Per certi versi quest’epoca storica nasconde dei punti in comune col periodo di fine ottocento e l’inizio del secolo novecento, quando accaddero una serie di vicissitudini artistiche che stravolsero la visione del mondo, che poi è sempre la condizione fondamentale dei cambiamenti epocali, quelli che meritano spazio nei manuali scolastici di storia.
Sono almeno tre gli aspetti che ad un sociologo solleticano il palato più d’un sorso di birra gelata in un caldissimo pomeriggio di luglio: sviluppo tecnologico, incremento della velocità, ridefinizione dell’agglomerato umano secondo lo spazio ed il tempo.
Sviluppo tecnologico
Per chi come il sottoscritto ha a cuore la parola nella sua accezione più pura, la letteratura come costruzione di una identità fantasticamente possibile, ma posta al di là dello storico e che quindi necessità di una complessità sintattica e semantica molto più tecnica (precisa), rispetto per esempio alla comunicazione visiva (l’immagine) che fa della sua immediatezza comunicativa la propria peculiarità, sa bene che “le parole sono importanti”, fondamentali aggiungerei alla citazione tanto cara agli amanti del cinema di Nanni Moretti.
Una prima discussione nasce proprio rispetto all’utilizzo che ormai erroneamente si fa dei concetti di progresso e sviluppo, una vera e propria abiura semantica. Tralasciando ovviamente pedanti definizioni da dizionario, facilmente reperibili, si può partire da una prima questione: lo sviluppo è sempre positivo? In particolare: parlare di sviluppo tecnologico ha sempre una validità positiva, ci conduce sempre a un modello positivo di esistenza? L’ottimismo del filosofo francese Serres, per certi versi, mi sconcerta: “perché chiacchierano, nel vocio dei compagni chiacchieroni? (giovani studenti ndr.) Perché questo sapere annunciato ce l’hanno gia tutti. Per intero. A disposizione. Sottomano. Accessibile tramite il Web, Wikipedia, il palmare, con qualsiasi mezzo portatile. Spiegato, documentato, illustrato, con una quota di errori analoga a quella delle migliori enciclopedie. Non si ha più bisogno del portavoce di una volta, salvo che qualcuno abbia un guizzo inventivo originale, ma è raro. Fine dell’era del sapere.”
Serres parla di “fine del sapere” senza provocazione alcuna. La protagonista del suo breve racconto l’ha denominata Pollicina, una sorta di tipo ideale dell’utente medio che attraverso i pollici interagisce prima col supporto meccanico e poi con la realtà circostante (utilizza il genere femminile come plauso alla vitalità delle donne), che non ha più bisogno di imparare e di ricordare poiché le basta il pollice per aver accesso al sapere, la parola perde la sua strumentalità divulgativa e quindi il suo senso, cede il posto all’immagine, al corpo. Tra parola e corpo sussiste la stessa differenza che c’è tra progresso e sviluppo, che poi in fin dei conti è soltanto una questione di velocità di informazione. Si pensi alla descrizione di un quadro e all’immagine di un quadro. Lo sviluppo è rapido, come i dieci anni appena trascorsi in cui la tecnologia ha raddoppiato la velocità di trasmissione e al progresso economico sociale, che ha impiegato all’incirca centocinquant’anni per consolidarsi ed acquisire i connotati di oggi, anche se erroneamente lo si defisce post-capitalismo.
Continua Serres: Noi adulti abbiamo trasformato la società dello spettacolo in una società pedagogica la cui concorrenza schiacciante, vanitosamente incolta, eclissa la scuola e l’università. Senza rivali per tempi di ascolto e di visione, per seduzione e importanza, i media hanno avocato già da molto tempo la funzione dell’insegnamento […]. I ragazzi abitano dunque il virtuale […]. Senza che ce ne accorgessimo, in un breve intervallo di tempo – quello che ci separa dagli anni settanta del Novecento – è nato un nuovo umano.
In questo passaggio si coglie chiaramente la differenziazione semantica di sviluppo e progresso: si pensa di star vivendo uno sviluppo tecnologico quando invece siamo di fronte a un epocale progresso antropologico.
Quando leggo i titoloni sensazionalistici che urlano la gerontocratica tendenza demografica di parte del mondo occidentale (ivi compresa l’Italia) per vocazione sociologica sono spinto a consultare le statistiche e le serie storiche, per capire cosa in realtà sta accadendo. Ciò che appare è sempre la solita immagine che, senza ricorrere a numeri, si può così sintetizzare: decrescita demografica di buona parte del mondo occidentale contro la crescita costante del cosiddetto terzo mondo; accumulazione della ricchezza tra le fasce di popolazione che stabilmente, da quarant’anni, occupano le posizioni di rilievo economico amministrativo; sviluppo tecnologico che in realtà è tecnocrazia; contrazione del lavoro specializzato come fonte di potere consumistico (ovviamente il caso storico che purtroppo stiamo vivendo rappresenta la variabile indipendente che stravolge e fomenta le condizioni più svantaggiate).
L’errore più comune che si commette quando si ragiona in termini storici è considerare lo sviluppo come una sorta di linea retta che unisce tutti i punti del piano: la storia ci insegna che spazio e tempo non sono valori assoluti. La parola stessa “democrazia”, tanto cara alla pubblica opinione e tanto vituperata da buona parte della classe politica, è ciò che definisco un finto valore. Evitando però ogni sorta di dialettica pedante sulla semantica della democrazia utilizzo una domanda di per sé retorica: a chi appartengono i server, i provider, i brevetti necessari allo sviluppo e al mantenimento del sistema tecnologico? Ovviamente gli smartphone in dieci anni hanno conquistato un posto importante tra i media, utilizzando però un tempo relativamente breve rispetto all’alfabeto o al libro e fornendo una struttura rappresentativa del reale completamente nuova: l’aumento della velocità d’informazione è una mutazione antropologica. È definibile questo uno sviluppo? Senza dubbio alcuno. È definibile questo progresso? Lo capiremo tra cinquant’anni forse, così come abbiamo a nostre spese compreso che un certo concetto di crescita in realtà altro non era che un dogma fuorviante. Sviluppo e consumo non hanno una radice semantica comune ma sono connessi in una propedeuticità naturale; quando parlavo di vicissitudini artistiche mi riferivo proprio a questo concetto: se qualcosa non è consumabile rapidamente non è espressivo, non rappresenta nulla, non è arte.
Incremento della velocità
F. T. Marinetti scrisse: il passato è necessariamente inferiore al futuro. Noi vogliamo che sia così. Come potremmo riconoscere dei meriti al più pericoloso dei nostri nemici…? Ecco come noi rinneghiamo lo splendore ossessionante dei secoli aboliti e come collaboriamo con la meccanica vittoriosa che tien chiusa la terra nella sua rete di velocità.
Cui prodest? La velocità è dunque un valore? Lo è diventato, certamente sì e giova soltanto alle élites, non ai singoli cittadini. Internet non è un medium nell’accezione classica del termine. Un social network è un medium, una pagina web, lo smartphone, il computer, insomma tutto ciò che ha a che fare con lo schermo video. Semplificando potremmo affermare che: l’impatto umano di fronte ad uno schermo è sempre profondamente antidemocratico, è sempre un rapporto ex cattedra. Quanti provano a fare uno sforzo mnemonico, concentrati nelle divagazioni di pensiero, lo sguardo fisso in qualche punto nello spazio avendo la percezione che davanti, dietro o sopra incombra granitico uno schermo? L’occhiata è automatica, mentire non serve. È una sorta di legge universale: non si può non guardare uno schermo. E questo ha a che fare con il sogno, con la dimensione onirica del pensiero umano: il sogno è significante del principio di piacere. In merito alla similitudine tra lo schermo e l’occhio, lo sguardo giudicante, vi aveva già pensato Orwell e lo smartphone ha amplificato enormemente tale rappresentazione: la differenza rispetto alla televisione sta tutta nella velocità. E pertanto il famelico bisogno di essere informati, di sapere, di consumare conoscenza, diventa puramente fine a se stesso e cioè convalidante quella condizione di accettazione sociale, la ricompensa effimera ma necessaria dell’esistenza. Il tanto paventato “perdere la faccia”, che fino a pochi anni fa restava comunque ristretto in un’orbita privata, diventa pubblico e soprattutto s’inscrive in una metrica assoluta della propria identità. Ed è proprio qui che si incastra il concetto di velocità come valore etico (non morale), una sorta di competizione estenuante e, per certi versi, perpetua, allo scambio frenetico di contenuti (informazioni). E come può il passato, in questa rappresentazione, trovar spazio? Semplicemente non ne ha, non lo merita.
Quest’epoca storica scavalca ogni libagione di arte passata o memoria o qualsivoglia identità; la frammentazione dell’io è anzi ormai un valore antropologico. La metempsicosi, attraverso una scarna concezione di futuro misurabile e prevedile, ha reso la rappresentazione del reale (arte) la forzata esasperazione della vitalità: l’istante smette d’essere un fatto per diventare il possibile e si trasforma in futuro, diviene una contingenza che nella sua istantaneità oracolare parla di profezia. Affermando che l’epoca moderna è l’apologia del futurismo, non commettiamo alcun errore, non dimentichiamo che la contemporaneità, resa possibile dalla velocità informatica, ha sgranato i pixel dell’imago individuale, per renderla un filtro comune, un valore aggregativo della nuova definizione di gruppo sociale, di comunitario. Per questo spazio e tempo dal pedissequo particolarismo culturale assumono nuova forma nel plebeo sentire, la velocità è aggregatrice di senso, ma senza un reale significante. Proprio questa fiduciosa attenzione nel futuro (attenzione in senso letterale di tendere a un qualcosa di sbiadito, probabile) ha riconiugato il mondano nell’indefinito. Paradossalmente, la macchinalità tecnologica fomenta l’indefinibile poiché il paradosso è forse l’unica evidenza da cui fuggire: la macchina sviluppa causa ed effetto ma elabora dati finiti, seppur innumerevoli, inconsapevolmente relaziona poi risultati che sono soltanto legati a quelle variabili, e questo è traducibile nell’istante, non nella possibilità del futuro. Siamo di fronte a una sorta di ossimoro, presente e futuro divengono la stessa medesima condizione in un’ottica di prevedibilità (causa ed effetto) che dissonante com’è dal concetto di passato (quindi ricostruzione storica) creano l’illusione della misurabilità: benché si sappia che nessun futuro è possibile, la velocità informatica sviluppa un controllo della reazione. Nella sua convinzione vaticinante non fa altro che riavvicinarsi o riprendere (non l’ha mai lasciata, è la sua natura) la necessità strutturale dell’umana specie: anestetizzare la paura del futuro.
Ridefinizione dell’agglomerato umano secondo lo spazio ed il tempo
Possiamo definire questa l’epoca del soluzionismo, neologismo che, a mio avviso, sintetizza chiaramente il costrutto morale dominante i comportamenti e le decisioni di buona parte del genere umano, a dispetto del questionismo, che per buona porzione della storia conosciuta ha invece diretto le scelte degli stessi animali quali siamo in quanto specie. La scienza, quella vera, è questionistica, dubita del tutto e di qualsiasi risposta che sia generalizzabile e quindi assoluta, sennò parleremmo di soluzionismo, che invece è dogmatico, fondamentalmente religioso. Qual è pertanto una caratteristica essenziale per la validità religiosa di un sistema di valori? La certezza, che poi si coniuga nella possibilità di previsione. L’algoritmo, per esempio, è l’apoteosi del soluzionismo; è dogmatico, ma soprattutto modifica i concetti di spazio e di tempo. Tralasciando questioni filosofiche, faccio riferimento brevemente ad un lavoro splendido di Joshua Merowitz, Oltre il senso del luogo, in cui spazio e tempo vengono completamente ridefiniti all’interno della scala percettiva e sensoriale che permette l’interazione umana. Certi confini e certi limiti (pareti, porte, dogane, alfabetizzazione) si decostruiscono, l’informazione viaggia rapida, veloce, immateriale. L’esserci non è più una presenza fisica, ma virtuale, immaginaria, nella semantica originaria del termine. Jurgen Habermas, nella sua opera Storia e critica dell’opinione pubblica definisce la tesi di Merowitz “troppo lineare”: ma questa abolizione dei confini va di pari passo con la moltiplicazione dei ruoli contemporaneamente specificati, con la pluralizzazione delle forme di vita e l’individualizzazione dei progetti di vita. Lo sradicamento è accompagnato dalla costruzione di particolari appartenenze e provenienze comunitarie, il livellamento dall’impotenza di fronte alla complessità sistemica non compresa. Si tratta piuttosto di sviluppi complementari intrecciati l’uno con l’altro. Così i mezzi di comunicazione di massa producono effetti contrastanti anche in altre dimensioni.
Benché la tesi di Merowitz sia alquanto affascinante, allo stesso modo però Habermas pone dei dubbi sostanziali, a mio avviso, rispetto alla complessità della descrizione assoluta di un determinato fenomeno antropologico in atto ormai da un secolo. La moltiplicazione dei ruoli o frammentazione del sé continuamente stimolato dalla tribalizzazione la trovo una fattualità innegabile. Soprattutto è il concetto di rifiuto della complessità che comporta un livellamento (verso il basso) della qualità e della distinzione individuale. Specialistico, ma prodotto in serie (verrebbe da dire) è il moderno essere umano. Controllabile e prevedibile (soprattutto nei consumi) è il principio che rincorre la tecnocrazia: finalmente dopo secoli di complessità ingovernabile. Certamente l’uomo da sempre ha modificato la natura, l’ambiente intorno a sé, in una sorta di scambio continuo tra il dare e l’avere. Cambia l’ambiente e a sua volta l’essere umano si modifica, un circolo continuo e perpetuo della vitalità sociale. In tale meccanismo (questa sì può definirsi anche una legge universale) la governabilità e la prevedibilità della natura hanno costituito e costituiscono ancora il sogno mai celato della bestia umana. Battaglia persa, ovviamente, ma, senza arrendersi, si è spostato l’obiettivo su un altro complesso e imprevedibile essere vivente: l’uomo stesso. La tecnocrazia educa il nuovo tipo di bestia umana alla prevedibilità e al controllo. Così decadono i vecchi principi di spazio e tempo a dispetto di nuovi neologismi come il sempre e l’ovunque. Basti pensare allo smartphone per comprendere la semantica dei due nuovi neologismi di spazio e tempo.
Il sempre e l’ovunque generano la frammentazione dei ruoli. Attraverso la partecipazione virtuale (gruppi virtuali, social network) si è chiamati per necessità dell’essere ad occuparsi delle più svariate argomentazioni: medico, virologo, architetto, sessuologo e così via, fino all’estasi del completamento della vanità umana, poiché il punto è soprattutto quello di soddisfare l’ancestrale bisogno di esserci, l’hic et nunc per certi versi voyeuristico del bisogno umano. Fa sorridere la presunzione secondo cui attraverso la rete (internet) ci sarebbe la possibilità di instaurare una democrazia diretta, la stessa parola democrazia suscita una sorta di allegorica visione umoristica. La democrazia diretta, com’era ad esempio nella Grecia antica, ha sentenziato la morte di Socrate poiché il maniscalco, il macellaio, il commerciante di stoffe, avevano decretato che corrompesse, con la sua morale, i giovani greci.Ii romani ben si guardarono da tale forzatura, instaurando la repubblica, sistema che sopravvive ancora oggi e che nulla o poco ha a che fare con la “democrazia”. Pertanto, va bene utilizzare la parola demos come stendardo rassicurante, ma chi è chiamato a dir la propria opinione deve essere controllabile e soprattutto prevedibile.
Il paradigma comportamentista, che poi strutturalmente fa da assioma all’interno del complesso valoriale statunitense, da Pavlov in poi ha presentato la rivoluzionaria possibilità di condizionare la reazione comportamentale degli umani. Già Skinner era convinto, cinquant’anni fa, che la programmazione comportamentale umana era possibile. Quando parlo di soluzionismo certamente mi riferisco a questo concetto, ma i topi da laboratorio c’entrano poco. All’interno dell’indomita complessità, ingovernabile e spaventosa, s’insinua così la soluzione della prevedibilità, che di per sé è soltanto aziendalista, risponde alla logica della monetarizzazione, tanto per intenderci il concetto di homo economicus, già tanto criticato, diviene homo pacunarius. L’economia come principio statico e cioè del trarre il maggior profitto per se stessi, che poi diviene profitto anche per chi partecipa, sarebbe pure interessante, ma è apocalittica se assume la connotazione monetaria, così come descritta. Il soluzionismo non è altro che la facilità di discernimento e quindi di scelta evitando l’errore, che sovverte il principio di rischio alla base del concetto di economico realistico: l’algoritmo ti proietta nella certezza possibile del successo. In breve: date certe condizioni, il successo corrispettivo varrà la data quantità sempre direttamente proporzionale a quanto investirai, una manna per gli speculatori. È più che evidente quindi che il sistema valoriale in cui s’educa l’uomo nuovo è soltanto o semplicemente aziendalista, che poi ha tutto in comune con un sistema religioso-dogmatico (questo spiega la reclame condotta da gran parte della pubblica opinione per raccogliere sempre più adepti alla setta religiosa denominata – ahilei – scienza), soluzionista a cui certamente la matematica (non per colpa sua, ma solo di qualche corrotto seguace) presta continuamente calcoli e contenuti. Il virtuale attraverso l’idea di social network non ha fatto altro che diffondere, come casse risonanti, tali valori: velocità, zero (intenso come dispendio di energie e di risorse economiche) e consumabile (sempre e ovunque), sembrano i valori portanti la filosofia di un qualsiasi ristorante da strada, ma sono le strutture valoriali del commercio, coniugabili su qualsiasi azienda.
Così come c’è stato il tempo degli oracoli, dei monaci, dei re taumaturghi, dei politici patriottici, adesso vige il tempo degli informatici, che poi sono matematici corrotti, asserviti all’oracolismo alfanumerico.
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