di Mattia Grigolo
Dicembre 2017
Fa freddo. Il gelo dicembrino che arranca sopra e intorno e dentro Berlino per un mese – un mese e mezzo, fino a trasformarsi nel freddo cane di febbraio. Il punto massimo.
Non è più come una volta, però. Quattro anni fa camminavamo attaccandoci ai cancelli e ai pali della luce per non scivolare sui marciapiedi completamente ghiacciati. E cadevamo comunque. I baffi si gelavano all’instante, quando venivano inumiditi dal gesto impulsivo che compie talvolta la lingua umana al pari di quella del rettile.
Comunque fa freddo. Indosso cuffie nuove. Sono avvolgenti e il suono, perfetto e nitido, trapassa la lana del cappello e mi prende per intero.
Non posso sentire i suoni dell’aeroporto, della gente che dice. Ascolto solo quelli che se ne stanno in silenzio, ad aspettare come me oppure ad arrivare per poi andare. Percepisco il loro rumore attraverso gli sguardi. Sono una chitarra elettrica collegata ad un overdrive.
Più di ogni altra cosa percepisco l’attesa, perché questo è un luogo di sospensione. Tutto qui dentro significa pausa. I negozi – pochi nel confronto con il fratello Schöneberg, destinato al rimpiazzo, chissà quando, siamo nel 2017 ormai – sono negozi per chi aspetta. Nessuno prende i mezzi per venire a Tegel a fare acquisti. Entri perché stai aspettando. Bevi una birra perché stai aspettando. Mangi cibo scarso e costosissimo perché stai aspettando. E perché mangiare sull’aereo significa fare un torto all’umanità e all’economia.
Mi viene in mente quel film con Tom Hanks, The Terminal, hai presente? Il tizio atterra a New York e gli negano il visto per entrare negli Stati Uniti perché nel suo Paese immaginario c’è stato un Colpo di Stato.
È un po’ questa cosa, in fondo, però dilatata, stropicciata. E rimescolata, diciamocelo.
Tegel non è un aeroporto normale. Me ne sono accorto la prima volta che ci sono entrato. Ho sorriso e ho detto: “ma che roba è?” Ho scosso un poco la testa, anche.
Solo un altro aeroporto mi ha fatto lo stesso effetto: quello di Brindisi Papola Casale, il terminal salentino, che ho frequentato per diverso tempo. Però in quel caso c’era qualcosa di viscerale che con Tegel non è scattato. E comunque, quello tedesco non ha nulla a che vedere con quello pugliese. Non si assomigliano proprio. Quindi il confronto non regge, o quantomeno regge solo per me.
L’anormalità di Tegel lo rende affascinante, non c’è dubbio. Io l’ho sempre etichettato come l’aeroporto del caos. Se ci fai caso è tutto buttato a caso, con la sua logica, ma senza alcuna logica di base. È come i pezzi di Lego in una scatola: hanno la loro logica, ok? Non può essere altrimenti, si basano sull’incastro e sull’aritmetica. Dentro la scatola ci sono i pezzi per costruire una fattoria, per costruire un camion dei Pompieri. Dallo in mano a un bambino, così, senza dirgli che quelli sono i tasselli per una fattoria e per un camion. Il bambino comporrà dal caos con la sua logica e il suo mondo creativo.
È indubbiamente bello Tegel, diciamocelo. Non può essere altrimenti. È in qualche modo anarchico, l’ho già detto, è storto, no anzi, è obliquo. Ha tutta quella roba diagonale, architettura di cemento e ferro e vetro che si mischia alle centinaia di file di luci al neon. È bello per me, chiaro.
Come è bella mia madre, che ora sbuca dall’uscita arrivi, insieme allo sciame di compagni di viaggio, passeggeri del volo partito da Milano Malpensa.
Non mi trova, ma io trovo lei e mi godo l’attesa del suo sguardo che traballa da un volto all’altro, in attesa del mio. Indossa quel suo cappello di lana con il pon pon in cima. Solida ma morbida in una giacca a vento che la rende marziana nelle forme. È qualcosa che dovresti abbracciare, sicuramente stringere, la mia mamma.
Mi vede e si avvicina, sorride. Chiaro che avrebbe sorriso.
Le bacio una guancia stringendola un poco, non troppo che non è la cosa mia abbracciare.
“Che freddo.” Dice.
Rispondo che non fa più freddo come quando ci siamo trasferiti. Le chiedo com’è andato il volo. Mi dice bene.
“Te lo ricordi quando siamo arrivati con il camper a giugno, nel 2013? Che freddo faceva.”
“Me lo ricordo bene, mamma.”
“Allora, come state? Come sta il mio nipotino?”
“Cresce. Ora vedrai com’è cambiato. Dai, andiamo a casa.”
“Non ci tornate più in Italia adesso, vero?”
“Quest’estate verremo per le vacanze.”
“Intendo che ora state qui. Ora avete un figlio che è nato qui.”
“Non so mamma. Intanto andiamo a casa, che fa freddo.”
Le prendo il trolley.
“Stai attento che ci sono dentro i regali.”
Gli arrivi, le partenze, divisi dalle attese.
di Mauro Mondello
Ricordo che ero in uno sperduto paesino delle montagne ecuadoriane, quando mi arrivò la notizia. Sono quei momenti in cui, qualunque cosa tu decida, sarà sbagliato. E allora, quando succede, meglio provarci e basta, che è bene errare in azione, che rimanendo fermi. Mi ricordo un piccolo autobus colorato fino alla frontiera colombiana e io che dovevo disperatamente fare la pipì e alla fine, durante una sosta per lasciare passare la carovana di auto dell’allora presidente Correa (che in quella mattina aveva programmato una serie di visite fra gli sterrati villaggi ai piedi del vulcano Pichincha), chiesi a una famiglia che viveva proprio lì di fronte di darmi una mano. Ma loro non capivano. Il bagno non ce l’avevano.
Arrivai a Bogotà di notte e mi misi a camminare per le vie de La Candelaria, fra buttafuori che mi proponevano svolazzi e venditrici ambulanti di arepas a trascinare i carretti intorno alla Plaza Bolivar. Ormai avevo deciso: la mattina seguente, alle 9.50, mi trovavo su un volo Avianca diretto a Berlino, aeroporto di Tegel. Furono dieci, forse undici ore, di tremendi movimenti sulla traiettoria atlantica.
Ho quest’immagine del me sfinito che scende dall’apparecchio ed immediatamente avverte un senso di disorientamento. Percorro l’esagono dalla parte sbagliata, mi ritrovo dopo dieci minuti in un punto che mi sembra quello di prima, e invece non è. Sono così stanco.
La mia prima immagine di Tegel è una piccola stanza con un nastro portabagagli che somiglia a quello della cassa di un supermercato e le persone tutte attaccate in attesa che la loro esistenza faccia capolino dal tunnel. Tanto colore giallo, mi ricordo: sui cartelloni delle partenze, sulle insegne luminose delle indicazioni per i terminal, sugli schermi delle compagnie che spiegano le regole per i bagagli a mano, sulle scritte e gli orari delle destinazioni. Una marea gialla che fa il paio con il biondame umano che si è di colpo materializzato nelle donne e negli uomini che esistono intorno a me. Il pavimento anche, mi ricordo, che fortunatamente non è giallo, ma di un indecifrabile grigio sporco. E poi un termosifone gigantesco montato verticalmente di fronte all’entrata dei bagni, che sono all’intersezione fra quello che, lo scoprirò negli anni a venire, è lo snodo fra i due esagoni: per andarci devi scendere le scale e ce ne sono due blocchi, di bagni, identici, agli angoli opposti delle geometrie architettoniche.
Ci sarei tornato ancora a Tegel, e altre volte sarebbero state meglio di questa, che in effetti forse allora era meglio se me ne fossi rimasto in Colombia. Come nel 2013, quando ad aspettarci c’era la signora Dorothee e rimasi stupito dal suo abbraccio così caloroso, così inaspettatamente felice di vedermi, e il suo tentativo di parlarmi in tedesco mentre ci dirigevamo verso la mitica Volksawagen Polo, dove il leggendario Peter era rimasto ad aspettarci. O quando ritornai dall’Iraq, via Istanbul, dopo due settimane pesantissime di guerra, ed ero talmente felice di essere di nuovo “a casa” che mi andai a comprare un bretzel da 3 euro e 50 alla bottega Ditsch, vicino all’entrata della porta A.
Per me Tegel rimarrà sempre questo luogo paradossale, strampalato, fragile, incongruente, che in nessun modo somigliava a quello che avrebbe dovuto essere e che però, proprio per questo, mi faceva sentire a mio agio. Perché ci capivamo e io lo apprezzavo, e m’incantavo ad osservarlo, nel suo coraggioso intento di convincere migliaia di persone, ogni giorno, che era davvero ciò che a nessuno sembrava: un aeroporto.
di Francesco Somigli
Non è che avessi avuto una grande esperienza di aeroporti “seri” prima di incontrare Tegel. Avevo ovviamente viaggiato in Europa, ma quasi sempre con compagnie low-cost, che hanno la peculiarità di sbarcare i passeggeri in osceni capannoni prefabbricati spersi nelle campagne europee. L’aeroporto di Berlino (perché quello era. Il derelitto Schönefeld non posso nemmeno prenderlo in considerazione) era quindi qualcosa di diverso. Praticamente in mezzo alla città, di cui si cominciava a percepire il profilo già durante l’ondeggiante avvicinamento pre atterraggio. Sotto la pancia dell’aereo passavano i palazzoni di Marzahn, le villette di Pankow e la disordinata urbanizzazione di Wedding/Reinickendorf; pochi secondi per osservare il tutto, poi il tonfo delle ruote sulla pista. Tegel è diventato “uno di casa” quando mi sono definitivamente trasferito a Berlino, mai troppo lontano dagli appartamenti in cui ho vissuto nel mio lungo soggiorno tedesco: pochi minuti di metro, un bus e qualche passo trascinandomi appresso la valigia sono stati la massima distanza tra il mio mondo privato e il luogo d’inizio del viaggio. Tegel non stordiva con la vastità né traumatizzava con il suo caos e, col passare degli anni, è diventato come una specie di salotto in cui potevo muovermi con tranquillità. È stato per me il “non luogo” più luogo che esistesse. Ci si può affezionare emotivamente ad una struttura? Credo sia una domanda che tormenta molti architetti; la mia risposta di semplice viaggiatore occasionale è: sicuramente sì.
Ho sviluppato un legame che ha caratterizzato diverse fasi della mia vita, i suoi terminal mi hanno osservato, silenziosi ma comprensivi, mentre mi mettevo in viaggio con stati d’animo sempre diversi. È stato accogliente quando serviva, ruvido e sgarbato quando avevo bisogno di una scossa. Altre volte, semplicemente, mi ha dato il benvenuto al mio ritorno come un padrone di casa discreto che sa quando è meglio essere di poche parole.
Aveva dei difetti il caro Tegel, ma glieli ho perdonati volentieri come si fa con un vecchio amico. Non posso che essere indulgente verso chi mi ha accolto a Berlino, un po’ inaspettatamente visto che sarei dovuto atterrare in un certo BER di cui solo più tardi avrei imparato la complicata vicenda.
Alla fine quindi ce l’hanno fatta a sostituirti, vecchio mio: il Brandenburg prenderà il tuo posto, ma non avrà mai la tua Storia. Non il cemento grigio delle tue facciate, non la spigolosità delle tue forme esagonali o la regolarità dei tuoi terminal.
Il BER avrà rumore, ma non suono: non quello del ratatatatà delle caselle del vecchio tabellone dei voli. Nè quello del roteare del tuo radar, garbato sottofondo durante l’attesa di voli serali di cui ho perso memoria. Sto invecchiando, i ricordi si annebbiano, ma so che ne abbiamo passate di avventure insieme. Me ne rimane una sensazione che non sparirà con gli anni.
Il nuovo aeroporto sarà display, luci, computer, tapis roulants. Sarà tecnologia (probabilmente) efficiente, ma non sarà te.
Non porterà con sé la fatica delle corse affannate verso il terminal, né l’impazienza durante le code. Non avrà nemmeno ricordo dell’attesa di persone care. Avrà forse di più, ma non sarà semplicemente nulla.
Mi hai fatto compagnia tanto volte, caro Tegel: eri rumore di motori a getto nelle sere d’estate, troppo calde per tenere la finestra chiusa ed avere silenzio. Mi davi la sveglia col volo delle 5:30 proveniente da Copenhagen, e la buonanotte con il decollo delle 00:45 per Amsterdam.
Ti ho visto l’ultima volta giusto un anno fa, quando stavo partendo per una destinazione affascinante e lontana. Non avevo idea sarebbe stato un addio. Non potevamo sapere cosa sarebbe successo da lì a poco. Siamo stati entrambi troppo concentrati a sopravvivere come potevamo, a trascinarci avanti con molta fatica e poche certezze. Ci siamo dimenticati l’uno dell’altro.
Non ci meritavamo questo, non così.
Doveva essere un bel saluto il nostro, di quelli da cinema, con un aereo sullo sfondo che decolla nella nebbia e una frase d’addio da vecchie canaglie appena sussurata. O magari ci saremmo lasciati con qualche lacrima e la promessa di un ritorno.
E invece me ne sono andato da Berlino in treno. In treno, ti rendi conto? Tu agonizzavi nella tua vacuità e io ti ho preferito dei binari. Non me lo perdonerò mai.
Caro Tegel, ti saluto adesso, da lontano. Non tornerò, non ci rivedremo mai più. O magari sì, ti rivedrò ancora ma forse non ti riconoscerò. Il tempo cancellerà molto, ma non ti preoccupare, non mi dimenticherò di te.
Ti auguro il meglio e, ti prego, stai tranquillo: niente di quello che prenderà il tuo posto sarà mai te(gel).
REDAZIONE
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