sequela infinita di film divenuti nel tempo delle pietre miliari e per questo, dalla lista finale, sono rimasti fuori tanti “filmoni”, da Animal House a Il Caso Mattei, passando per Klute, Tutti gli uomini del presidente, Serpico, L’esorcista e Il portiere di notte, solo per citarne alcuni.
La scelta definitiva è stata così realizzata:
1) I ventuno film che hanno effettivamente accumulato più voti;
2) Sei film che sono stati votati, non ce l’hanno fatta ad entrare fra i primi venti, ma che la giuria di qualità ha ripescato perché considerati meritevoli;
3) Sei film che non ha nominato nessuno e che sono stati scelti dall’eccezionale giuria di qualità, di cui non possiamo rivelare i nomi per questioni di privacy e prestigio (fra i componenti e le componenti vi sono grandi nomi della critica cinematografica mondiale, che non possono, per contratto, comparire su Yanez).
Le liste non accontentano mai nessuno, e sono difficili da stilare, ma noi ci abbiamo provato.
Si tratta di un divertissement, e come tale va preso.
Avvertenze: gli scritti che accompagnano i film nominati sono di vario stile e forma, non seguono la regola statica della recensione e si propongono, piuttosto, come dei commenti aperti, dei racconti, dei ricordi, delle cronache di visione.
Qui la lista dei 30 migliori film degli anni Ottanta.
Qui la lista dei 30 migliori film degli anni Novanta.
32. Gli amici di Eddie Coyle (Peter Yates, 1973)
Questo film in Italia, all’epoca, nemmeno venne distribuito. Ancora oggi rimane sottovalutato, o forse sarebbe meglio dire frainteso. Sì, perché Gli amici di Eddie Coyle viene da molti considerato niente di più e niente di meno che un buon film poliziesco, una crime story pulita e secca, ma senza grandi accenti. Si sbagliano. Questo è un film straordinario, per almeno due motivi.
Il primo è Robert Mitchum. Un attore che in Europa ha avuto meno successo di suoi colleghi come, ad esempio, Paul Newman, Walther Matthau, Henry Fonda, James Stewart, non perché meno capace, ma solo in quanto molto più stronzo. Ma il carisma magnetico di quest’uomo, ogni volta che la camera lo punta dritto negli occhi e lui tira fuori la battuta, è semplicemente magico. Questo è l’ultimo film importante di Mitchum, che passerà i restanti vent’anni della sua carriera, e della sua vita, fra alcol, donne e pellicole di scarso valore. Ma il ruolo di Eddie Coyle, a 56 anni, è uno di quelli che ti restano scolpiti addosso e che Mitchum interpreta con una sensibilità dolce, malinconica, spontanea: è impossibile non mettersi dalla sua parte, non pensare che “dai, forza, ce la fai Eddie, noi siamo con te”.
Si diceva che c’è anche un secondo motivo per considerare questo film uno dei più importanti degli anni’70, ed è il ruolo che ha nella ricostruzione definitiva nel genere del neo-noir: i bar fumosi e scalcagnati, la composizione minuziosa dell’ambiente criminale della Boston dell’epoca, i vestiti alla moda, l’attenzione maniacale alla scelta di ogni singolo attore, la faccia giusta sempre.
Io sono un amico di Eddie Coyle.
P.s. in giro, di questo film, c’è una bellissima edizione restaurata della Criterion.
Melo Milligrammi
31. La montagna sacra (Alejandro Jodorowsky, 1973)
Brividi ai denti e alle gengive. quella sensazione per cui nella lingua italiana non esiste una parola specifica, ma che può diventare disgusto. E poi ti distrugge lo stomaco. O meglio, mi ha distrutto lo stomaco. Quando vidi per la prima volta La montagna sacra saltai un pasto, quando vidi Santa Sangre ne saltai due e mi sentivo anche di essere stato testimone di un qualche episodio violento, di essere stato contaminato. Dopotutto, il disgusto è un’emozione primaria, la sua funzione è proprio quella di prevenire contagi e malattie. Urina, cacca, mosche, tarantole, freak, animali spellati, cataste di corpi ricoperti di sangue, occhi estratti dalle orbite. Immagini da azionismo viennese, un movimento artistico degli anni ’60. Stessa commistione di sacro, sangue, corpi animali e umani sfruttati fino all’inverosimile. La montagna sacra è una specie di via crucis orgiastica ed ha a che fare con il secondo comandamento, quello che i cristiani hanno sostituito.
Quello che vieta la costruzione di idoli.
In un pastone di simbolismi, richiami ai tarocchi e all’alchimia la critica, infatti, è alla società delle immagini, al potere, alla tecnologia vista come nemica degli esseri umani e antitetica alla natura, al culto di se stessi. Una satira politica che sa tanto di sincretismo religioso. Il burattinaio nascosto onnisciente e il popolo alla sua mercè.
“Goodbye Holy Mountain, Real life awaits us.”
E menomale direi.
Stefano Boring
30. Il deserto dei tartari (Valerio Zurlini, 1976)
Il Deserto dei Tartari (1976) è un’opera “ultima”, si potrebbe dire; lo si direbbe, se opporre alle opere “prime” le opere “ultime”, non comunicasse un senso di inferiorità rispetto ad opere precedenti.
Se, al contrario, parlare di opera “ultima” non comunicasse che la grandezza dell’ultimo capolavoro, si potrebbe parlare, per il Deserto dei Tartari, dell’opera “ultima” del regista Valerio Zurlini.
È stato, di fatti, il suo ultimo film e, per sua stessa ammissione, il suo testamento.
Cosa c’è ne Il Deserto dei Tartari che Zurlini può aver messo anche nel suo primo capolavoro Le Ragazze di San Frediano (1954) o nello struggente Le Soldatesse (1965)? Ma soprattutto, del decennio vorticoso, cattivo e impaurito, quale è quello degli anni 70: cosa c’è in un’opera mite, silenziosa e riflessiva, come Il Deserto dei Tartari?
Come nell’omonimo romanzo di Dino Buzzati, il tenente Giovan Battita Drogo (Jacques Perrin) è stato nominato da poco e viene assegnato alla Fortezza Bastiano (un dettaglio buffo: nel romanzo è “Bastiani”): un avamposto militare collocato dinanzi a un misterioso deserto. È il deserto dei “Tartari”, una popolazione antica e minacciosa che, da un momento all’altro, potrebbe attaccare. I soldati sono lì, per quando inizierà la loro offensiva. È questo il loro compito e quello del giovane tenente: aspettare l’attacco, la guerra; lo scontro, la prova. E il tenente aspetta. Aspetta, aspetta, aspetta.
Non c’è il dolore degli anni di piombo. Non c’è la paura della strategia della tensione. Non c’è la ferita globale della guerra in Vietnam: il riverbero del senso di fallimento, dello shock.
C’è la malinconia, per una risoluzione che non arriva. C’è la speranza, di un mostro che si riveli. C’è la nostalgia, per una vita che passa in attesa del momento in cui la “vedremo” davvero.
E un giorno ci guardiamo indietro, e la vediamo.
Guardala. È passata.
Enrica Fei
29. Touki Bouki (1973, Djibril Diop Mambéty)
Innanzitutto questo è uno dei film africani più importanti di sempre. Poi. E’ figlio del grande fermento nato in Senegal all’inizio degli anni Sessanta intorno al mezzo cinematografico, ma ribalta tutti gli stereotipi del cinema sin lì considerato”africano”, sempre importante, certo, ma ottusamente fedele alla sua necessità di utilizzare il cinema come veicolo di espressione delle ingiustizie, senza riuscire ad aprirsi alla sperimentazione, alla surrealtà, alla visione come gioco (un elemento, quello dell’ “impegnato per forza” che continua a resistere ancora oggi nelle proposte cinematografiche in arrivo dai paesi meno industrializzati). E invece Touki Bouki scompiglia tutto. Nel 1973 va al Festival di Mosca e vince il premio Fipresci. Poi va a Cannes e viene osannato dalla critica internazionale. Perché?
Mette insieme, con un gioco narrativo assurdo, società e politica, maramaldeggiando coi colori, raccontando la storia disordinata di una coppia, Mory e Anta, che sogna di lasciare il Senegal e di trasferirsi in Francia. C’è l’elemento di critica sociale forte, con la rappresentazione senza sconti di una generazione che continua a sognare la fuga dalla povertà, ma ci sono soprattutto le invenzioni oniriche di Diop e la presenza potente, protagonista, della Dakar dell’epoca, rappresentata in tutto il suo fascino disturbante. Non è soltanto un film importante perché rappresenta una testimonianza inedita di un determinato contesto. No, è un film bello e basta, e per idee, per recitazione, per fotografia, non ha nulla da invidiare ai capolavori nordamericani del tempo.
Marusso Milleri
28. Una giornata particolare (Ettore Scola, 1977)
Nel grande trambusto del cinema italiano degli anni Settanta, spesso rimane isolato, dimenticato, questo che è invece un piccolo gioiello. Non c’è musica, mai. Solo la voce dello speaker fascista che senza sosta racconta alla radio dell’avvenimento più importante dell’anno: la storica visita di Adolf Hitler a Roma, il 6 maggio del 1938. Tutto comincia con un lunghissimo, splendido, piano sequenza, che ci avvolge con calma, e durante cui entriamo in contatto con un bianco e nero atipico, addolcito da gradazioni seppia. Loren e Mastroianni, nella maturità serena della loro carriera (momento da non perdere, il ballo della rumba), raccontano, meglio di tanti altri film narrativamente molto più netti nella rappresentazione del fascismo, che cosa sia stato il Ventennio. E vanno oltre, perché riescono a combinare, senza che ce ne si accorga, il racconto politico alla riflessione sentimentale, ragionando sui rapporti di coppia, sulla famiglia, sull’emancipazione femminile, sui diritti civili, senza andare mai oltre, insinuando dentro la mente dello spettatore dubbi, curiosità, pensieri. C’è anche un elemento che potremmo considerare quasi documentaristico, e che si fa protagonista della visione, il palazzone, di architettura fascista, con le sei, sette scale che a raggiera danno sul cortile condiviso e in cui si è parte, senza poterlo scegliere, di una comunità infinita, di un controllo costante: Roma è ancora oggi piena di questi edifici.
Un film un po’ dimenticato, e io invece insisto sempre.
Mastice Merice
27. Io e Annie (Woody Allen, 1977)
La sera del mio ventinovesimo compleanno mi sono raggomitolata sotto le coperte in compagnia di Provaci ancora Sam, e mentre Allan Felix alleviava la mia sensazione da fine del mondo per i Trenta ormai imminenti, sussurrandomi all’orecchio: Hey, ma io ho ventinove anni, il massimo della mia potenza sessuale se n’è andato da dieci anni!, mi barricavo dietro a una per me allora evidentissima distanza abissale tra un ventinovenne del ’72 e una ventinovenne del 2013.
Oggi compio trentasei anni, sotto le coperte con me c’è Io e Annie e questa volta le differenze tra un quarantenne del ’77 e una quasi quarantenne del 2020 mi sembrano, ahimè, assottigliarsi parecchio. L’infanzia spegne definitivamente le luci del luna park per mostrarsi con tutta la sua violenza e sottolineare l’impossibilità di intessere relazioni soddisfacenti, funzionanti e durature, con se stessi e con gli altri.
Congiunti a parte, che fanno categoria a sé, la ricerca di un equilibrio precario tra il superficiale e vacuo da un lato e una profondità più o meno ostentata dall’altro dimostra ad Alvy Singer che il fallimento è sempre e comunque parte integrante delle (sue) relazioni.
Di cui però non possiamo proprio fare a meno, parrebbe, così come delle uova. Pure se siamo diventati tutti un po’ vegani, ormai, nel 2020. Pure se abbiamo imparato benissimo a vivere come isole, soprattutto in questo periodo particolare.
Per il prossimo compleanno, quindi, l’augurio è quello di poter guardare una bella e sana partita di pallacanestro alla tv.
Tre piccoli dettagli interessanti:
– il graduale cambio di prospettiva tra il titolo originale, quello italiano e quello tedesco: Annie Hall, Io e Annie e Der Stadtneurotiker;
– la celebre battuta Love is too weak a word for what I feel – I luuurve you, you know, I loave you, I luff you, two F’s, yes è stata resa nel doppiaggio in italiano in un modo magistrale, che amplifica l’essenza del film: Amore è un termine troppo debole. Ecco, io ti straamo, ti adamo, ti abramo.
– la geniale metafora dell’infanzia come una casa costruita sotto le rotaie di una montagna russa.
Claudia Valentini
26. Ultimo Tango a Parigi (Bernardo Bertolucci, 1972)
Nel 1976 la Corte di Cassazione decreta la distruzione di Ultimo tango a Parigi. Per certi versi è proprio la vicenda giudiziaria che rende più splendente l’aurea che da più di quarant’anni aleggia intorno a questo film. La storia ha un plot poetico, nessun intreccio, nessuna trama degna di menzione: è un’orgia di immagini in cui il sesso, o l’eros per meglio dire, è il medium attraverso cui la vita dei personaggi viene a svilupparsi. Il sesso è per Bertolucci anche un pretesto, una sorta di ribellione nei confronti del pubblico, provocare lo spettatore attraverso un sondaggio psicoanalitico: questo film è allo stesso tempo un escamotage linguistico per rappresentare l’idea freudiana del principio di piacere.
Se si considera il contesto sociale dal quale prende vita la sceneggiatura, si può meglio intendere la voluta scelta espressiva di alcune scene (il burro, tanto per intenderci) che picchettano quel senso pruriginoso e silenzioso del costume borghese. Un fare senza dire, che poi s’è tramutato nel dire senza fare del modernissimo ventunesimo secolo.
La poetica della contraddizione in Bertolucci è chiaramente un richiamo all’ambiguità dell’essere, la vita sociale dell’educazione e la vita intima che risponde all’Es. In alcune interviste lo stesso regista ha dichiarato che Ultimo tango a Parigi è soprattutto un film romantico, che racconta l’amore in una sorta di purezza primordiale, infantile. Ha per certi versi una ridondanza illuministica, il fervente individualismo del regista emiliano, la retorica dell’amplesso, la purezza espressiva della carnalità che si deturpa o si macchia attraverso la consuetudine o il conformismo dei costumi. Il sentimento così espresso diviene semplicemente un contenitore vuoto, una costruzione filmica, se vogliamo, cui si può soltanto assistere anche se si è protagonisti (la storia d’amore di Maria Schneider con Jean-Pierre Léaud).
Ugualmente accade al desiderio quando viene svelato della sua intima valenza.
Per dirla con Tennessee Williams: il contrario della morte è il desiderio, per l’appunto.
Antonello Pesce
25. Amici Miei (Mario Monicelli, 1975)
Che cos’è il genio. E’ fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione.
Sono tante le citazioni con cui parlare di Amici Miei, film del 1975 diretto da Mario Monicelli (l’idea del film si deve, in realtà, a Pietro Germi che a causa di una malattia non riuscì a realizzarlo).
La prima volta che ho visto questo film ero piccolo, me lo fece vedere mio padre.
Sono stati gli anni dell’università, però, ad attribuirgli, ai miei occhi, lo status di cult assoluto.
E non solo perché l’avrò visto decine di volte o perché alcune citazioni vengono utilizzate ancora oggi da me e dai miei amici (quante volte Herr mi ha dato del materiale e prosaico).
Non è solo la comicità (l’ho rivisto in questi giorni con mia moglie ed ancora, di nuovo, ridere: cippalippa; senza contare che la supercazzola prematurata ha perso i contatti col talapiatapioco; tedesca, due anni di contratto, severissima, in uniforme; endovenosa sorella? Eccomi pronto).
Sono il Conte Raffaello Mascetti, l’Architetto Rambaldo Melandri, il Perozzi, il Necchi, il Professor Sassaroli.
Chi non ha rivisto in loro sé stesso ed i propri amici.
Le zingarate, la libertà, gli scherzi (Righi e i Marsigliesi) l’ironia sempre e comunque, anche di fronte alla morte (il Perozzi che fa la supercazzola al prete sul letto di morte e gli altri amici che iniziano a ridere e piangere durante il corteo funebre).
Amici di scuola, di caserma e dunque amici da tutta la vita. Eccoli qui, gli amici miei, cari amici.
Marruca Incassato
24. Profondo Rosso (Dario Argento, 1975)
Siamo tutti, come esseri umani, unici e irripetibili; ma alcuni sono più unici degli altri. Con un puerile gioco di parole che a lui piacerebbe tantissimo, si può rappresentare Dario Argento, un individuo unico nel suo genere: genere horror e genere umano. Uomo inquietante, bislacco, folle come lo sono i geni. Nel suo volto perturbante e nel suo look assurdo, si legge molto della sua incredibile produzione cinematografica. Una carriera che in trent’anni ha dato corpo a un genere, quello dell’horror/giallo: anni ’70, ’80 e ’90 (l’Argento degli anni 2000 è come se non fosse mai esistito: non è che un divertissement per se stesso e per gli amatori, anche questo glielo si vede in volto: quando sorride e sembra già morto). Un genere, quello horror/giallo, che se da una parte rimarrà sempre fra i più pop del cinema, dall’altro sembra destinato a non brillare più, a lasciare insoddisfatti, a ripetersi infelice. È come se alcuni autori ed un decennio – gli anni 70 – avessero dato tutto quello che si potesse immaginare. Dario Argento è uno di loro: gli illustri dell’horror dei Settanta. E John Carpenter, che è un altro, di Dario Argento ha detto che è stato un maestro.
Sono tanti i capolavori. Tra gli altri, L’Uccello dalle Piume di Cristallo (1970), Il Gatto a Nove Code (1971), Suspiria (1977). Profondo Rosso (1975), però, è diverso. Profondo Rosso ha tutto: i vari, diversi elementi che fanno di lui un genio del genere, architettati e orchestrati in un montaggio perfetto, armonico, secco e brutale, di cui la colonna sonora dei Goblin è solo uno degli indizi della perfezione. Una narrazione impeccabile, la cui tessitura è complessa, articolata eppure limpida e distesa. Se non ci fossero i momenti quasi statici, vagamente comici, dei poliziotti sulla scena del delitto o della coppia pianista/reporter (David Hemmings e Daria Nicolodi), le irruzioni di violenza non arriverebbero così improvvise; lo fanno, invece, e colgono lo spettatore impreparato. Se non ci fosse un plot preciso, colmo di impronte e indizi, il subbuglio allucinato e onirico lascerebbe abbagliati.
C’è il gioco mostruoso, i dettagli infantili. C’è il gusto scabroso per il macabro e il delirio. C’è una macchina da presa che balla sconnessa. C’è l’inquietudine profonda del Male sempre presente, sempre vicino, sempre ad un passo, ma in avanti.
L’assassinio è ripreso e mostrato per tutto il film, eppure mai visto. Oppure, da tutti, rimosso.
Enrica Fei
23. Chinatown (Roman Polanski, 1974)
Sincero? Sincero fino in fondo? Ok. Ho fatto fatica a concludere questo film, ma credo che meriti di essere visto per la sua complessa scrittura. Un film che soffoca lentamente, e che non riesce a tirar fuori da chi guarda la pancia, il cuore, o la testa. Un detective privato viene sguinzagliato da una misteriosa cliente su una pista illusoria e pericolosa. Rimane tutto sigillato, in modo intenzionale. Anche gli attori sembrano obbligati ad un lavoro di contenimento a tratti esasperante. Jack Nicholson dimostra tanto mestiere ma è un leone in gabbia. Un po’ come vedere un cavallo tentare seriamente e diligentemente di rispondere al telefono con il suo zoccolo, per un paio di ore, o The Rock (Dwayne Johnson) in un film di Zeffirelli. Opera necessaria, disperata, personale, slacciata, ma insieme perfettamente coordinata. Citata da tutti i manuali di sceneggiatura e forte di una fotografia che richiama a tempi lontani è l’ennesima grande dimostrazione di quanto certi registi andrebbero clonati, a prescindere dalla qualità dei loro film. Perché al cinema devono tanto e loro ad esso danno tutto.
Amerigo Biadaioli
22. La paura mangia l’anima (Rainer Werner Fassbinder, 1974)
Ora non ditemi, per favore, che questo film non lo avete mai visto.
Se non lo avete visto, smettete adesso di leggere questo articolo, subito. Immediatamente.
Cercatelo da qualche parte, annullate tutti gli impegni, recuperate liquidi e sostegno alimentare necessario a sostenervi per 93 minuti e guardatelo. Però non dite “lo guardo domani”, no, fatelo adesso.
Non è, certo, una questione di vita o di morte, però è fondamentale che nella vostra esistenza si faccia spazio una concettualizzazione alta della malinconia, e voi non troverete mai più, mai ancora, un film così meravigliosamente pieno di spleen. C’è speranza, sempre, ci viene detto. Però non si può rinunciare al dolore. No, non è un film pesante, anche se mi rendo conto che da come lo presento lo sembra.
No, non è un film leggero, e questo si era già capito.
Claustrofico, distante, duro, Fassbinder ci sbatte in faccia l’emarginazione di un uomo, la solitudine di una donna e, in fondo, le paure di ognuno di noi. Per un effetto più intenso, si consiglia la visione di domenica, fra le ore 18 e le ore 21.
Miyeon Mi-woon
21. La Conversazione (Francis Ford Coppola, 1974)
Inquadratura dall’alto: è una piazza americana in una giornata di sole, avrei detto Washington e avrei sbagliato. La camera si avvicina con lentezza, c’è una musica stile carosello interrotta dal gracchiame di interferenze radio a cui non si farebbe caso, se non si ripetessero più volte. La macchina da presa ci costringe a concentrare l’attenzione su un mimo di strada, perché è a lui che inesorabile si avvicina; lo vediamo importunare passanti, fare gag, mandare avanti il suo show. Si accosta a un uomo che beve il caffè, gli fa il verso. Lo zoom prosegue lento e riconosciamo Gene Hackman, che infastidito, ma con aplomb, se ne va. La camera è lui che segue adesso, mantiene sempre una certa distanza, gli sta dietro, vediamo l’uomo che cammina con intenzione, spedito, ma guardandosi intorno. I lembi dell’impermeabile di plastica grigi-trasparente che mi ha ossessionato per tutto il film, svolazzano ai lati delle sue ginocchia, finché raggiunge un furgone. Entra, c’è un tecnico e relativa apparecchiatura. Capiamo che stanno facendo registrazioni ambientali di quello che succede in piazza. Pensiamo subito a terroristi, attentati, dramma politico, thriller, spy-story, e invece. Cinema paranoia. La gemma più discreta di Coppola incastonata tra Il Padrino parte prima e Il Padrino parte seconda. Sonoro geniale. Gene Hackman perfetto. Tema sempre attuale.
Paola Moretti
20. I senza nome (Jean-Pierre Melville, 1970)
Un film sofisticato, minimalista, con una sequenza mitica, che è quella della rapina, omaggio dichiarato al Rififi di Dassin, ma che va oltre, per pulizia e coraggio. I movimenti di camera sono così delicati, che a volte, mentre lo guardi, devi per forza pensare, “ma come l’ha fatta questa scena?”. Poi c’è il silenzio, un silenzio costante, mite, che rende più intelligibile l’inevitabilità della fine dei protagonisti, ma che al contempo ci avvicina all’umanità intima di quello che vediamo. Alain Deloin, Gianmaria Volontè, Yves Montand, André Bourvil, finisci per sognarteli la notte, tanto sono compiuti.
Massod Maiorchino
19. L’assassinio di un allibratore cinese (John Cassavetes, 1976)
La prima volta che vidi L’assassinio di un allibratore cinese (1976) non capii niente. Ero alle medie, se non sbaglio, e mi forzavo a guardare i grandi classici o, in alternativa, i “film indipendenti”.
Ero una bambina molto diligente; i classici, dunque, non mi mettevano in difficoltà (vado molto fiera di essere rimasta quasi cieca per 4 ore di mollette sulle palpebre. Ho visto Ben-Hur, però).
Mi approcciavo al cinema “indipendente”, invece, già maldisposta. Mi interrogavo in silenzio su cosa ciò volesse dire e formulavo ipotesi. Invece di tenerle sul mio diario segreto, mentivo di averle lette in qualche grande classico della storia del cinema e le presentavo al mondo.
Non capii niente perché L’assassinio di un allibratore cinese, il capolavoro di John Cassevetes, è un thriller, un noir, un poliziesco, un ganster-movie, un film drammatico: è tutte queste cose insieme e nessuna. Perché è un film selvaggio, sovversivo, caotico, che prende qualcosa da tutti i generi e ne crea uno a sé: quello, unico, dell’L’assassinio di un allibratore cinese. Solo quel decennio incredibile che sono stati anni 70 poteva partorire un film così: confuso, assurdo, cattivo, e al tempo stesso chiaro, potente e triste nel suo messaggio. Un testamento disincantato di miseria e nichilismo: l’assurdità del sogno americano impersonato nella vicenda paradossale del protagonista, Cosmo Vitelli (uno straordinario Ben Gazzarra). Titolare di uno squallidissimo club notturno per il quale ha lavorato tutta la vita, Cosmo Vitelli gioca a poker e perde 23mila dollari. Mort, l’uomo a cui li deve, non lo costringe a vendere il locale per ripagarlo: lo manda a uccidere un boss della mafia cinese. E lui, da idiota quale è, accetta.
Enrica Fei
18. Qualcuno volò sul nido del cuculo (Miloš Forman, 1975)
Grande Capo ha una camminata fiera e armoniosa dentro il campo da basket. Sta raggiungendo il canestro dove la squadra avversaria, i secondini del manicomio di Salem, stanno per fare punto. Mette la sua mano enorme sotto la rete e respinge la palla che era già entrata. Comincia a correre, con un ghigno felice sulle labbra. Grande Capo è un gigante, nativo americano, rinchiuso nell’istituto psichiatrico, dove si finge sordomuto. Sceglie un isolamento nell’isolamento, evitando di percepire e di partecipare. Poi arriva MacMurphy, un ex galeotto che gli insegna a giocare a pallacanestro. Mac non ha alcuna malattia mentale e porta nel ghetto di emarginati energia e spirito sovversivo: fa la guerra all’autorità dell’infermiera Ratched e ricorda al gruppo di “picchiatelli” che esiste la libertà e che loro “non sono più pazzi della media dei coglioni che vanno in giro per la strada”. Grande Capo comincia a svegliarsi e parla (parla!) con Mac. Insieme, progettano la fuga.
La prima volta che ho visto Qualcuno volò sul nido del cuculo ho avuto la sensazione di assistere a una lotta impari tra l’autorità medica che sopprime, anziché curare, e la sete di libertà e di empatia dei malati. Li guardi e pensi che non vinceranno mai. Invece, Grande Capo abbraccia Mac e lo soffoca con un cuscino. Invece, Grande Capo sfonda le inferriate della finestra. Poi, vola via dal nido del cuculo.
Domenica Morabito
17. Il fascino discreto della borghesia (Luis Buñuel, 1972)
Ho provato a mettermi nei panni dei protagonisti. Ho prima tentato di immaginarmi dentro uno di quei tubini fatti su misura dai colori tenui e dalle stoffe morbide e ho pensato che sarebbe meraviglioso.
Ho immaginato di avere una bella casa con un giardino enorme, ben curato, verdissimo, e ho pensato che anch’io inviterei gli amici per aperitivi, pranzi e cene. Bevendo moderatamente molto e giocando a nascondino dietro i cespugli. Mi piacerebbe sedermi in un caffè chiedendo imperterrita qualcosa da bere, gentilmente. Camminando diretta non so dove con amici, parenti, amanti, con chi è come me. Probabilmente è quello che faccio e nemmeno me ne rendo conto. O meglio, me ne rendo conto ma non ci faccio caso: lo scheletro della vita borghese. Effimera ed essenziale. In un continuo stravolgimento del concetto di bisogno e desiderio, necessità e voglia (nel senso di Wille). Molto spesso mi sveglio dai sogni con quel senso di frustrazione calma che provano gli spettatori di Il fascino discreto della borghesia, che non riescono a concludere nulla. Se penso che il mondo del sogno sia così vasto rispetto al mondo della veglia cosciente, mi accorgo che quel mio voler portare a termine ogni cosa (senza riuscire mai) rispecchia un non volersi arrendere a un’ineluttabile verità, ovvero che non c’è una fine precisa nelle storie reali. E che non ha alcuna importanza come finiscono le cose.
Giulia Priore
16. Il lungo addio (Robert Altman, 1973)
Un uomo viene svegliato in piena notte. Quale inizio più classico per un noir? Ma il pubblico, nel 1973, anno di uscita de Il lungo addio, così come oggi, rimane spiazzato. L’intruso nella camera da letto non è un ladro o un assassino, bensì un meraviglioso gatto rosso che ha fame e sveglia il suo umano – si tratta del celebre detective Philip Marlowe – per avere una scatoletta di cibo.
L’uomo si alza, si accende la prima delle innumerevoli sigarette che fumerà nel corso della storia e si reca in cucina, apre gli sportelli della dispensa e scopre di aver finito le scatolette. Prova a rabbonire l’animale con un piatto di formaggio, uova e sale, ma è conscio dell’inutilità del gesto e così prende la macchina e raggiunge un supermercato con orario notturno. Cerca la corsia del cibo per animali e lì constata che la marca preferita dal gatto non c’è. Il commesso chiamato in causa non capisce il problema, non ha gatti, non gliene servono, ha una ragazza, lui. Marlowe ridacchia sornione, l’ennesima sigaretta in bocca: sa bene, lo sa chiunque viva con un gatto, che il suo felino rifiuterà qualunque altro cibo e che anzi, come infatti accadrà, se ne andrà sdegnato per non fare mai più ritorno.
Seguono intrighi, improvvisi sprazzi di violenza, un omicidio, un suicidio vero e uno inscenato, compare un gangster, la corrotta polizia messicana, insomma, ancora una volta, tutti gli ingredienti tipici del genere. Ma quei primi quindici minuti, che sono il vero capolavoro di Robert Altman, hanno già sovvertito ogni cosa. Rimane l’interrogativo che Marlowe si pone per tutto il film, e noi insieme a lui: dove è andato il gatto?
Elisa Leonzio
15. La classe operaia va in paradiso (Elio Petri, 1971)
Il film politico per eccellenza, girato dal regista politico per antonomasia e con l’attore simbolo dell’impegno politico in Italia. Inevitabile che, all’uscita, La classe operaia va in paradiso venisse stroncato da ogni parte: critica, addetti ai lavori, pubblico bove. Ma passarono le settimane, il film cominciò a girare per i festival e a fare incetta di premi, a essere apprezzato per il suo coraggio nel mettersi contro chiunque: lavoratori e padroni, partiti di sinistra e organizzazioni sindacali, operai e studenti.
Io, la prima volta che lo guardai, nemmeno ci feci troppo caso, al racconto politico. No, io avevo appena quindici anni e tutta la mia attenzione venne calamitata dall’andamento poderoso di Volontè, che ti trascina dentro il film a spintoni e ti prende a botte, quasi, ogni santa volta che entra in scena. E’ invecchiato peggio di quanto avrei immaginato, La classe operaia va in paradiso, ma resta un’opera determinante, per l’epoca e per la nostra storia. E non dimentichiamoci Mariangela Melato e Salvo Randone: maestosi.
Milena Miconi
14. Alien (Ridley Scott, 1979)
“Nello spazio nessuno può sentirti urlare”. E già con una tagline del genere ci si precipita al cinema lanciando i soldi in faccia al bigliettaio. Parliamo di un film che va visto a tutti i costi e che, personalmente, credo di aver riguardato almeno una trentina di volte. Alien, nonostante la chiarezza del titolo, non è un film sugli alieni: i protagonisti sono l’oscurità, l’ignoto, l’ambiente inospitale e una tecnologia inutile quando non apertamente ostile. L’astronave cargo Nostromo è l’incubo claustrofobico perfetto: chilometri di tunnel, scarsa illuminazione e un silenzioso vuoto dal quale, in ogni momento, può emergere il pericolo. È complicato fare un elenco degli elementi innovativi introdotti da Ridley Scott, tanto sono numerosi. Su tutti, il tenente Ellen Ripley (una Sigourney Weaver praticamente all’esordio cinematografico), protagonista assoluta, in un periodo in cui gli “eroi” del genere cinematografico fantascientifico erano praticamente soli uomini: nella maggior parte del film l’azione si svolge tra lei e lo xenomorfo mentre il resto del cast ha una funzione meramente preparatoria, costruendo quello che sarà il vero duello della pellicola. Il capovolgimento di un classico schema di questo genere cinematografico è un’altra intuizione geniale: qui è l’alieno che caccia, lasciando all’essere umano il ruolo di preda al quale non è abituato, facendolo soccombere. Infine, il lavoro di H.R. Giger, artista visuale austriaco capace di immaginare la forma di Alien traendo ispirazione dai suoi stessi incubi. Fateci caso: per quasi tutto il film non si riesce a vedere chiaramente l’intero corpo del mostro. Solo la nostra immaginazione può completarlo, saccheggiando le proprie paure più profonde fino a realizzare il nostro mostro personale.
Francesco Somigli
13. Lo squalo (Steven Spielberg, 1975)
Io non ho paura degli squali. Dei serpenti ho paura, una paura fottuta. Ma degli squali no!
Credo dipenda dal fatto che il mio cervello, sin da bambino, mi abbia in qualche modo trasmesso l’insano input che contro uno squalo me la posso giocare. Ovviamente non ho mai pensato di poter avere la meglio al 100%, ma inconsciamnete mi sono persuaso che, in qualche modo, potrei comunque dare del filo da torcere a quel bastardo!
Temo, volendo essere un minimo razionale, che la maggiore responsabilità di questa mia immotivata percezione sia, in fondo, da attribuire alla visione, da ragazzino, de Lo Squalo.
Colgo dunque l’occasione di questo commento per dirlo, finalmente, a Steven: grazie per avermi fatto credere che noi, quel maledetto squalo, per quanto grande e cattivo possa essere, in qualche modo lo possiamo battere!
Uscito nel lontano 1975, anche grazie a una distribuzione record, in oltre 400 copie, Lo Squalo superò per la prima volta nella storia il muro dei 100 milioni di dollari al box office (il film ha incassò oltre 464 milioni di dollari al termine del ciclo di programmazione nelle sale, a fronte dei 9 spesi per la sua realizzazione), diventando il primo vero blockbuster del cinema americano e contribuendo a lanciare definitivamente la carriera del giovane Spielberg.
Stamattina l’ho rivisto dopo circa una ventina d’anni e, tra un’attacco e l’altro del temibile predatore dei mari, magistralmente sottolineato dall’iconica colonna sonora di John Williams, ho iniziato a pensare che, in fondo, la storia narrata da Spielberg sia un po’ una metafora di questi tempi disgraziati.
La vita quotidiana di una tranquilla e prospera comunità balneare di una piccola isola del New Jersey viene totalmente stravolta quando uno squalo bianco inizia a spargere terrore e a mietere vittime tra i bagnanti. Inizialmente, le autorità negano l’evidenza e sottostimano il problema. Il sindaco, il medico locale e una serie di notabili cittadini, fanno pressione sullo sceriffo Martin Brody (Roy Scheider) affinchè tenga segreti i primi attacchi dello squalo, al fine di non spaventare i turisti. Nessuno vuole sentirsi dire che quel mondo ideale è in pericolo. Ritengono, infatti, che la diffusione della notizia della minacciosa presenza dello squalo potrebbe avere un impatto devastante sull’economia della piccola località, che vive principalmente di turismo. Non si possono chiudere le spiagge, dicono. Il crescendo degli attacchi e delle vittime, spingerà la comunità locale a rivolgersi a due esperti, il biologo marino Matt Hooper (Richard Dreyfuss) ed il cacciatore di squali professionista Quint (Robert Shaw), affinchè affianchino il poliziotto Brody nella caccia allo squalo.
Ecco, io non lo so se quest’estate andremo al mare. Se le spiagge saranno chiuse o aperte. Non so se, anche oggi, una bombola di ossiggeno possa essere la soluzione. Forse, a fil di metafora, faccio mia la celebre frase pronunciata dall’agente Brody dopo l’incontro ravvicinato col gigantesco squalo: “You’re gonna need a bigger boat!”
Pier Attilio De Luca
12. L’amico americano (Wim Wenders, 1977)
Per qualche fan disperato dalla fine di una serie come Breaking Bad, non passerà inosservata qualche similitudine tra il personaggio di Jonathan Zimmermann (Bruno Ganz) e Walter White, entrambi malati e decisi ad affrontare ogni rischio pur di lasciare a moglie e figlia un po’ di denaro e di benessere.
Ma mettiamo da parte Jessie (Bitch Bitch Bitch) e co.
In “Der Amerikanische Freund” Wenders crea un cocktail dove si mescolano le sue anarchie visive e poetiche e le atmosfere politiche di violenza che serpeggiavano nell’aria in quel periodo.
Bruno Ganz e Dennis Hopper sono interpreti perfetti di due fantasmi che fluttuano in ere forse mai esistite, raccontate da una carrellata di immagini purissime, in soccorso al senso di smarrimento che abbiamo a ripensare, tornando a quei tempi bui e incomprensibili che furono gli anni ’70.
Ci sono quelli che sono nati negli anni ’80 e nei decenni prima, e poi ci sono tutti quelli che sono nati dopo: come direbbe il comico statunitense Louis C.K, questi ultimi sono quelli che pensano che i negazionisti dell’11 Settembre siano un gruppetto sparuto, ma determinato, di nove persone che negano letteralmente l’esistenza del numero 11.
Amerigo Biadaioli
11. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970)
È un film su tanti livelli, questo diretto da Elio Petri e interpretato da Gian Maria Volonté, vincitore del Gran premio della giuria a Cannes e dell’Oscar come miglior film straniero. È un thriller psicologico, un grottesco racconto rosa, ma soprattutto è un film politico, in grado di denunciare le aberrazioni del potere senza controllo. Recensendola il giorno dopo la sua uscita, il 13 febbraio 1970, il critico del Corriere della Sera Giovanni Grazzini definiva la pellicola di Petri “un importante passo avanti verso una società più adulta, tanto sicuro di sé e della democrazia da potersi permettere di criticare istituti tenuti per sacri senza doversi continuare a difendere dietro il medievale paravento del reato di vilipendio”.
Nel film, un poliziotto chiamato “dottore” (mai per nome o per cognome) ha appena ottenuto la promozione dalla squadra omicidi all’ufficio politico. Quel giorno, accompagnato dall’incalzante colonna sonora di Ennio Morricone, decide di uccidere la sua amante. Da quel momento, il “dottore” dissemina indizi per provare ai suoi colleghi di polizia la sua colpevolezza, ma la posizione lo porta a essere insospettabile anche di fronte all’evidenza. Un’analisi del potere, a due mesi dalla strage di Piazza Fontana, che rimane attualissima anche adesso.
Gianluca Cedolin
10. Harold e Maude (Hal Ashby, 1971)
Mi ricordo della prima estate che passai a Bologna. Faceva un caldo infernale e studiavo su di un libro fotocopiato e rilegato da una spirale. C’era un capitolo che parlava della rappresentazione cinematografica del suicidio adolescenziale.
Dal balcone vedevo Porta San Felice, e la chiesa, e nessuna anima a cuocersi sotto il sole che bruciava l’ossigeno e mi appannava gli occhi.
Incontrai Harold in queste circostanze e immagino di poter dire che ci piacemmo fin dal primo momento. La sua creatività nell’architettare finti suicidi mi faceva simpatia.
Ci tenemmo in contatto fino al termine della sessione estiva. Mi accompagnava a Villa Spada, di tanto in tanto, quando cercavo un minimo di refrigerio in collina; ascoltavamo Cat Stevens nel tragitto, camminando con lentezza e intrattenendoci in conversazioni garbate.
Maude invece non la capivo. Ne invidiavo l’allegria, la fermezza, la quieta accettazione della fatalità; ma con lei mi era impossibile intrattenere una conversazione senza provare disagio.
La malinconia di Harold mi teneva al sicuro, ancorata alla mia emotività intrigata, lontano dalla portata della semplicità del momento.
Mi ricordo della seconda estate che passai a Berlino. Faceva un caldo tiepido che acuiva l’odore della pianta di incenso. Maude era accoccolata sul divano, e mi sorrideva. Io ero fuori, sul terrazzo, a contemplare l’Hinterhof seduta su una sedia di plastica bianca. Ricordo, mi disse: “Vivi! Vivi adesso!”. Ed io pensai che dal suicidio di Harold avevo appreso che dà gusto, concedersi di star bene.
Greta Canestrelli
9. Barry Lyndon (Stanley Kubrick, 1975)
La storia, certo. La trama, senza dubbio.
Ma chi se ne fotte della trama, della storia, eddai sù.
Questo è un film che si guarda per le immagini, prima di tutto. Come ve le descrivo le immagini? Si va oltre il significato di bellezza, di esagerazione, di voluttà fotografica, in Barry Lyndon. Qui siamo su Stanley Kubrick all’ennesima potenza, un film difficile, con una quantità inenarrabile di complicazioni produttive, critiche all’inizio spietate per il ritmo, considerato troppo lento, della narrazione. E poi il tempo, che inesorabile mette ogni cosa al suo posto. Al cinema, ve lo dovete andare a vedere. E se al cinema non lo fanno, compratevi una televisione grande, un lettore blu-ray e un’edizione degna, poi mettetevi alla distanza giusta e, pure senza audio, fatelo fluire dentro. Se i soldi per tutti questi acquisti non li avete o non li volete spendere, andate da un amico, da un’amica, che quei danari li ha, o li ha semplicemente voluti spendere. Ho un aneddoto. Ai tempi dell’università ho vissuto, per un anno, con dei ragazzi calabresi. Un pomeriggio facevano Barry Lyndon alla televisione. Non era epoca di Sky e minchiate varie, lo davano, con blocchi enormi di pubblicità in mezzo, su Rete4. In appartamento c’era in quei giorni la madre di Arturo, uno dei ragazzi calabresi, e la signora, a parte cucinare l’agnello che aveva portato da giù e che bastò per tutta la settimana, stava davanti allo schermo. Io il film lo volevo registrare, ma all’epoca, per registrare, non potevi cambiare canale, registravi quello che stava sulla televisione in quel momento. Chiesi alla signora. Mi rispose con uno stringato “va bene”. Le dissi “ma dura tre ore”. Mi rispose con un netto “non ho niente da fare”. Le piacque. Ne fui contento.
Maggiorana Miocardio
8. Amarcord (Federico Fellini, 1973)
Qualche anno fa organizzamo una cena per i miei nonni per il loro sessantesimo anniversario di nozze. L’immagine che avevo davanti agli occhi in quel momento della mia famiglia al completo, i miei nonni sorridenti, quella lunga tavolata, mi si è associata automaticamente al tema musicale di Amarcord (scritto da Nino Rota). Da quel momento quella “foto” è impressa in me, con quella colonna sonora. E mi sono chiesto se quando sarò anziano questa scena sarà ancora nella mia scatola dei ricordi, intatta come lo è adesso.
Amarcord (in romagnolo “io mi ricordo”, termine che è poi entrato nel vocabolario italiano per le rievocazioni nostalgiche) è forse uno dei film più romantici di Federico Fellini, dichiaratamente autobiografico e dedicato, appunto, ai ricordi.
Il regista riminese ricostruisce la sua infanzia e la sua adolescenza nel borgo (il quartiere di San Giuliano) in una pellicola infarcita di personaggi particolari e freaks: dallo zio pazzo (Ciccio Ingrassia) alla prorompente tabaccaia, passando per la sempre arrapata Volpina, fino alla Gradisca, la donna più bella del paese, in cerca di marito.
Ercole Gentile
7. Frankenstein Junior (Mel Brooks, 1974)
Qua non devo proprio dire niente, è un film bellissimo, come la mia capacità analitica e critica.
La prima volta non mi ha fatto ridere, la seconda ho cominciato a sorridere, la terza ero piegato, tutte le altre visioni non me le ricordo, ma praticamente ormai lo guardo come fosse un karaoke cinematografico. Quello che so è che fino alla sesta visione (numero buttato a caso) ho scoperto o capito cose che mi facevano ridere, forse sono tardo io, forse è pieno zeppo il film.
E oltre a far piegare dalle risate è anche girato fottutamente bene e ha pure un bel bianco e nero ( che frase da fighetto).
Germano Cucinotta
6. Il padrino Parte I e Parte II (Francis Ford Coppola, 1972 e 1974)
Ogni tanto nella storia scattano dei cortocircuiti che sembrano usciti dalla fantasia di un autore senza talento o dalla sapienza di Colui che tutto move. Uno di questi fu l’incontro tra Stanislavskij, Boleslawski e Strasberg. Nacquero tutti e tre sudditi dello zar, ma fu a New York che i loro destini si incrociarono, alla scuola di recitazione fondata da Boleslawki e Marija Uspenskaja, dove si insegnava il metodo Stanislavskij.
Strasberg la frequentò negli anni Venti del secolo scorso. Successivamente elaborò un proprio metodo, un adattamento di quello di Stanislavskij alla cultura americana. Nel 1948 diventò insegnante all’Actors Studio e nel 1951 direttore artistico, ruolo che tenne fino alla morte nel 1982.
Dalla sua scuola sono usciti artisti di primissimo livello. Nel Padrino Parte I e Parte II troviamo Marlon Brando, Al Pacino e Robert De Niro. L’Actors Studio ha sfornato attrici e attori del calibro di Marilyn Monroe, Jack Nicholson e Paul Newman, solo per citare i più famosi. Di questo gruppo fa parte anche Laura Dern, che l’anno scorso ha vinto l’Oscar come migliore attrice non protagonista. Nel discorso di accettazione del premio, Dern ha ringraziato la sua insegnante Sandra Seacat. Di Seacat, che ha studiato con Strasberg stesso, è stata allieva l’attrice e regista Viviana Di Bert, tra le prime in Italia a importarne il metodo.
Uno dei momenti più belli del Padrino Parte II è proprio il monologo di Strasberg. Comincia sdraiato su un divano come un tiranno orientale, mentre Al Pacino è in piedi e lo ascolta. Poi Strasberg si alza, se ne va e lascia Al Pacino solo.
Uno dei passaggi di consegne più belli della storia del cinema.
Flavio Villani
N.d.R Il Padrino parte I e parte II sono due film ben distinti, e avrebbero meritato due posizioni indipendenti in questa classifica, ma abbiamo deciso di includerli ex aequo, in un’unica posizione e con un solo commento, per dare spazio a un film in più nella lista.
5. Il cacciatore (Michael Cimino, 1978)
Fra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 ricordo di essere rimasto molto impressionato dalle notizie che provenivano da tutte le parti del mondo e che parlavano di persone che erano rimaste uccise come nella pellicola di Michael Cimino, Il Cacciatore (The Deer Hunter), uscito nel 1978.
Nel film, tre amici, operai di un’acciaieria in Pennsylvania (Mike, Nick e Steven, rispettivamente Robert De Niro, Christopher Walken e John Savage) vengono catturati dai Viet Cong durante la guerra del Vietnam e costretti a subire la barbara tortura della “roulette russa”, mentre i carcerieri vietnamiti scommettono su di loro. Il “gioco”, come molti sanno, consiste nel caricare una pistola con un solo proiettile, girare il tamburo, puntare alla propria tempia e premere il grilletto. Sui protagonisti del film piomberà la dura consapevolezza che la guerra ha distrutto qualsiasi illusione, comprese quelle di Linda, promessa sposa di Nick, interpretata da una magistrale Meryl Streep.
Nel giugno del 2018 c’è stata, forse, l’ultima vittima di questo folle gioco mortale della “roulette russa”: un ragazzo di 17 anni di Las Vegas.
Alessandro Borscia
4. Stalker (Andrej Tarkovskij, 1979)
Nel 1972 i fratelli Strugackij pubblicano “Picnic sul ciglio della strada”, un romanzo di fantascienza che in Italia uscirà poi come “Stalker”, edito dalla serie Urania di Mondadori. Tarkovskij, dopo aver letto il libro, lo consiglia per un adattamento cinematografico all’amico regista Makhail Kalatozov, il quale però non riesce a ottenere i diritti dell’opera e abbandona il progetto.
Tarkovskij ci lavora quindi in prima persona, assieme agli autori, Arkadij e Boris Strugackij.
Il film risulterà divergere di molto dall’opera originale, tanto che il regista russo, all’uscita del film, dichiarerà che pellicola non ha nulla in comune con il testo da cui è tratta, se non le parole “Stalker” e “Zona”. Le scene sono filmate tra Russia, Estonia e Tagikistan e il film viene ufficialmente presentato al Festival Internazionale di Mosca nell’agosto del 1979 e a Cannes nel 1980: esce in Italia l’anno seguente, nel 1981. Girato con circa 1 Milione di SUR, il Rublo Sovietico, al botteghino incassa 4,3 milioni.
Nel suo “Zona: un libro su un film su un viaggio verso una stanza”, Geoff Dyer scrive che quando i funzionari del Goskino, l’ente governativo centrale che si occupava della produzione di film nell’Unione Sovietica, visionarono “Stalker”, fecero notare ad Andrej Tarkovskij che sarebbe potuto essere un po’ più dinamico, soprattutto all’inizio. Quest’osservazione fece andare su tutte le furie il regista, che riteneva l’attacco del film l’inizio potesse essere persino più noioso e lento, per dare la possibilità a chi fosse andato al cinema a vedere il film sbagliato di uscire dalla sala, prima che l’azione fosse cominciata. Sbalordito dalla risposta, uno dei funzionari provò ad accennare mettendosi nei panni del pubblico. Ancora più arrabbiato, il regista sbottò che a lui del pubblico non fregava nulla, gl’importava solo dell’opinione di due persone: Bresson e Bergman. D’altronde il tempo, e non la storia, era per Tarkovskij la materia principale della narrazione: «Credo che le persone vadano al cinema per il tempo. Che sia per perderlo, sprecarlo o guadagnarlo». Per Tarkovskij il cinema non è e non deve essere una mera narrazione visiva, ma un’opera d’arte, in tutto e per tutto.
“Stalker”, sebbene rientri nei canoni del film fantascientifico, è, prima di tutto, una pellicola d’autore.
Per il suo spessore, per la fotografia e la luce, per la profondità dei personaggi. E per il tempo.
La prima frase del film, dopo il lungo e lento incipit, viene pronunciata dalla moglie dello Stalker: “Perché hai preso il mio orologio?”.
Attenzione: siamo in un’altra dimensione spazio-temporale, intende.
Virginia Patrone
3. Arancia Meccanica (Stanley Kubrick, 1971)
La prima volta che cercai di guardare Arancia Meccanica avevo più o meno dodici anni e i miei genitori non erano in casa. Io e la mia amichetta all’epoca sapevamo soltanto che era un film vietato ai minori e molto scandaloso. Curiose di capire cosa mai si intendesse dire con scandalo, alla prima occasione prendemmo la videocassetta dalla cineteca dei miei e facemmo partire. Non era ancora finita la prima iconica inquadratura che mia sorella maggiore, dall’altra stanza, riconobbe il distopico arrangiamento di Purcell iniziale e si precipitò a spegnere il televisore.
“Siete pazze, siete troppo piccole. Ve lo rovinerete se lo guardate adesso, non percepireste altro che una violenza cruda senza alcuna analisi o messaggio, fraintendendolo tutto il film”. Io protestai: “e quando potrò vederlo allora?”. “Quando te lo dico io”.
Alla fine decisi di fidarmi e guardammo La Sirenetta, anche se abbastanza contrariate.
Dovetti aspettare fino al mio diciottesimo compleanno per ricordare quella conversazione, che lei invece non aveva dimenticato. Puntuale mi presentò un libro dalla copertina occhiuta incredibilmente familiare: Arancia meccanica di Anthony Burgess. Sul risguardo di copertina una dedica: ‘…e dopo questo il mondo non sarà più uguale…tanti auguri’. E poi aggiunse: “Dopo, finalmente potrai guardare il film”. Sinceramente non saprei dire quale delle due versioni, se quella di Burgess oppure quella di Kubrick, mi sia entrata con più vigore nell’animo, ma devo ammettere che mia sorella aveva ragione: niente è stato più come prima.
Caterina Coral
2. Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976)
L’ho rivisto proprio qualche mese fa, proiettato sul muro di casa a Berlino.
Pensare che quando ero adolescente, sul muro della mia camera a Roma, c’era invece attaccata la locandina. Ho sentito l’esigenza di rivederlo forse perchè ero in cerca di conferme: per alcuni motivi, dopo la visione di Joker al cinema, mi era nato dentro un sentimento di mettermi a far paragoni –anche se non è mai cosa sensata– ed ecco che da lì dovevo ribadire che, sì, c’è un pezzettino di Taxi Driver in tanti film che ho visto, e Joker in primis, ma gli aggettivi importanti non sono destinati a tutti e, forse, non tutti i film saranno destinati ad attraversare tempo e “mura”.
Il protagonista, Travis, è un ex reduce del Vietnam.
Un dettaglio che certo aiuta a fare il punto sull’epoca in cui questo film è ambientato e sui risvolti nella storia del protagonista. Tuttavia, come spesso accade con i “classici”, il riferimento storico non toglie nulla alla forza di una rappresentazione ancora attuale.
C’è l’insonnia, c’è una vicenda di solitudine ed emarginazione, tutta metropolitana, bagnata, che si accende di rossi lavorati “a mano” da Scorsese, scandita da una colonna sonora che si fonde con New York e che suggerisce anch’essa –ma senza mai imbeccare– le imprevedibili “improvvisazioni” dell’animo di Travis.
C’è, ancora, l’amore, e poi il lento deliquio che da una condizione esistenziale raminga e inquieta può condurre prima alla rabbia e poi alla pazzia (salvo poi rivelare come quest’ultima possa trovare riscatto e risarcimento proprio nelle distorsioni del mondo che hanno contribuito a crearla).
Infine, c’è un Robert De Niro che ad ogni cambiamento compiuto dal suo personaggio, riflette nell’interpretazione intermittenze e bagliori di questa parabola.
Aiutato certo da una mirabolante schiera di comprimari (Scorsese compreso), De Niro fa luce; con forza si apre un varco nell’immaginario collettivo, dove approda per restare.
E a buon rendere per tutti quelli che verranno dopo.
Nora Cavaccini
1. Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979)
Nella prefazione all’edizione italiana dei Miti greci di Robert Graves (1963), Umberto Albini definisce così il mito:
“Il mito è bisogno di spiegare la realtà, di superare e risolvere una contraddizione della natura, il mito è spiegazione di un rito, di un atto formale che corrisponde a esigenze della tribù, il mito è struttura delle credenze di un gruppo, di un etnos.”
Nell’immaginario di molti Apocalypse now, film del 1979 di Francis Ford Coppola, frutto di una estenuante e leggendaria lavorazione, è un’opera mitica giacché il mito racconta: quello del colonnello Kurtz, nato dalla penna di Joseph Conrad, che in Cuore di tenebra descrive l’anabasi del fiume Congo, realmente compiuta dallo scrittore polacco nel 1890.
Attraverso Kurtz, Conrad prima e Coppola in seguito, rispondono a due essenziali questioni, relative al gesto e allo scopo del narrare la potenza del mito.
Il gesto: quello di entrambi può essere riassunto dalle parole di Conrad, il quale nella prefazione al Negro del Narciso scrive:
“Il mio compito è, tramite il potere della parola scritta, di farvi udire, di farvi sentire, e soprattutto farvi vedere. Ciò, e nulla di più, eppure è tutto.”
Coppola prende alla lettera le parole di Conrad e ce lo mostra, il mito: nulla di più, eppure è tutto.
Lo scopo: arrivare attraverso il rito della navigazione a Kurtz, che incarna il male, che conosce l’orrore. L’orrore! Alla fine dell’Africa, alla fine dell’Asia.
Lo aveva già visto il male, il nostro Francis, nelle mascelle rinforzate di don Vito Corleone e nella sua epopea familiare, rappresentata nella saga de Il Padrino. Lo aveva osservato, ma come qualcosa di espiabile, forse: morendo nel proprio orto, tra la natura addomesticata destinata alla frittura. Qualsiasi peccato sarebbe stato fritto, da quella mafia patinata, mélo, verdiana.
Ma il regista italo americano odorò evidentemente qualcosa di più grosso, che lo condusse verso altre rive, più incerte, pericolose, oscure. Verso le tenebre della guerra.
Il Coppola/Omero volle portare con sé Brando, che forse non vedeva l’ora di mostrare il cranio rasato e calarsi nei panni sudici, laidi di Kurtz. Ma non per recitare, no.
Per mostrarci l’inguardabile; per dirci che ci sarà sempre qualcosa che non riusciremo a controllare, che ci verrà a trovare di notte, magari, con o senza febbre malarica.
Ma anche per regalarci minuti di oro purissimo, che nessuna Zecca di Stato ha mai visto.
Nemmeno quella dei potentissimi Stati Uniti d’America: questo grande paese, pieno di ogni genere d’uomo e di armi niente affatto cavalleresche. Il paese degli afroamericani in cerca di norme e riscatto, dei surfisti californiani in cerca di sballo e di onde, dei caucasici ancora così europei da farsi guidare dalla ragione, e dai sensi di colpa. Tutti ritratti in missione, lontano da casa e in uniforme, sudati, sfiancati, oppressi. Un paese intero rappresentato fra catenine e placchette, pronto a intonare i Beach Boys o i Doors, a seconda dei casi, a ubbidire e a morire nella foresta implacabile del sud-est asiatico.
Apocalypse now è un film che, come a volte accade anche nel cinema industriale, (e non mercantile, come diceva Deleuze) corre un grossissimo rischio in cambio dell’immortalità: quello che si prende chi va in cerca dell’antico interrogarsi sulla natura del bene, sul potere, sul significato profondo dell’esistenza, che è materia divina, più che umana.
Un rischio che però Coppola sembra non vedere nemmeno (ancora Omero), andando così ad afferrare il suo scopo in stato di trance. Proprio questo fa la differenza: il regista è dentro il film, il regista è in guerra.
I film di questo genere hanno una caratteristica: si sente che chi dirige è fuori, non ne fa parte, che l’occhio della cinepresa è sempre e comunque esterno, lontano, molto più del solito. Sono spesso prove muscolari di regia, inquadrature da cecchino, a distanza. Ma nel caso di Apocalypse now sembra non ci sia nessuno stacco tra chi sta davanti e dietro la camera. Il mito si connette con una tensione interiore quasi inumana. Sarà che Brando rappresentava la giusta ricompensa per un regista, da raggiungere come un’oasi notturna, la soddisfazione di un intimo piacere: l’attore dentro la caverna, che doveva liberare la sua forza dionisiaca. O forse ancora la folle esperienza registica di Coppola è il risultato di un movimento corale, irriducibile a un solo occhio, dove tutti e tutte sono alla ricerca di Kurtz. Compresa la moglie del regista, Eleonor, che per raccontare la paura e il delirio nelle Filippine, dove fu girato il film, girò un documentario dal titolo emblematico, Viaggio all’inferno, che si apriva con le parole dello stesso Francis:
«My film is not a movie. My film is not about Vietnam. It is Vietnam.»
Mi hanno concesso 2000 battute per parlare di questo film. Le ultime sono dedicate a un ricordo personale. Mi capitò un giorno di conversare con uno scrittore, che aveva fatto il carcere per ragioni politiche. Mi disse una cosa importante, di quelle che non si scordano. Dopo qualche tempo in prigione, mi disse, inizi a riconoscere i reati commessi dai detenuti. Ladri, stupratori, usurai, li riconosci per il loro fare, parlare, porsi al prossimo. L’unico criminale che non riesci mai a riconoscere è l’omicida. Perché tutti potenzialmente lo siamo.
Aveva ragione, come spesso i veri scrittori.
This is the end.
Siamo tutti Kurtz, abbiamo tutti un nostro Vietnam, rivedremo ancora una volta l’Apocalisse.
Piera Ghisu
Hanno collaborato alla realizzazione di questo pezzo, in ordine sparso: Nunzio Gringeri, Giuseppe Cassone, Elena Cascio, Mattia Grigolo, Cavezzi, Loris Rizzo, Gianluca Palma, Viola Mondello, Margherita Seppi, Francesca Dallasta, Pietro Romeo, Viola Castellano, Federico Giamperoli, Davide Grimoldi, Endi Tupja.
L’illustrazione di copertina è di Ivano Talamo
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