Sullo slargo principale che raggiunge il mare di Kep (Sud Cambogia), oltre la rotatoria, affaccia lo spaccio alimentare da cui si prenotano anche gli autobus per raggiungere il nord della Cambogia, le isole, la Tailandia e il Vietnam. Un cartello indica i prezzi delle tratte in dollari, dai 15 ai 30 circa.
Sul lato opposto ci sono una ventina di amache sospese nell’ombra tra tappeti e tetti di gazebi.
Sono le 15:00, fa molto caldo, e non c’è quasi nessuno in giro sotto al sole.
Sto per lasciarla Kep, sto aspettando un pullman, ma ho paura che non mi vengano a chiamare.
Ho sempre paura che si scordino di me. Non so perché, fino ad ora non è mai successo. Eppure nello spostarmi, in questo viaggio, ho quasi sempre l’impressione di essere tagliata fuori dal programma; sono partecipe delle cose che accadono solo nell’esatto momento in cui avvengono. So la mia meta, ma non riesco a figurare un possibile percorso, non so come ci arriverò.
Non importa. Nell’affidarmi all’organizzazione che ha riscattato i miei 20 dollari per raggiungere Siem Reap, nel nord, mi sento piuttosto tranquilla.
Non so nemmeno precisamente a che ora è previsto l’arrivo. E anche questo mi sta bene. Il tempo è cadenzato dallo spostarsi del sole; le 14:00 o le 19:00 sono ore di luce o ore di buio; l’ora in cui la destinazione sarà raggiunta non ha a che vedere con questo ritmo.
Una fiamma rossa e incandescente appare infine in forma di pullman sul lato opposto della piazza. Lascio il mare, le isole, un’estate estemporanea alle mie spalle e mi immergo nell’aria condizionata del vano scuro e vagamente bluastro che è l’interno del bus.
Credo che questo pullman, terribilmente scarso di passeggeri, abbia fatto scalo a Kep per raccogliere me solamente. A bordo c’è già, nei posti anteriori, una famiglia cambogiana per un totale di cinque o sei componenti. Nel mezzo siede una turista dalla pelle bianco-latte. Proseguo trovando la mia collocazione definitiva poco oltre; scelgo un posto accanto al finestrino cercando di non schiacciare con la scarpa i sottili cavi azzurri che pendono a una ventina di centimetri dal suolo, il cui utilizzo non rilevo.
Le tende blu scosse dall’affaticarsi vacillante del bus, sono incorniciate da un fregio decorativo con archi rovesciati, in stoffa cobalto, ricamato d’oro. Dondola, e fa dondolare i piccoli pom-pom bordeaux ad esso appesi.
Si rincorrono palme e polvere rossa, fuori dal vetro, e casupole rade e basse e arrangiate in differenti colori, in primo piano rispetto a dei rilievi collinari dalla vegetazione fitta che di tanto in tanto si affacciano dal bordo nero del finestrino.
I cavi elettrici percorrono tutto il profilo della strada, da palo a palo, insieme formano un enorme filo intrecciato: condotti grigio topo in una linea retta traballante per l’effetto visivo che si ha quando qualcosa resta fermo mentre tu sei in movimento, viaggiano, mi sembra, più veloci di me. Vorrei seguirli per vedere se finiscano da qualche parte, o se invece si propaghino nel Vietnam, o nel Laos; sono convinta lì continui il loro andare ordinatamente attorcigliato sospeso soltanto agli incroci in cui la corrente si piega in una capriola, moltiplicandosi e disperdendosi, per ogni incontro di fili, per ogni palo.
Ripenso ai giorni trascorsi, l’arrivo a Bangkok, il traghetto per raggiungere Ko Chang, un’isola nel sud della Tailandia, il faticoso percorso per attraversare il confine con la Cambogia.
Spostarmi di tappa in tappa è la parte che più preferisco di questa esperienza, insieme al non sapere quale sarà la destinazione successiva.
Ho passato in viaggio ore e ore, anche dodici o tredici al giorno, ogni volta cambiando fino a cinque o sei diversi mezzi di trasporto. Sono state ore di truffe spese in Baht tailandesi e dollari e Riel cambogiani, ore di caldo torrido e aria condizionata, ore di solitudine e ore in compagnia di altri viaggiatori viaggianti, conquistati e persi.
In questo momento sto viaggiando da sola, e ne gusto il sapore.
In un paio d’ore di silenzio e cigolii arriviamo, intorno alle 17:30, all’area di sosta. Il conducente si gira verso l’interno del bus prima di scendere, e come una maschera che annuncia il break dello spettacolo, dice solamente: “toilet”.
Lascio il gelo innaturale per immergermi nel tepore dell’ora del tramonto. I grani rossi della terra si sollevano per posarsi sulle mie scarpe da trekking. È rossa anche la strada, dove passano le macchine ad un ritmo non costante, e il loro rumore ricorda le onde del mare. Il cielo chiaro tocca le piccole baracche prima di raggiungere il suolo, sul lato opposto a dove ci siamo fermati. Alle mie spalle, invece, una sala molto grande, coperta da un tetto sorretto da colonne, è aperta su tre lati e chiusa da un muro soltanto sul retro. Dentro ci sono tavoli e sedie in plastica e una piccola teca con dei contenitori in metallo predisposti alla calefazione del cibo. Il conducente si serve il pasto, si accomoda nella postazione più vicina e mangia. Mi incuriosisce la situazione: chissà quante volte durante la settimana quell’uomo fa avanti e indietro, tra nord e sud. Chissà dove dorme, chissà come si svolge la sua vita ogni giorno.
Mi dirigo verso i gabinetti insieme a parte della famiglia cambogiana. Sono in tre e mi camminano davanti, ma si girano a guardarmi ad ogni passo, e ad ogni passo mi sorridono.
Non c’è lo sciacquone, ma un pozzetto con una pompa; vi galleggia una paletta simile ad un pentolino in plastica. L’acqua si sposta leggermente; il rumore delle gocce che cadono e il rimbombo ovattato delle voci esterne, sembrano scovare ancora una nuova variante del concetto di tempo, dilatato ma costante e terribilmente vivido nel presente.
Tre porte azzurre e scrostate danno su uno stretto corridoio aperto, innalzato da una palafitta che si erge da un suolo ricco di palme e di vegetazione tropicale. Il sole, una palla enorme, più grande di quella che vedo nei tramonti sulla Spree, e più rossa, sta lentamente calando. Mi distrae dalla ricerca del lavabo, che poi trovo appeso al muro come un quadro, senza acqua e senza tubi.
L’autista mi fa segno con la testa e con la mano di risalire.
Cinque o sei villette in stile coloniale, ancora, con tanto di parapetto rifinito di colonnine al primo piano, e spennellate di un improbabile giallo, mescolato al verde bottiglia e al viola scuro, crescono dal nulla, in mezzo al nulla. Ma non si propagano, non si fanno concorrenza, non si accostano. Si spalmano sulle cinque ore di viaggio totali fino a Phnom Penh.
Ci vorrebbe meno tempo, tre ore all’incirca. Ce ne mettiamo due in più perché la condizione della strada non permette altrimenti. Per lunghi tratti l’asfalto è assente e i lavori in corso riducono lo spazio della carreggiata. Ci si aggiunge una leggera distrazione del conducente che dopo venti minuti di percorso nelle prime ore del buio si accorge di aver preso la corsia errata. È costretto a procede nella seguente mezzora in retromarcia, fino ad incontrare uno scalino non troppo pronunciato, che permetta al pullman di molleggiare sulle ruote e spostarsi nella parte centrale della strada.
La zona rurale è una semplice riga tracciata da una matita leggera che non calca molto. Non invade lo spazio, non ingombra sul ciglio della strada. L’arrivo in città, seppur graduale, spezza la punta e il suo tratto sottile. Il paesaggio urbano si infittisce colmandosi di capannoni industriali dalle scritte cinesi in rilievo. Complice il buio, la poca illuminazione non lo redime dalla sensazione di irrequietezza della grande città.
Ci fermiamo nella stazione dei pullman. Appena scesa, l’odore di urina è prevalente.
Mi guardo intorno vagamente confusa: questa è la parte del viaggio in cui non so cosa accadrà ma ho la certezza che qualcuno arriverà a dirmi ciò che mi serve. È un guidatore di tuk tuk a sciogliere il mistero. Mi offre due ore di tour prima di tornare in stazione per il bus notturno; partirà alle 22:00, mi dice, e raggiungerà Siem Reap probabilmente intorno all’alba. Declino l’offerta perché ho fame. Giro con lo zaino in spalla intorno all’area della stazione. Non mi piace, mi sento sollevata di non aver scelto di restare più a lungo. Mangio in un ristorante appartenente ad un merchandising cinese di fast food. Lo squallore del posto si sposa con l’incrocio sul quale affaccia, tra bagliori incostanti, traffico incandescente, semafori non rispettati. Un edificio all’angolo in particolare è impressionante, sembra quasi sia stato bombardato. Lo osservo per trovarne tracce di vita, che sfortunatamente rilevo al terzo piano.
Torno in stazione con un po’ di anticipo, siedo accanto ad un ragazzo americano che vive a Siem Reap da un paio d’anni. “Non sono mai stata su un pullman con dei letti” gli dico cercando di prefigurare l’esperienza. Ne resta sorpreso e non ne comprendo il motivo.
Il pullman ci carica per tempo; ricevo una busta di plastica blu per riporre le scarpe, mi viene fornito il numero corrispondente alla mia cuccetta, sul fondo del bus. Il materasso è morbido; rosso ai bordi e nero al centro. Mi stendo su un fianco e tiro la tenda celestina che mi rende un po’ di intimità. Non faccio lo stesso con quella che dovrebbe coprire il finestrino; fuori è pieno di luci e sono affascinata dalla visuale delle strade, a novanta gradi a destra da sdraiati.
Mi addormento per svegliarmi un paio d’ore più tardi; un’altra area di sosta, altri bagni, altre tettoie giganti sotto le quali fermarsi a mangiare. Ma sarà passata la mezzanotte, e alla mensa ci sono solo i camerieri che hanno finito il turno; tutti indossano una camicia bianca e sono stretti intorno allo stesso tavolo. Ci guardano, li guardiamo.
Prima dell’alba riapro gli occhi che il pullman ha già raggiunto la sua destinazione. Fuori dal finestrino riconosco di nuovo la terra rossa, più rassicurante del catrame di Phnom Penh. Scricchiola sotto le scarpe da trekking mentre cammino in direzione dell’ostello. Saranno da poco passate le 06:00. Una ragazza bagna con una secchiata d’acqua la porzione di strada antistante un ampio cancello verde oliva; appresso un ragazzo a torso nudo martella un enorme cubo di ghiaccio.
Ad un incrocio, che immagino popolato ad ore più bollenti, osservo a sinistra la piazza del mercato con gli stand disabitati. A destra sessanta, settanta fili di cavi elettrici districati al centro ed intrecciati presso ogni traliccio, gli stessi che da Kep si moltiplicano e si riproducono in ogni parte dell’Asia tropicale. Tagliano la visuale sulla strada che mi è perpendicolare; definiscono la linea dell’orizzonte dalla quale un punto di luce stuzzica il cielo, così come una puntura di zanzara, grattata, arrossa la pelle.
Poso lo zaino, è ora di fermare il viaggio. Almeno per un po’.
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foto di copertina: area di sosta tra Kep e Phnom Penh
Tutte le immagini, compresa quella di copertina sono dell’autrice dell’articolo. Temete questo simbolo ©
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