Non ho ricordi di mia madre felice, nemmeno un attimo. Certo è strano. Ci sarà pure stato un momento in cui quella donna dai lunghi capelli ricci, lo sguardo sempre perso in un oceano di abbandono, avrà sorriso. Eppure, io non l’ho mai visto. Ci sono delle foto, ad essere onesti fino in fondo, nelle quali ogni tanto posso scorgere un ricordo vago della felicità balenare fra le espressioni tristi di mia madre.
Sono foto antiche, di lei su una scalinata con mio padre, quand’erano ragazzi, oppure in una villa della mia città, mentre ci abbraccia, a me e a mio fratello, lui bello tondo e biondo, io in un cappotto rosso: siamo contenti.
Mi chiedo spesso come sarebbe stato crescere con una madre simile a quella che avevano tutti gli altri. Niente di straordinario. Che effetto mi avrebbe fatto essere bambina, adolescente, e chiamare mamma una donna a cui ogni tanto puoi chiedere delle cose, che ti protegge, che ti dà una mano a fare i compiti, che cucina dei piatti buonissimi per te e le puoi leggere la gioia negli occhi mentre tu li mangi. Insomma, crescere con una persona accanto che, lo senti, in qualche modo, è presente.
Non me lo domando con rancore, ma con il delicato desiderio di sapere se la mia esistenza psicologica, nel tempo, si sarebbe sviluppata in maniera un po’ meno complicata. È una cosa che, quand’ero piccola, non ho mai nemmeno immaginato, una madre diversa da quella che avevo, dico. Per me lei era quella signora sempre seduta sul divano a guardare la televisione, piena di energia, sì, ma solo per litigare con mio padre e per dire che “la gente” le aveva fatto qualcosa di male e quindi non l’avremmo vista mai più, la gente. E infatti siamo stati sempre soli, noi. Durante le feste di Natale, durante le feste di Pasqua, durante le vacanze. Era rarissimo che con i miei genitori andassimo a trovare degli amici, o che ci venissero a trovare loro, e pure quando succedeva durava poco, che mia madre tanto prima o poi ci litigava perché “fanno tutti schifo”. La famiglia di mio padre, soprattutto. Tantissimi zii e un oceano di cugini. E chi li ha mai visti? Persone cattive, diceva mia madre. Poi ogni tanto, quando ero proprio piccola, diceva, “mi faccio le valigie e non mi vedi mai più”.
Una delle istantanee classiche nella mia memoria mi vede seduta con mio fratello in macchina, di sabato, mentre andiamo a mangiare la pizza in un ristorante vicino all’aeroporto, sempre lo stesso, e mia madre litiga con mio padre. Che poi nemmeno litigano. Mia madre dice delle cose e mio padre sta zitto e guida. Arriviamo e ceniamo in silenzio, sembra che pure i camerieri abbiano paura di venire a prendere le ordinazioni.
Sarà per questo che quando i miei genitori si sono separati io ero felice. Mio fratello no. Ma io invece sì. Non ne potevo più di dormire nel letto matrimoniale mentre mia madre occupava il mio, giorno e notte. Quante volte la pregavo di andarsene dalla mia stanza, di mettersi a dormire nel suo letto. Ma non c’era niente da fare. Che tremenda assurdità, essere felici, a 13 anni, mentre tua madre e tuo padre si stanno lasciando. Provate a voi a crescere soli, circondati da persone.
Non ho mai fatto a mia madre una colpa per tutto ciò che non è, per tutto ciò che non è mai stata. Io l’ho sempre saputo che non era volontaria, la sua assenza. Magari quand’ero più piccola non lo riuscivo a concettualizzare come riesco invece a fare adesso, ma comunque, anche allora, c’è sempre stato dentro di me quest’affetto compassionevole, questo “dobbiamo aiutare la mamma”, che non se ne è mai andato e che è rimasto, fino ad oggi, soprattutto oggi, il collante robustissimo della nostra relazione. Dobbiamo aiutare la mamma. Perché la mamma sta male, perché la mamma piange, perché la mamma non ce la fa.
E così, quasi senza che ce ne si accorgesse, sono cresciuta in questo meccanismo per il quale, qualunque sia la necessità emotiva di cui potrei avere bisogno, meglio la tenga per me, perché c’è qualcuno che sta peggio e tutte le energie bisogna convogliarle lì, sul fare stare meglio la mamma. In questo modo è successa una cosa che adesso percepisco come inevitabile: mi sono dimenticata di come stavo io. La mia personalità emotiva si è caricata di silenzio e non riesco, nemmeno ora che sono grande, a dire, “sto male”. Anzi, proclamo spesso l’esatto contrario, una delle mie frasi classiche è “io non sto mai male”, il che è evidentemente un’impossibilità emotiva. Si attiva una specie di dispositivo automatico, ti succede qualcosa e lo metti di lato. Poi, a un certo punto, si accumula, lo butti fuori tutto insieme compiendo un’azione repentina, di solito straordinariamente stupida. E poi ricominci.
Quanto ho sperato che mia madre fosse felice. Ci spero ancora oggi. Quante volte gliel’ho detto, alla mamma, che per un attimo almeno sarebbe così bello vederla ridere di cuore, senza quegli angoli della bocca incastrati, senza lo sguardo terrorizzato di chi sta rimuginando chissà dentro quale oscurità.
Non mi ha mai fatto domande sulla mia vita, mia madre, mai. Non ha mai saputo quale fosse il mio cantante preferito da ragazzina (Liam Gallagher), in che ruolo giocassi a pallavolo (palleggiatrice), quale fosse il mio piatto preferito (il riso con il pomodoro), il ragazzo della scuola per il quale mi ero presa una cotta tremenda (Giovanni Sapri, com’era bello con i suoi jeans neri stretti e la maglietta della O’neill). Non sapeva quali esami stessi facendo all’università, quanto costasse l’affitto della mia stanza, dove si trovasse esattamente questa Macerata dove mi ero trasferita.
Sono tornata a casa, dopo un lungo viaggio di lavoro negli Emirati Arabi, il mese scorso.
Da tempo non rientravo. Perché è sempre così doloroso (e non dovrebbe) ritornare fra quelle mura che puzzano di Multifilter, vino in cartone, sale grosso. E dei vestiti troppo grandi che compravamo al mercato quando ero ragazzina. Mia madre stava lì, sulla poltrona, mentre guardava su Rai Movie un film con Nino D’Angelo, e piangeva. Piangeva. Piange sempre, mia madre. Il volto sfatto, la pancia e gli occhi gonfi, i denti macchiati dalle pessime abitudini e i capelli distrutti, quasi colore dell’arancia ma sfumati di bianco, in bilico fra le croste lasciate dalle bruciature di una tintura rosso fuoco cui non riesce a rinunciare. Perché lei ha i capelli rossi, dice, “naturali”, e fa niente se è vero solo per lei.
Preparo un’insalata, per la cena. La chiamo a tavola e mi guarda dritto negli occhi. Mi dice “grazie” e poi comincia a mangiare. Stiamo così, come sempre, una di fronte all’altra, per quindici minuti, senza dirci una parola. Una volta mi faceva stare male, questa cosa del non ricevere domande. Io penso sempre che di mia figlia vorrò sapere tutto, ogni particolare, dalle dimensioni della sua stanza alla persona che le se si è seduta accanto sull’aereo. Mia madre, invece, non ha mai saputo niente.
Lei finisce prima di me. Resta seduta, immobile, a fissare il vuoto, mentre io ingoio l’ultimo pezzo di pane. Poi ci alziamo per sparecchiare, sempre in silenzio.
L’altro giorno ho scritto a mio fratello. Gli ho detto che avrei preferito se nostra madre, invece che la depressione, avesse avuto il cancro, la sclerosi multipla, una cosa brutta ma con delle regole. Mi sono subito sentita male, dopo avergli mandato il messaggio.
Io voglio bene a mia madre. Darei qualsiasi cosa per vederla, anche per un giorno soltanto, felice. E mi fa così male tornare a “casa”, eppure non ne posso fare a meno.
Solo che non è facile, diventare grandi, mentre tua madre è depressa.
Mariella Montanari è nata in un paesino della Svizzera Pesciatina. Ama lo zucchero filato, l’odore della crema solare, pranzare alle 4 di pomeriggio e Banana Yoshimoto.
Vive a Parigi, dove lavora per il cattivissimo mondo della finanza internazionale.
Quando sarà finalmente diventata grande le piacerebbe trasformarsi in un cane Akita.
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