Questa storia inizia come iniziano tante altre storie che vale la pena di raccontare, ovvero di notte e da un’idea alquanto strampalata. La notte era una fonda di giugno, l’idea era quella di comprare un camper per girare il mondo.
Per fortuna quella notte non abbiamo dormito, così il senno non ha potuto esercitare la sua noiosa arte di riportare la mente alla ragione, e noi non ci siamo ravveduti.
Un mese più tardi il mio coinquilino ed io abbiamo comprato un vecchio camper del 1989, lo stesso giorno abbiamo dato notizia al lavoro. Un altro mese è servito per i controlli, le riparazioni, l’immatricolazione. Siamo partiti da Berlino il 24 agosto con un’idea ridimensionata: scendere la costa dei Balcani, poi prendere un traghetto e ritornare in Germania percorrendo l’Italia da sud a nord, con un tempo a disposizione di tre mesi.
Questo è il mio diario di viaggio, un po’ rivisitato per chi legge. Non aspettatevi quindi una guida. Aspettatevi degli squarci di vita quotidiana, e qualche balzana riflessione sul mondo.
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12.10.2019 Tirana
Me li ricordo gli albanesi negli occhi dei grandi, quando ero una bambina. Erano quelli da cui bisognava stare lontani, quelli cattivi che avevano i coltelli, che ti rubavano le cose e che ti portavano via, se uscivi con il buio.
Nei miei occhi, invece, me li ricordo d’autunno, quando arrivavano a fiumi a prestare le braccia per raccogliere le mele. La sera facevano rumore nelle strade del paese, che altrimenti erano morte e silenziose come l’oltretomba, specchiavano le loro facce scure nei fondi di bottiglia e sorridevano storti e sbronzi, con una mancanza di controllo che creava sdegno, perché da noi è buon costume bere solo in segreto, chiusi fra le quattro mura. Gli albanesi cantavano la notte in piazza, smuovevano le fondamenta di quel posto stanco, facevano imbestialire i contadini seri e il loro Dio Lavoro e io li guardavo con un misto di paura, incomprensione ed eccitamento. Forse proprio osservando loro ho iniziato ad anelare a mondi che non conosco.
L’Albania risveglia vecchi ricordi che mi mettono la voglia di imparare finalmente qualcosa su questa terra gemella, separata da un centinaio di chilometri di mare, di cui mi resta solo un sapere pallido, riflesso di vecchi telegiornali e di un sentito dire fazioso.
I primi tre giorni campeggiamo sul Lago di Scutari, il lago più grande dei Balcani, che è e un prodigio di biodiversità. Cinquanta specie di pesci vivono nelle sue acque, 18 delle quali non si trovano in nessun’altra parte al mondo, sono più di cinquanta le specie di lumache di acqua dolce e circa 270 le specie di uccelli, che fanno del lago una delle più grandi riserve ornitologiche del continente e un paradiso del birdwatching.
Ma è nelle città costiere che è più evidente come il rapporto tra Albania ed Italia, tra albanesi ed italiani, sia stretto, complicato e filamentoso, composto di elementi politici ed emotivi che vanno indietro nel tempo. Ho la sensazione di un popolo che tende la mano all’Italia come un ragazzino farebbe con un adulto, c’è una sorta di ammirazione ed emulazione nei comportamenti e negli atteggiamenti degli albanesi che altrove non ho mai visto. Mi vergogno un poco a dire che, in alcuni momenti, ho provato una leggera forma di orgoglio patriottico. E che mi caschino le dita ora che l’ho scritto.
I prodotti nei supermercati sono italiani, nei cantieri si leggono quasi esclusivamente nomi di imprese di costruzione italiane, se accendi la televisione vedi la Rai, il che spiega almeno in parte perché tanti albanesi parlino italiano.
Le relazioni politiche ed economiche tra Italia e Albania iniziarono nei primi del Novecento, con il supporto da parte del Regno d’Italia alla dichiarazione d’indipendenza dell’Albania dall’Impero Ottomano.
L’Albania fu poi protettorato italiano due volte: durante la Prima guerra mondiale e, successivamente, durante la monarchia di Zog I, dal 1928 al 1939. In questo periodo l’italiano cominciò ad essere insegnato nelle scuole come seconda lingua e l’economia albanese divenne dipendente dai prestiti e dagli aiuti economici italiani.
Il 7 aprile 1939, le truppe fasciste invasero l’Albania, Zog I fu costretto all’esilio e il paese fu annesso all’impero italiano. Dopo la fine della guerra, le relazioni fra Italia e Albania si interruppero, per ricominciare dopo la caduta del regime comunista. Ricordiamo tutti gli anni Novanta, le emigrazioni, il razzismo. Dal marzo 1997, l’Italia ha cercato di rallentare i flussi migratori, fornendo supporto per la ripresa dell’economia albanese, ed è così che l’Albania, da luogo di emigrazione, si è lentamente trasformata in una meta imprenditoriale e in un paradiso fiscale per gli italiani. Se lo vogliamo tradurre, si è trasformata in un regno di abusivismo edilizio.
È sera, siamo appena arrivati a Tirana, in un parcheggio del centro. Siamo stati fermi per quasi un’ora ai bordi della città perché una manifestazione bloccava la strada. Eravamo in prima fila, sono volati sassi, i padri hanno trascinato i bambini fuori dalle auto da qualche parte al sicuro, noi ci siamo nascosti nel retro del camper e, per qualche istante, abbiamo avuto paura. La manifestazione era una protesta contro il governo, l’ultima di una serie: l’opposizione accusa di corruzione il primo ministro Edi Rama, leader del partito socialista, che nel 2017 ha vinto le lezioni con un’affluenza alle urne del 47%, un minimo storico. Il PS di Rama ha raggiunto il 48%, garantendosi la maggioranza per governare, mentre il PD di Basha si è fermato al 28%, il risultato più basso di sempre. La violenza del PD deriva da questa impotenza, l’estetica dell’aggressività ha come obiettivo quello di delegittimare il governo agli occhi dell’opinione pubblica e di recare danno all’immagine internazionale del paese.
Leo è ancora un po’ scosso, prende una birra dal frigo e siede vicino a me. Restiamo così, a guardare fuori dal finestrino, senza parlare.
15.10.2019 Durres
Non sarei mai venuta a Durres, non fosse stato per l’hotel. Un hotel a 5 stelle, un “boutique” hotel, per la precisione. È decisamene opulento, con le rifiniture dorate, gli arazzi di velluto, i giardini pendenti. Perfino il cesso in camera è laccato d’oro. Incredibilmente, merito un bizzarro miracolo armonico, riesce a non mettere il piede nel cattivo gusto.
Non sarei mai venuta a Durres perché non è una città che mi piace. Troppe palme stile Riccione, troppo cemento, la passeggiata sul lungomare è bloccata dai cantieri, il mare in sé e per sé non è il migliore che l’Albania possa offrire.
Però ad inizio viaggio ci siamo promessi dei giorni di vizio. Il fatto è che in Albania alcuni hotel a 5 stelle costano una cinquantina di euro a notte, praticamente quello che pagheresti in Italia per un albergo in tangenziale, quindi abbiamo deciso di concederci un po’ di lusso relativamente a buon mercato.
Non che abbia visto molto di Durres, in ogni caso. Siamo stati tre giorni in camera, scendendo solo per fare colazione e comprare vino. Io avrò fatto una ventina di docce, mi sono sistemata le sopracciglia, i peli, ho fatto la tinta, messo chili di crema, ogni cinque minuti annusato le lenzuola fresche di bucato, cose di cui si può apprezzare così intensamente il valore solo dopo due mesi di vita in un camper.
Ieri sera la ragazza alla reception ci ha invitati alla festa di inaugurazione del ristorante. “Un invito esclusivo”, ha detto. Io mi sono presentata alla porta con dei pantaloncini corti verdi sbiaditi del Primark e una canottiera con una stampa della giungla, sembravo pronta per un safari, Leo era in braghe del pigiama e flip flop. Non ci hanno lasciati entrare. Allora ci siamo cambiati con cose meno indecenti, io ho sopperito alla mancanza di vestiti eleganti con tanto tanto trucco, Leo ha convinto la receptionist a cedere sulle flip flop perché le uniche altre calzature che possiede sono delle imbarazzanti scarpe di ginnastica azzurrine comprate da Aldi, che ha il divieto di indossare.
Gli invitati alla festa erano per lo più ragazze e ragazzi tra i venti e i trent’anni foderati di Gucci, Prada e diamanti, a loro agio davanti ai flash dei fotografi. In Albania ci dev’essere una classe appena nata di giovanissimi imprenditori, probabilmente arricchitisi con il nuovo turismo e il boom immobiliare. L’Albania, sembra, in fondo, un paese in ripresa che offre delle opportunità, soprattutto se paragonata al vicino Montenegro. Ma queste sono solo mie teorie, quelle che sono riuscita a farmi prima che la cameriera, zelantissima, mi riempisse il decimo bicchiere di vino, spedendomi in quel luogo dove la ragione ha il divieto di entrare.
17.10.2019 Isola di Sazan
Da qui, in certi giorni particolarmente chiari, si vede la Puglia.
Sull’isola siamo una decina di persone: noi che siamo venuti in barca e i militari. Faccio delle fotografie immaginarie. Il bunker che spunta dalla pineta sembra un grasso insetto morto. Click. Il mare che ha il colore della calendula. Click. Sulla collinetta, a una cinquantina di metri di distanza, tre edifici in rovina, le loro finestre spoglie, il fascino e la repulsione della decadenza. Click.
L’Isola di Sazan è un grande scoglio di 6 km quadrati nel canale d’Otranto. È stata aperta da qualche anno ai turisti dopo decenni di isolamento, quando era una base militare prima italiana, poi sovietica, infine sede delle vedette del regime comunista di Enver Hoxha.
Ha una bellezza ambigua, il paesaggio classico delle acque azzurre cristallo e le spiagge di ciottoli bianchi si proietta su questo sottofondo fatto di abbandono: i resti della base militare, le erbacce che se li mangiano, il senso di solitudine e sconfitta per qualcosa che non è andato secondo i piani.
Poco distante dall’isola si vede la Penisola di Karaburun, anch’essa ex base militare. Là lo spettacolo più particolare lo offre la Grotta di Haxhi Ali, la più grande e profonda dell’intera Albania. Deve il suo nome a un pirata albanese che nel diciassettesimo secolo passava il tempo ad abbordare mercantili turchi, veneziani, napoletani e dalmati. Nella grotta, Haxhi Ali nascondeva la sua flotta.
Cammino fino al bunker più vicino, lo osservo. Per qualche motivo non riesco a toccarlo, forse per rispetto della storia, lui fa parte di una narrazione che non mi appartiene. I bunker in Albania sono circa 750 mila. Il dittatore Enver Hoxha, che governò il Paese per quarant’anni, ne fece costruire uno ogni quattro abitanti per proteggere il suo popolo da un nemico esterno che, alla fine, non avrebbe mai costituito una reale minaccia. Una paranoia forse nata dopo l’occupazione fascista: agli italiani ci vollero cinque giorni per piegare la resistenza albanese, e questo non doveva ripetersi mai più. La bunkerizzazione dell’Albania è un simbolo della follia della dittatura, che nasce e si evolve con le caratteristiche proprie di una malattia mentale. Enver Hoxha amava il suo popolo e voleva difenderlo, ma finì per fargli del male, drenando le risorse di un Paese già provato dalla miseria e dall’arretratezza economica.
21.10.2019 Ksamil
Lei è prona, il busto semi sollevato per vedere meglio il cellulare, ha il costume slacciato e lo tiene aderente al corpo sul davanti con gli avambracci per non scoprire i seni. Scrolla leggermente un piede, granelli di sabbia bianchissima si sollevano nel vento e brillano al sole. Lui è seduto sulla sdraio, sporto in avanti, guarda verso il mare. C’è un tipo in motoscafo, forse sta guardando lui e sta considerando di affittarne uno, o forse guarda la piccola isola di fronte alla spiaggia e pensa di andarci a nuoto, in fondo saranno dieci minuti di nuotata, si dice, e io non sono poi così fuori forma. Forse ho indovinato, perché adesso ha abbassato lo sguardo, si osserva la pancia, con una mano si strizza la ciccia di troppo, poi guarda il culo della sua ragazza. Non eravamo così all’inizio, si dice.
22.10.2019 Ksamil
Oggi ho 34 anni.
Ksamil è la punta meridionale dell’Albania, un grappolo di calette con sabbia fine e bianca, l’acqua pulitissima, i pesci che ti mordicchiano le gambe se stai fermo in mare troppo a lungo.
Oggi ho 34 anni e, a forza di pensare al tempo, il tempo si è fatto circolare. Penso a quanti sono i compleanni che ormai ho passato lontano da casa, penso al futuro e a quanti stili di vita alternativi questo viaggio mi ha permesso di conoscere, penso al rientro che si avvicina quando vorrei che invece si allontanasse, penso al presente e alla fortuna di essere qui in questo momento.
Questi che stiamo passando a Ksamil sono i giorni più belli.
01.11.2019 Igoumenitsa, Grecia
I ritmi miei e di Leo si sono adeguati. Io vado a dormire prima e mi alzo prima. Passeggio un poco da sola, faccio ginnastica, bevo un tè. Lui rimane sveglio un paio di ore in più di me, quando viene a letto mi bacia sulla guancia prima di mettersi sotto alle coperte, la mattina si sveglia con calma.
Ci sono tanti silenzi. I silenzi di due persone che si conoscono sempre meglio e sanno stare da sole anche in presenza dell’altro.
Abbiamo imparato a muoverci in modo coordinato. Ogni volta che partiamo, che dobbiamo ricaricare la roba nel camper e controllare che tutto sia chiuso, che niente possa cadere, ogni volta che cuciniamo e poi dobbiamo riordinare, ogni volta che puliamo o cerchiamo qualcosa. I nostri movimenti sono diventati un balletto. Un passo a destra uno a sinistra, allunga il braccio, piega le ginocchia, e ora scambio di posto!
Io ho sempre viaggiato da sola. Ho imparato tanto viaggiando da sola: ad organizzarmi, ad essere indipendente, a tenere duro, a non avere paura di buttarmi, proprio mai, ad essere paziente quando sono stanca e credo di non farcela più, ad avere fiducia nella mia capacità di risollevarmi. Soprattutto ho conosciuto quella parte di me stessa che è un nucleo e resterà sempre al di fuori dello spazio e del tempo, ne ho visto forze e debolezze e l’ho accettata. È questa conoscenza la ricchezza più grande, perché nessuno me la può togliere, e finché mi ricorderò di possederla potrò far fronte a tutto, perché in ogni situazione saprò di poter contare sulla parte più intima di me stessa. Finché conoscerai te stesso, non potrai mai tradire te stesso.
Ma si impara tantissimo anche viaggiando con un’altra persona. È un tipo di conoscenza non egoista, ha a che fare con la disposizione a raggiungere compromessi, con la capacità di condividere gli spazi, di adattare i propri tempi, di accettare e apprezzare il calore dell’altro. La socialità comporta il sacrificio di parti di sé: bisogna smussare gli angoli, accantonare il proprio punto di vista, ogni tanto semplicemente cedere, fare il proprio ego un po’più piccolo e tendere la mano. Per me è difficile. Ho passato anni a fare di me una persona che, per quanto possibile, non dipendesse in nulla dagli altri. Mettere in discussione questo lavoro, rinegoziare una parte del mio senso di identità, mi costa grandissimo sforzo. Sono stata impossibile a giorni, talvolta forse perfino cattiva. Lo sappiamo, è così che si reagisce alla minaccia esterna, presunta o reale che sia: tiriamo fuori le unghie, scalciamo, diamo la colpa dell’incapacità di cambiare al mostro che ci invade, così possiamo restare al sicuro, là dove le nostre certezze non vengono scosse.
Domani prendiamo il traghetto per Ancona. Questo viaggio è finito, ma ogni viaggio mette in moto qualcosa che prosegue dopo la sua conclusione, ed io non vedo l’ora di scoprire cosa c’è ancora da imparare.
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Foto di copertina: © Leo Werner
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