Ripensando a Venezia mi viene in mente un discorso dal film Gli Spietati di Clint Eastwood. A parlare è English Bob, una inglese dai modi eleganti che si diverte ad ammazzare cinesi. In una scena si vede English Bob che parla al barbiere della cittadina di Big Whiskey, Wyoming, nel tentativo di dimostrargli, attraverso un aneddoto tutto western style, la differenza tra un presidente ed una regina.
“I regnanti hanno un loro carisma.” Spiega Bob con tono cadenzato “Se lei dovesse puntare una pistola su un re o un regina, le tremerebbe la mano come ad un paralitico. Se le capitasse, le posso assicurare, che la vista d’un regnante le farebbe passare di mente qualsiasi idea di spargimento di sangue e lei resterebbe, come le posso dire? Impietrito ”
“Invece, un presidente, ah beh insomma, perché non sparare ad un presidente?”
Vorrei avvisare il lettore che quella che sta per affrontare non vuole essere una delle tante guide per scoprire la città, con la quale si visitano mentalmente Piazza San Marco e il Ponte di Rialto. Questa vuole essere una passeggiata, io ed il lettore assieme, mano nella mano, lasciandoci perdere tra le calli veneziane, ostacolati dai canali che ci tagliano la strada e ci costringono a tornare indietro a cercare una via alternativa. Ma badi bene il lettore a non illudersi di essere noi stessi a tenere le redini della passeggiata; la nostra guida è infatti quel ragazzo che siede sulla panchina ignaro della nostra presenza. Quello che aspetta il treno. Si, lui. Quello con lo zaino nero.
Anche tu, come noi, parti da Vicenza, la città dell’architetto rinascimentale Andrea Palladio. Per te è tutto una prima volta: il treno regionale Verona-Venezia che passa sempre al binario due, il tipico ritardo che può variare da qualche minuto a qualche decina, il clima umido e freddo del Veneto in febbraio, ed i campi, che ammettiamolo, te li aspettavi come quelli visti in Toscana nel viaggio precedente a questo. Lo vedo dallo zaino che porti sulle spalle, costellato di piccole toppe cuciteci sopra come cicatrici di un soldato errante, dove l’ultima di queste, la più pulita e nuova, è quella raffigurante la bandiera della contrada della Lupa che vinse l’ultimo palio di Siena.
Fortunatamente, all’arrivo del treno riesci ad accaparrarti subito un posto. Ti siedi ed apri il libro che tenevi in mano e, come tanti prima di te, inizi disperatamente a ripercorrere l’albero genealogico della famiglia Buendia in quel capolavoro che è “Cent’anni di solitudine” di Garcia Marquez.
Mentre viaggi con l’immaginazione tra le strade di Macondo in compagnia dell’onnipresente Ursula e del resto della famiglia, il treno calpesta il fango della pianura padana attraversando una serie di paesetti di cui ignoravi l’esistenza. Hanno nomi impronunciabili per un tedesco. Troppo brevi forse.
Fuori, la nebbia densa e prepotente avvolge il treno proiettandolo in uno strano paesaggio monocromatico. Attraverso il finestrino non si vede che una vaporosa parete grigia che annega ogni possibilità di seguire il tragitto. Più ci avviciniamo a destinazione però, più la nebbia si dissolve, un po’ come la tua attenzione dal libro. Non sei mai stato a Venezia e non hai la minima idea di cosa aspettarti; te la immagini come nelle cartoline o nelle foto viste su internet, ed in effetti è qualcosa di molto simile, ma più reale. Hai sentito tanto parlare di questa città, forse anche troppo. Ci sono storie di ogni tipo che hanno avuto luogo nella Serenissima, come le avventure del grande libertino Giacomo Casanova, i viaggi di Mark Twain, i drammi di Shakespeare. Hai sentito parlare della città come ex potenza navale, dello sfarzo e delle immense maschere di carnevale, dei dogi, spietati come pochi. Il vetro soffiato di Murano, le gondole, il libertinismo sfrenato che nel 1500 animava le vie della città, ed i Pink Floyd che il 15 luglio 1989 suonano sopra un palco galleggiante al centro della laguna.
Ma ancora non puoi sapere dove stai andando, non puoi, perché nessuno riesce davvero ad immaginartela.
***
Vederla per la prima volta è come leggere una poesia d’amore caduta in una pozzanghera; è bagnata e sporca, probabilmente è stata calpestata più e più volte, ma ciò nonostante continua a conservare ogni singola parola, permea di significato.
Appena arrivato in stazione, forse non te ne accorgi ma, come quel signore grasso con il berretto da pescatore, i calzini bianchi portati con i sandali e la macchinetta fotografica in mano, anche tu ti muovi a passo spedito verso l’uscita. Ormai l’hai vista da lontano, ormai sai cosa aspettarti e non ti resta che buttarti in questa nuova avventura. Ormai, ormai.
Ormai ti sei sbagliato, perché quella piccola luce negli occhi che avevi giusto pochi secondi fa, ora sembra essersi illuminata di una forza nuova, come il riflesso del sole su di uno specchio. Non te l’aspettavi un accoglienza simile; pochi gradini, un piccolo piazzale, ed il Canal Grande, che senza sosta porta con sé imbarcazioni di ogni misura e materiale. Barche, barchette, palazzi e ponti. Venezia è monumentale. Ma leggera. Sembra finta, fatta di niente, ed ogni palazzo è esattamente com’eri abituato a vederlo sulle cartoline, incredibilmente bello ed elaborato, elegantissimo ma talmente leggero da farlo sembrare di carta. Ti chiedi come sia possibile che tutti questi palazzi, queste chiese enormi, siano sorretti da semplici pali di legno conficcati nel fondo della laguna. Beh, sinceramente non me lo sono mai spiegato nemmeno io.
L’esperienza Veneziana è un esperienza sensoriale a trecentosessanta gradi. Ogni casa, ogni singola via, ogni dettaglio ti fa tornare indietro nel tempo, a quando la Serenissima era una potenza economica mondiale, mossa sotto la guida del doge che comandava su tutti, ed immensa. Venezia un tempo era chiamata la regina dell’Adriatico, e tutt’ora ne conserva il ricordo, bagnato dalla forza erosiva dall’acqua salata. Lo sfarzo dei palazzi ti cattura, poiché ormai è difficile vedere qualcosa di simile al mondo. Un intreccio perfetto di arte bizantina ed occidentale, patinata da un eleganza fuori dal comune, d’un lusso miracoloso.
All’esterno della stazione, il palazzo che ci accoglie dalla parte opposta del canale è la chiesa di San Simeon Piccolo, una chiesa senza alcuna storia da raccontare, senza nulla di affascinante se non il suo aspetto, tondeggiante e bombato, in mezzo ai palazzi più rigidi e bassetti che la affiancano, che la fanno sembrare più imponente di quello che è; una piccola bomboniera bianca e cicciotta, con un cappello di rame verde. Un cupcake gigante al kiwi sulla riva di un canale.
Affrettando subito il passo verso il primo ponte, ti accorgi di un dettaglio nuovo: c’è qualcosa di diverso in questo posto, una sensazione di beatitudine, come se i tuoi stessi passi e non soltanto i palazzi, abbiano perso lo stesso peso di sempre. È l’ acqua che ti sorregge a farti sentire diverso. L’acqua che ti passa sotto ai piedi senza che te ne accorga. Quella che sorregge l’intera città.
Cosi, mentre io ed il lettore parliamo della storia della Magnifica, tu ti affretti fin da subito, leggero: scavalchi ponti, giri nelle calli più strette e ti lasci guidare dai tuoi passi scombinati. Solo ogni tanto ti soffermi qualche secondo nel tentativo di intravedere un gesto di vita comune tra le finestre delle case che danno sui canali. Una cosa incredibile di Venezia sono le finestre e le porte delle case che danno direttamente sull’acqua; e non si parla di porte con la vista sul canale, ma di entrate che ne sfiorano di un metro appena l’increspatura.
Noi ti seguiamo svelti, ma tu ti muovi in modo troppo frenetico attraverso le calli, perché ti hanno consigliato di non seguire un percorso preciso. Giri a destra poi a sinistra, sinistra ancora, e ancora a destra. Calli larghe, strette, strettissime, talmente tanto strette da far fatica a passarci con lo zaino. Che strana questa Venezia. È come un immenso labirinto senza inizio ne fine, dove i palazzi hanno spigoli affilati e ad ogni curva non sai cosa aspettarti. Cosi continui: destra, sinistra, destra e avanti dritto sempre più veloce, perché quella è la strada giusta da percorrere, senza segnali o indicazioni. Ponti grandi, piccoli, minuscoli, immensi. Di marmo, di legno, di ferro e di pietra. Porte, cancelli finestre, portoni. Destra sinistra destra sinistra, troppo veloce. Piazze, piazzette, parchi e parchetti. Troppo alla cieca. Giù la testa, su le gambe. Sinistra, destra, sinistra destra. Hai sbagliato strada ma tu prosegui. Finestre, finestroni , archi e loggiati. Devi guardare dove cammini. Muri e muretti, scalini e altri ponti. No, niente ponti, niente muretti. Tu non guardi dove cammini. Niente ponti, niente muretti. Occhio alla strada. Niente ponti, niente muretti. Occhio alla strada. Lì non puoi andare da nessuna parte, fermati. Fermati.
Ci sono alcune cose da ricordare quando si cammina per le strade di Venezia, ed una tra queste è la toponomastica. Oltre ai canali dove possono navigare solo le imbarcazioni, il modo migliore per muoversi è quello di attraversare la città in lungo e in largo passando per le calli, ossia le vie di Venezia. Esistono più di 3000 calli, una collegata all’altra. Esistono calli che conducono ad altre calli, che a loro volta conducono ad altre calli ancora che a loro volta conducono ai rami. Eccolo l’inghippo in cui sei caduto tu, mio giovane viaggiatore solitario. Tu hai girato a destra e a sinistra senza mai leggere dove stessi andando, fino ad entrare, appunto, in un ramo. Il ramo non è altro che una calle come tutte le altre, che non sai mai se continuino a destra o a sinistra, con la sola differenza che questa non finisce ne a destra e ne a sinistra, ma direttamente nel canale.
Ma non preoccuparti, non sei il primo a rischiare di finire con il culo nell’acqua, anzi, ci sono un’infinità di turisti che si avvicinano al bordo per scattare una foto indimenticabile, senza accorgersi che stanno per mettere i piedi in fallo sulle alghe scivolose. Di indimenticabile poi resta solo il sapore rivoltante dell’acqua lagunare, mista a pesce, olio di motori e urina.
***
Ora, senza sapere come ci sei arrivato, perché bombardato da bellezze ad ogni angolo e perchè leggermente scioccato dallo sventato scivolone, ti trovi in Dorsoduro, nel sestiere di Dorsoduro appunto. Hai ripreso un passo normale. E come te anche io ed il lettore possiamo rallentare un po’.
Davanti a te ora la strada continua grazie ad un ponte in marmo bianco che sembra uscito improvvisamente da un cartone animato della Disney. Uno di quei ponti attraversati dalle principesse prima di arrivare al gran ballo, per intenderci. Ma poco prima del ponte, tu non lo sai, ma hai appena superato Ca’ Dolfin, una delle tante succursali dell’università Ca’ Foscari. Che mi importa ti chiederai? Beh, se tu avessi avuto la prontezza di entrarci spacciandoti come studente – e forse lo sei – avresti scoperto un piccolo gioiello nascosto. Avresti potuto attraversare il giardino interno dove i ragazzi ripassano prima dell’esame, saresti entrato attraverso le porte di vetro, e senza dare nell’occhio avresti percorso le scale per arrivare al primo piano. Una volta su, avresti dovuto cercare il cartello con su scritto: “aula magna”. Magna, non maghna, magna, con il gn. Vabbè. Il punto è che, una volta attraversate le porte ed entrato nell’aula, saresti stato uno dei pochi turisti ad avere il privilegio di assistere alla magistrale bellezza dell’aula Silvio Trentin, un posto incredibilmente bello, cosi bello da far sembrare quel ponte in marmo un giocattolino di plastica. È un enorme sala cinquecentesca, decorata da affreschi di scuola tiepolesca , impreziosita da enormi specchi incorniciati d’oro, e dal cui soffitto scendono leggeri due enormi lampadari creati dai maestri vetrai di Murano. Uno spettacolo, questo, degno dei balli più sfarzosi.
Inoltre, data la tua voglia di avventura e di libertà, oltre all’aula, hai perso anche l’occasione di conoscere Giulia, una studentessa di russo che aspetta il suo turno all’interno del cortile. È seduta sulla panca di marmo, da ore, fumando una sigaretta dopo l’altra alla ricerca della forza necessaria per affrontare l’ultimo esame rimasto.
Forse, un po’ di compagnia le avrebbe fatto piacere.
Ma tu prosegui, perché ti piace viverla cosi questa città. Attraversi il ponte, e in pochi minuti ti ritrovi in Campo Santa Margherita, cuore pulsante della vita notturna Veneziana. Lo attraversi e ti infili nella calle più stretta di tutte, per poi ritrovarti davanti ad un altro ponte. Ponti, ponti, è piena di sali e scendi Venezia; ce ne sono 435 per la precisione. Ma questi non sono semplici ponti, perché dietro ad ognuno vi è nascosta una storia. Hanno nomi strani, come: Ponte dei Miracoli, Ponte dei Mori, Ponte dei Muti, Ponte dei Lustraferi, de la Tana, de le Bande, de la Scoazera, ovviamente Ponte del Vin, e per i matematici Ponte Avogadro. Ancora: Ponte de le Oche, Ponte Storto, Ponte de le Do Spade, Ponte de la Donna Onesta, Ponte dei Squartai, Ponte Piccolo, Ponte Longo, e giusto per esagerare, Ponte dei tre ponti.
Quello che hai appena attraversato tu ad esempio, è uno dei tanti ponti fotografati dai turisti, ma che vale la pena raccontare. Si chiama Ponte dei Pugni. Un tempo era il campo di battaglia delle azzuffate gogliardiche, che le due fazioni, dei Castellani e dei Nicoletti, usavano organizzare ogni anno. Solo una regola: scavarsi le nocche sui visi della fazione nemica. Com’è ovvio credere, vinceva la fazione con più uomini in piedi. Non si parla di scontri singoli, anche se il primo incontro era disputato dai due lottatori più forti; ma di vere e proprie risse di gruppo. I più sfortunati ricevevano subito qualche destro per poi finire riversi nel canale, mentre gli altri si accasciavano sputanti sangue sulle rive nemiche, per poi rigettarsi tra la mischia. Era tutto perfettamente legale ed organizzato, questo finché non iniziarono a comparire pugnali ed armi da taglio.
Esiste poi un altro ponte con una storia intrigante che potrebbe attirare la tua attenzione, con una storia ben più semplice di quella dei pugni, ma un nome altrettanto diretto: il Ponte delle Tette, chiamato cosi perché un tempo sul ponte si affacciavano le finestre delle case di tolleranza, dalle quali le prostitute usavano sporgere i loro seni abbondanti alla ricerca di clienti.
Volgendo lo sguardo a sinistra ti accorgi di quanti visitatori siano intenti a scattare foto e a seguire, in un filone continuo, le indicazioni stradali che portano alle mete turistiche più gettonate. Le indicazioni hanno inizio alla stazione e fine in Piazza San Marco. Pochi rami in cui inciampare e tanti negozi dove svuotare il portafogli. Dunque, da bravo esploratore ed avventuriero quale sei, decidi di muoverti verso destra, costeggiando il canale per poi perderti ancora una volta tra le calli senza segnaletiche e senza tranelli per turisti. E come te anche Davide, il bambino che hai appena incrociato. Davide ha dieci anni ed un innata passione per la fotografia. I suoi genitori non sono molto convinti delle sue capacità e del suo gusto estetico, ma a Davide importa poco, ed infatti si muove solitario, a cinque metri di distanza dai genitori e con l’occhio ben premuto sul mirino della Canon Eos 80. Con la faccia contratta in una smorfia di pura concentrazione, il piccolo Davide si piega sulle ginocchia e scatta. Fa due passi indietro e scatta. Si rigira verso i genitori e scatta. La macchina fotografica è così grande in confronto al suo viso, da coprirlo interamente e far credere che non sia tanto Davide stesso a scegliere cosa fotografare, ma bensì la fotocamera, che con il suo peso abbondante fa barcollare il piccolo fotografo, prima in una direzione, poi nell’altra, così da fargli realizzare delle foto incredibili: Uno scatto al canale, uno ai ponti, uno ai piedi .
Ti starai chiedendo perché ti racconti questi dettagli sulle persone che incroci lungo la strada, di Davide ora come di Giulia prima. Beh, perché in questa città tante volte si ha l’impressione di essere incastrati in un labirinto pieno di gente sparsa ovunque, o ancor meglio in una gigantesca scenografia di un film, dove noi tutti siamo gli attori, ognuno con un proprio ruolo, destinati ad incrociarci, senza preavviso, in quell’ esatto bivio, in quel esatto momento. Come in tutte le città del mondo dopotutto. Ma qua è diverso, le strade sono diverse, non c’è orizzonte, se non quello del mare, che si vede solo quando ci si trova ai limiti esterni della città. Una volta dentro le vie, vieni intrappolato, perché per riuscire a raggiungere le varie destinazioni hai due modi a disposizione: camminare o prendere il vaporetto. E a lungo andare, camminando e camminando, circondato da case, inizi a sentire il masso claustrofobico dello smarrimento. Non sai mai dove ti trovi, anche seguendo le indicazioni, ogni cosa che ti circonda è diversa ed uguale al tempo stesso. E tutti, tranne i veneziani che si spostano con estrema facilità, finiscono per incrociarsi guardandosi con aria smarrita in segno di soccorso, per poi finire, come te, a lasciarsi guidare dalle gambe, senza usare la testa.
***
Il tuo vagabondare distratto e confuso ti ha fatto passare indifferente davanti a decine di luoghi magici che non conosci e che non conoscerai mai. Uno tra questi l’hai passato giusto qualche metro fa. Forse è anche colpa della stanchezza, ma nel cercare disperatamente la via maestra, ti sei appena fermato a grattarti la testa sotto ad un insegna particolarmente importante, quella della Locanda Montin: un luogo anonimo visto da fuori , ma magico all’interno. La locanda non è da considerarsi un albergo o un ristorante, ma un luogo di accoglienza per animi sensibili. Un tempo, Gabriele D’Annunzio scrisse. “….Cerca su la Fondamenta dietro l’Accademia il giardino di Montin ornato di pregole..”
D’Annunzio è solo uno dei tanti ad aver cenato o soggiornato da Montin, dove si mangia tutti assieme, immersi nella natura e distanti dal resto del mondo; dove le camere hanno conservato la stessa semplicità di quando ci dormiva Modigliani. Immaginati ora di tornare indietro nel tempo e di andare in uno di quei posti pieni di quadri alle pareti, dipinti da gli stessi artisti che popolavano le sale. In quei ritrovi dove una tazza di caffè non veniva negata a nessuno. Uno di quei posti che gli artisti avrebbero chiamato casa. L’aria che si respira da Montin è esattamente questa, quella d’un luogo famigliare, tanto che, a quei visitatori a cui viene assegnata la camera con il balcone ornato di fiori, alla consegna delle chiavi della stanza viene ricordato l’obbligo morale di annaffiare i gerani. Un posto magico appunto, che ha visto persone di ogni tipo, come: Ezra Pound, Felice Carena, Guido Cadorin, Virgilio Guidi, Bruno Saetti, Uto Ughi, Luigi Nono, Robert De Niro e perché no? David Bowie.
Ma a te non importa niente. Non importa niente di niente a quanto pare. “Io voglio il vino” starai pensando, perché ti muovi guardandoti attorno come un criceto in una gabbia alla ricerca del contenitore dell’acqua. Ma anche in questo caso Venezia ti viene in soccorso come una madre pronta ad allattare la tua fame di vino. Qua siamo in Veneto non dimenticare, la patria delle osterie.
Per il vino, a Venezia esistono centinaia di posti bellissimi frequentati da veneziani e non, i bacaretti: piccoli bar che potremmo categorizzare come un perfetto incrocio tra osteria, ristorante, e negozio di vino sfuso, ma senza essere nulla di tutto ciò. Spiegati con semplicità, potremmo dire che: sono dei baretti sgangherati che servono vino ad un euro e stuzzichini vari, sempre ad un euro; in poche parole, il paradiso. Nei bacari ci vanno tutti, dall’artista, all’ubriacone, ai turisti, alle madri con i figli. Non esiste una categoria di persone; i bacari sono fatti dal popolo per il popolo. Puoi andarci da solo o in compagnia, ma stai certo che ne uscirai una persona migliore. E probabilmente una persona piena di nuovi amici dalle guance arrossate.
Mentre io ed il lettore restiamo affascinati dalla semplicità con cui le gondole passano sulla pesante ombra dei ponti che si riflette sull’acqua, tu ti affretti ad entrare nel primo di questi posti magnifici, sfoggiando un perfetto:“Buon ghiorno. Vorrei una omberetta. Ombretta. Grazi” ed eccoti servito un bicchierino ricolmo, fino all’orlo, di vino rosso. “Un euro” ti dice l’oste. “Allora” facendo segno con le mani, dici: “ due omretta grazi”. “Eco toso. Vuto anca un panin?” “No graci” “E aora, bivi tanto rosso che fa sangue e dopo te ghe le energie mejo de un toro. Cin a tutti. Vanti.” Ed un coro risponde “Saute”.
Ti scoli i due bicchieri di vino come se fossero degli shottini e ne ordini altri due. E poi altri due. E altri due ancora.
Anche io ed il lettore ci stiamo gustando un buon bicchiere di vino mangiando un crostino con il baccalà, dei calamari fritti ed un panino al prosciutto crudo. Ma tu non ci dai tregua.
Con lo spirito alleggerito dal vino e dal clima rilassato del bacaro, decidi di cambiare prospettiva e di vivere la vacanza come se fossi un vero Veneziano. Hai conosciuto Anna, una cortese signora che si è proposta di darti un passaggio con la propria barchetta, per farti vedere Venezia con gli occhi di chi ci vive, attraverso le vere strade della città. Attraverso i canali.
La barca è un modello abbastanza moderno in confronto a quelle di legno che vanno per la maggiore. Non è una barca grande, altrimenti sarebbe impossibile navigare tra i canali, poiché questi sono come copie rovesciate delle strade, strettissimi e intricati.
La barca pilotata da Anna si muove veloce tra le strade fatte di acqua mentre voi passate silenziosi attraverso i palazzi che costeggiano il canale, e Venezia, la madre, si presenta sotto il suo reale aspetto, immensa come una regina, decaduta che ti impietrisce, lasciandoti senza parole. Lungo i canali incrociate persone che si scambiano urli di riconoscimento da dietro gli angoli ciechi. Appaiono e scompaiono scivolando veloci dentro cancelli e vicoli inattesi. Le imbarcazioni danzano eleganti sull’acqua, e le più leggere tra tutte sono le famose gondole, nere come la pece, che sfilano sinuose senza farsi notare passando sotto i passi dei turisti che cavalcano i ponti. Tra i canali più isolati invece regna un tetro silenzio; incorniciato dai palazzi macchiati ed anneriti dal tempo, segnati dalla forza erosiva dell’acqua salata. Le persone che riempiono i canali sono diverse da quelle che camminano, perlopiù sono uomini e tutti con lo stesso modo di fare. Sono marinai, marinai veri, abituati a muoversi sul riflesso dell’acqua, che si guardano attorno, guardano chi cammina con un’ ingenua aria di superiorità. Sembra quasi che vivano la città ad un livello superiore, quasi volessero dirti: “tu che cammini, guarda me che non ho nulla a fermarmi”. Ed infatti hanno ragione, nulla li ferma. Quando si incrociano si salutano l’uno con l’altro con una strana intesa. Si scambiano sigarette tra un imbarcazione e l’altra, ed innestano battute brucianti alle turiste di passaggio.
Stai vivendo un momento dedicato a pochi, mio ciondolante amico ubriaco. Il sole si sta nascondendo dietro l’orizzonte, velando la città sotto uno strano incanto. I palazzi prima anneriti , ora sembrano aver ripreso il loro colore originale, dipingendosi della stessa luce dorata di cui splendevano centinaia d’anni fa.
Dalla barchetta di Anna si possono vedere le entrate secondarie delle case che emergono dall’acqua e per un attimo ti immagini come potesse essere questa strana città al tempo del dogi. Non esistevano imbarcazioni a motori o grandi barche, quindi gli unici rumori erano quelli dello scorrere dell’acqua e del vociferare generale. Le persone di famiglia nobile uscivano ricoperti da stoffe provenienti dai paesi orientali. Mentre il popolo era vestito con semplici abiti di stoffa. Dev’essere stato un posto magnifico. Anche per quanto riguarda il carnevale, che fu inventato appunto per annullare questa differenza tra i cittadini: per alcuni giorni all’anno, il ricco poteva essere povero ed il povero ricco, le donne uomini e gli uomini donne, tutti potevano essere tutti, o nessuno, al tempo stesso. Nel 1700, momento di apice del benessere e della spensieratezza veneziana, il carnevale era il simbolo della sregolatezza, tanto che in quel periodo, non esistevano regole, e tutti facevano ciò che volevano. Finché non avvenne la caduta della Repubblica di Venezia ed i Francesi decisero che tutto ciò era immorale.
Ma perché parlare del carnevale quando tu sei in barca? Perché, in un certo senso, il carnevale è Venezia, qualcosa di magico e fuori controllo. Qualcosa che c’è, ma non esiste. Un po’ come le tre porte di cui parlava Hugo Pratt.
Hugo Pratt, grande conoscitore di Venezia, il quale usava camminare sui tetti delle Serenissima ad osservare i canali dall’alto, scrisse: “Ci sono a Venezia tre luoghi magici e nascosti. Uno in Calle dell’Amor degli amici, un secondo vicino al Ponte delle Maravegie, il terzo in Calle dei Marrani, nei pressi di San Geremia in Ghetto vecchio. Quando i Veneziani sono stanchi delle autorità costituite, vanno in questi tre luoghi segreti e, aprendo le Porte che stanno nel fondo di quelle Corti, se ne vanno per sempre in posti bellissimi e in altre storie.”
Così chiedi ad Anna di fermarsi. Di farti scendere per vedere cosa c’è di nascosto oltre una di quelle tre porte. Saluti con cortesia e ancora intontito dal vino, da Venezia e dell’immaginazione, ti avvii verso Calle dell’Amor degli Amici, e nel far questo, incroci Chiara e Annalisa che poverette, farfugliano parole a caso stringendo tra le mani la mappa della città; non sanno più dove andare e hanno girato in tondo per più di mezz’ora, senza trovare una via di fuga dal labirinto veneziano. Si sono perse da troppo tempo e annaspano richieste di soccorso nei confronti di chiunque incrocino. Camminano guardandosi attorno sperdute e, sempre sperdute, spariscono dietro l’angolo.
Tu invece sai perfettamente dove sei, sei in Calle de’Amor degli Amici, e di fianco a te c’è un’altra ragazza. Oggi è il tuo giorno fortunato dato che incroci soprattutto ragazze e soprattutto giovani come te. Anche se Silvia non la pensa cosi: se ne sta appoggiata al muro, sconsolata, e sta spiegando ad Enrico, il suo ragazzo, di quanto in questo periodo si senta vecchia, e che, a rincarare la dose, racconta di come una settimana fa’ un ragazzino, che l’è passato vicino in bicicletta, le abbia dato della vecchia. Non del lei, ma della vecchia.
Ma a te non interessa perché non capisci una parola di quello che si stanno dicendo i due ragazzi. Tu stai cercando quella porta che conduce in mondi magnifici. Così te li lasci alle spalle per immergerti lungo la calle, ma bastano solo pochi metri prima di renderti conto che i due innamorati, il giovane e la vecchia, erano appoggiati proprio in prossimità di una porta. Ti giri di scatto, come a volerli intrappolare nel tuo sguardo, come se gli avessi colti in flagrante. Ma loro non ci sono più. È rimasta la porta al loro fianco, che provi e riprovi, ma non riesci, ad aprire.
***
Te ne vai. Basta. La tua vacanza è finita. Il buio sta inghiottendo tutto in un’apatia ed una stanchezza sconfinate. Ti fermi a bere in qualche altro bacaro giusto per finire le poche monetine rimaste in tasca, per poi incamminarti lungo le vie principali, seguendo come tutti i segnali che indicano la strada che porta alla ferrovia. Da queste parti è pieno di gente che mangia nei ristoranti creati apposta per i turisti, ed è un continuo susseguirsi di enormi negozi di famose catene di vestiti. La gente sorride e si scatta foto, tutti negli stessi posti. I cartelli indicano cosa si può o non si può fare, dove si può o non si può andare. Sembra incredibile. Un’altra città.
Descrivere una città cosi affascinante è un impresa che rasenta l’impossibile. Quindi mi scuso con il lettore, per aver voluto fallire in questa magnifica impresa.
Io capisco che purtroppo, sono molte le persone che non avranno mai la fortuna di visitare Venezia; anche se Venezia, in realtà, non si visita. Sarebbe come dire che per fare l’amore bastino due corpi messi assieme. No, Venezia è una città che si vive appieno, che non ti lascia scampo e ti fa innamorare al primo incontro. È dunque quella sensazione fantastica di smarrimento di quando si fa l’amore con la persona che si ama, di torpore e piacevole vertigine nel condividere un momento di unione. Quindi non preoccupatevi se non avrete mai la fortuna di passeggiare lungo le calli della città galleggiante, perché dopotutto, quando fate l’amore, insomma, voi non lo sapete, ma siete a Venezia.
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Foto copertina: © Riccardo Zamunaro
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