illustrazioni di Francesca Futura Malanca*
Un’isola in cui è difficoltoso attraccare e che conferma la propria esistenza distaccandosi dal moto perpetuo, divenendo un’entità singola che si autodefinisce attraverso una tensione solitaria che la rifugge dal vuoto. Ed è in questo stare esterni, al di fuori, che si può incontrare la Solitudine, stato esistenziale in cui l’altro viene a mancare e che si fonda in un canto a un’unica voce: la nostra.
Le lingue latine non si discostano molto da questo immaginario, in quanto rimandano semanticamente a una terminologia similare, che fa nascere associazioni di idee coincidenti: il vocabolo “solitudine” deriva dalla parola latina sōlus (solo). Interessante è notare come la radice latina faccia da base al consolidamento dei termini poi evolutisi in solitary, lonely e alone per quanto riguarda l’inglese, solo, unico, aislado per lo spagnolo, aggiungendo ad essi anche i lemmi di deserted e desierto, che incarnano perfettamente l’idea di sconfinamento in un paesaggio desolato, muto e privo di vita. Coincidenza che, volendo, si può rintracciare anche nella phoné e grafia di aislado, che rievocando la parola island, ancora una volta fa emergere la connessione tra la condizione di solitudine e i luoghi esclusi, separati.
In queste letture, che comprendono anche la lingua italiana e quella francese, è individuabile una similitudine di significati che portano a identificare la solitudine come un distaccamento, un atto di separazione da uno spazio che è in alternativa occupato da altri. Ora, se da un’analisi superficiale delle parole coinvolte non si evidenzia mai in modo esplicito una loro contraddizione o una loro possibile diversità, ma al contrario un loro riferirsi al fenomeno in modo alquanto univoco, per esaminare con maggiore profondità “l’essere solo” è necessario prendere singolarmente ognuno di questi termini e radiografare tutti gli spettri dei suoi gradienti.
Ecco, dunque, che se un’esame iniziale li aveva messi sullo stesso piano significante, dopo uno studio approfondito emergono due declinazioni di senso, riferitesi rispettivamente alle parole inglesi loneliness e solitude, che se in italiano non trovano una traduzione letterale, se non nella coincidenza un po’ sforzata dei vocaboli di estraniazione per loneliness e solitudine per solitude, con la lingua tedesca si confermano invece in maniera forte, attraverso i termini di verlassenheit e einsamkeit.
Ma le lingue si evolvono con l’essere umano, o meglio, servono a quest’ultimo per nominare le proprie esigenze, i cambiamenti e per comunicare agli altri il proprio sentire, trasportando il mondo intimo in un ambiente esterno, cercando così di codificarlo. Per questo non parrà strano se l’ambivalenza presente nel concetto di solitudine si svilupperà e diffonderà in concomitanza della modernità, in contemporanea con una trasformazione dei modelli di esistenza che ha condotto gli individui non soltanto a vivere in modo diverso, ma anche a pensare secondo nuovi schemi.
La studiosa Amelia Worsley dello statunitense Amherst College, in una recente ricerca e in un ciclo di conferenze dal titolo Loneliness and the Poet in British Romantic Literature, inquadra l’affermarsi dell’esperienza della solitudine alla fine del sedicesimo secolo. Non a caso subito successivamente la parola loneliness appariva raramente per iscritto, e nel 1674 fu lo stesso naturalista inglese John Ray a confermare la rarità d’uso di questo vocabolo che serviva soltanto per indicare luoghi e persone “lontani dai vicini”. È un’idea che proseguirà anche nel Settecento. In A Dictionary of the English Language (1755), del critico letterario Samuel Johnson, loneliness evocherà l’immagine di un luogo deserto o in cui poter stare soli. Come fa notare Worsley, allontanarsi dalla società nel Regno Unito di quei tempi voleva dire rinunciare alle protezioni e alle comodità che il sistema sociale forniva. Gli spazi selvaggi e sconosciuti incutevano timore, come anche i possibili incontri che si sarebbero potuti fare in paesaggi abbandonati dalla ragione, che per questo venivano intrinsecamente connessi agli istinti primordiali e ai peccati.
È un quadro che fa risaltare un tipo di solitudine “veicolante”, che suscita un sentimento di terrore, ribadendo l’importanza di una convivenza necessaria per portare avanti i valori dell’epoca. Tendenza romantica, nonché religiosa, che resisterà fino al diciannovesimo secolo, poiché con l’arrivo della rivoluzione industriale e l’incedere del capitalismo essa perderà tali caratteristiche per associarsi a stati psicologici come l’alienazione e a emozioni personali, piuttosto che sociali.
Ecco, a questo punto, diventare fondamentale il duplice significato della solitudine nella diramazione inglese e tedesca di loneliness/verlassenheit e solitude/einsamkeit (estraniazione e solitudine per l’italiano). Si tratta di una distinzione terminologica rilevata in maniera sostanziale da Hannah Arendt, che nel capitolo Ideologia e Terrore nell’edizione del 1953 del suo Origini del Totalitarismo, prendendo come riferimento lo sviluppo dei regimi totalitari, osserva come attraverso la disintegrazione silenziata della sfera pubblica e la formazione di una politica del terrore, i regimi tentino di rinchiudere ciascun individuo in una monade, evitando loro il confronto e la formazione di un pensiero autonomo, per non mettere a rischio il potere dell’Autorità.
La diffusione delle ideologie dittatoriali e delle sue subdole metodologie di potere, di conseguenza, trasforma la solitudine in disagio e in una condizione di malessere mai emersa nei secoli precedenti, uno stato che Arendt farà coincidere con l’estraniazione (loneliness/verlassenheit), perché al gioco del terrore piace nutrirsi di soggetti deboli, estorti dalle loro relazioni, sradicati e disorientati.
L’essere umano privo di radici diventa così un soggetto senza mondo, che pur facendo parte di un tessuto sociale, pur essendo in compagnia, si percepisce solo, abbandonato. La presenza, la vicinanza fisica di altri umani, non ha più molta importanza: l’individuo estraniato si sente escluso, desolato, posizionato al di fuori dalla sfera pubblica. Ecco perché il senso di loneliness si fa addirittura più forte quando si è con gli altri.
Un sentirsi superfluo che aumenta con il consolidamento delle ideologie autoritarie, che favoriscono la perdita delle relazioni autentiche e di quella sintonia sociale che nell’incontro con l’altro ci permette di evolvere, di conoscerci, ma che il sentimento indotto di paura e diffidenza verso gli estranei e il diverso interrompe, producendo una sensazione di smarrimento e vuoto che inesorabilmente fa sentire soli.
Dall’altra parte, in contrapposizione con lo stato di loneliness, si colloca la solitude. Solitudine che rappresenta chi decide di allontanarsi volontariamente dagli altri per rifugiarsi nel proprio io e rimanere con se stesso. Atto di distaccamento in cui manca quel patimento rintracciabile nell’estraniazione, perché chi vive nella solitude/einsamkeit, pur essendo materialmente distante dai propri simili, non soffre di solitudine, in quanto si concepisce come entità doppia, e perciò mai sola, ma in compagnia e complice con se stessa, ossia con l’altro sé, un essere che la Arendt definisce “due in uno”.
Tale auto-confinamento in un io intimo agevola il dialogo interiore, permettendo al soggetto di intraprendere la via della contemplazione e della conoscenza.
La solitude venne esaltata da Friedrich Nietzsche, che la considerava l’unica via per il raggiungimento di uno spirito libero. La volontà di lontananza, nel filosofo tedesco, come ha ben individuato Michele Bracco nel suo recente libro Nietzsche e la solitudine. Il destino di un inattuale, implicava un’evasione dagli schemi, dalle norme sociali, e l’oltrepassare i confini delle menti prigioniere. L’esistenza autentica per Nietzsche comportava il distacco da quelli che egli definiva farisei o “uomini corrotti”, perché la filosofia o il pensiero creativo si abbracciano soltanto allontanando le malattie ideologiche del mondo moderno che risiedono nell’errore, nel futile e nei compromessi che richiede il sistema.
Sebbene all’inizio questa conformazione della solitudine venga valutata come inattuabile, per il carico di sofferenza che comporta il “mettersi da parte”, è destinata a rivelarsi la scelta più saggia per l’essere umano che intende fare un percorso interiore puro e veritiero.
Il cammino a cui aspira Nietzsche, tuttavia, nasconde delle insidie. Sempre la Arendt ci avverte infatti che nonostante la nostra forza di volontà, il passaggio dalla solitudine allo straniamento può essere immediato, ove l’individuo non sia in grado di fuoriuscire dal proprio ingabbiamento emotivo, precipitando in un deserto in cui l’altro suo sé appare invisibile e muto.
Il doppio della Solitudine si risolve così in un confine labile tra loneliness e solitude, così sottile che lo sprofondamento in una o l’elevazione nell’altra condizione a volte appare del tutto incomprensibile.
Gradazioni della solitudine
La solitudine, tramite la biforcazione dei significati di loneliness e di solitude, assurge a una completezza in cui ciascuna sfumatura dell’Essere è rappresentata. Microscopiche variazioni si ritrovano anche all’interno del concetto stesso di loneliness, da cui emergono diverse gradazioni di senso. Chi ha scavato negli incavi profondi della nozione di “estraniazione” è stato lo studioso John McGraw, che nella sua disamina del 1995, intitolata Loneliness, its nature and forms: an existential perspective, rivela come la solitudine possa essere considerata tra le emozioni più negative. Il vuoto che progressivamente si radicalizza nel soggetto straniato fa aumentare infatti il desiderio di presenza dell’altro, mentre la sua assenza è vissuta come un assedio, rendendo l’incontro un bisogno destinato a rimanere irrisolto. Non è un caso, continua McGraw, che spesso si preferisca credere di essere parte integrante della vita degli altri, piuttosto che pensare che siano gli altri a essere fondamentali per noi, in quanto tale svincolo porta un po’ di sollievo, seppur minimo, alla previsione di rimanere soli.
A fronte di queste valutazioni si rafforza sempre più l’idea di una loneliness che scardina i fulcri esistenziali. Se, come abbiamo ripetuto, l’individuo per esistere in modo completo necessita del confronto con i suoi simili e di un’apertura che si affacci su un paesaggio esterno condiviso, senza essi l’esperienza del mondo inizia a tremare, convertendo in inspiegabile l’interpretazione della realtà e il nostro essere inseriti in essa.
Un tedio – questo – che non permette all’Essere di definirsi, e che McGraw nomina solitudine metafisica, condizione che porta a una fragilità e a una precarietà che frantuma l’idea di mondo e dei suoi oggetti. Una ferita che conduce chi subisce lo stato dell’assenza a non sentirsi, a non percepirsi, in quanto Essere, e che, come asserisce Erich Fromm in L’Arte di amare, nel vedersi entità separata, accumula ansia.
Il non potersi ricongiungersi può condurre a rinchiudersi in una prigione solipsistica, in cui il malessere è destinato ad aumentare con il procrastinarsi della solitudine.
Superare la solitudine sembra però far parte della natura dell’essere umano. McGraw, introducendo il pensiero esistenzialista e in particolar modo la filosofia di Jean-Paul Sartre, fa un ulteriore passo in avanti, rilevando come la loneliness metafisica sia intrinsecamente legata ad un’altra di stampo epistemologico. Queste due solitudini ricorrono spesso negli scritti di Sartre, specialmente in L’Essere e il nulla, che partendo da una prospettiva metafisica ed epistemologica descrive gli esseri umani come entità contingenti, gratuite, superflue e isolate. La coscienza umana è, per il filosofo francese, nient’altro che un buco nero nell’Essere, un nulla, un vuoto indicibile che l’uomo e la donna non possono sopportare e che tentano di colmare cercando nell’altro il rimedio all’inevitabile caduta, in una voragine in cui il non essere si dispiega in tutta la sua potenza.
Una ricerca della pienezza, si può dire, che ha nella mancanza il suo punto d’origine.
Una possibile “cura” che Sartre propone per trascendere la propria solitudine è l’amore. Il sentimento d’amore non è un semplice incontro con l’altro, ma – se autentico – un’esplorazione profonda che coinvolge e struttura appieno il nostro Essere, provando a salvarlo dal vuoto. Eppure, continua Sartre, la nostra essenza è talmente difettata e condannata alla solitudine che nemmeno in una fusione amorosa si trova tregua. Anzi, i due amanti, una volta esaurita l’illusione di unità e aver compreso che non è in un’altra parte manchevole che si può trovare la completezza, sono destinati, dopo un distacco consapevole, a una solitudine percepita in modo ancora maggiore.
La loneliness epistemologica, esplicata soprattutto dagli esistenzialisti, fa quindi leva sul principio secondo cui essendo troppo vicini a se stessi per afferrare intimamente l’altro, combattere la solitudine diventa un’impresa non-Umana. L’unico ristoro che l’individuo può avere è trasformare la loneliness in solitude, e trovare così unicamente in se stesso la via di fuga dal tormento.
Si tratta di un’operazione che necessita un percorso interiore che, come abbiamo constatato poco sopra, non è per niente semplice, e chiama in causa un altro tipo di loneliness, quella che McGraw definisce ontologica. Chi vive in questo stato non solo non individua nell’altro una possibile uscita dall’estraniazione, ma si concepisce, egli stesso, come entità frammentata e incerta. A questo grado l’impossibilità di relazione interessa il proprio sé, sentendosi intrappolati in un io che appare riflesso come un estraneo. Circostanza, constata lo psichiatra Ronald David Laing in La politica dell’esperienza, che se radicata rischia di diventare patologica e causare nevrosi, psicosi o, addirittura, di trasformarsi in terreno fertile per la schizofrenia. Da qui si deduce che la loneliness, oltre che essere uno stato interiore, può diventare una vera e propria malattia, non solo della cosiddetta “anima”, ma psicologica, mentale.
L’Isolamento: il terzo modo dell’essere soli e lo spettro dei totalitarismi
L’essere o il sentirsi soli può innalzarsi come un’intima litania, come una condizione che, serpeggiando in noi, altera il nostro stato emotivo, rendendoci dominati o dominanti di un sentire che, tuttavia, si configura come necessario per l’evoluzione personale. Diverso invece è quando la percezione, effettiva o meno, di solitudine, non deriva dalla nostra sfera privata, ma da fenomeni esterni, individuabili nella negazione di quella cerchia pubblica che ci fa sentire parte di un qualcosa, di un tutto, in sintesi di quel progetto in comune con gli altri che determina la nostra essenzialità nella società.
Questa forma di solitudine, che si esprime nello sradicamento dell’individuo dalla collettività, e non concerne una condizione esistenziale come i due tipi di solitudine precedentemente osservati, viene indicata con il termine isolamento (isolation in inglese). Nell’isolamento l’essere umano diviene un’isola immersa in un deserto, in cui sono letteralmente scomparse le oasi: spazi fondamentali per l’individuo per esprimersi e per poter andare oltre la mera dimensione materialistica della vita, vitali per la formazione del pensiero, della filosofia e della creatività.
Nell’isolamento, ricorda lo studioso Dario Zucchello in Solitude e loneliness in Hannah Arendt, il soggetto vive a un livello di worldless (senza mondo), in cui la moltitudine dell’universo è ridotta a una singolarità forzata, dove qualsiasi spinta verso l’esterno viene negata: se si esiste è solo in noi e con noi, mentre l’altro appare come inarrivabile.
In Ideologia e Terrore, sempre seguendo questa linea, la Arendt precisa che mentre la solitudine, nell’accezione di solitude, può essere sopportabile perché ancorata all’obiettivo di costruire o aggiungere qualcosa di nuovo all’artificio del mondo, nell’isolamento tale tensione appare spezzata, e l’essere umano indietreggia dalla posizione di homo faber – che attraverso la praxis (azione) e la poiesis (costruzione di cose) si definiva – per circoscriversi a livello di animal laborans, in cui qualsiasi principio e valore viene disumanizzato.
I soggetti, qui, sono classificati esclusivamente per la loro capacità di riuscire a servire gli intenti del potere, uomini che la stessa Arendt definisce come “uomini di fatica”.
Quando anche la forma più elementare di creatività e di pensiero si è annichilita, l’isolamento diventa insopportabile, ancora di più rispetto allo straniamento, che comunque non precludeva una separazione dalla vita in comunità, in quanto era il risultato di un disagio personale.
La tecnica subdola dell’isolare riporta in superficie la nozione di Mitwelt (mondo comune) fondata a inizio Novecento dallo psichiatra esistenzialista Ludwig Binswanger, e che rimarca come l’essenza dell’individuo si trovi nello stare/vivere in comunità, in quanto l’identità condivisa è l’habitus primordiale dell’esistenza umana. L’essere umano, privandosi dell’esperienza collettiva, evita di conoscersi e, prospettiva ancora peggiore, non approcciandosi al confronto con gli opposti rischia di far fede esclusivamente al ragionamento. Ragionamento e deduzione logica che, ritornando alla Arendt e alle recenti analisi di Roger Berkowitz raccolte in Thinking in Dark Times: Hannah Arendt on Ethics and Politics, possono essere input per l’instaurazione di ideologie che, sconnesse dalla realtà, si radicano nel soggetto producendo principi antisociali, estremisti e talvolta distruttivi.
L’isolato, di conseguenza, tenderà ad assimilare meglio gli ordini e il pensiero predominante della sua epoca, senza opporre resistenza, perché nell’isolamento e nella solitudine a chi ci si può opporre se non a se stessi? L’attività di pensiero, pertanto, verrà a ridursi a semplice conformismo, al rispetto o all’ “adattamento” di principi che vengono stabiliti dall’alto e che nella solitudine trovano linfa, radicandosi e determinandosi come assoluti. Sporgendo lo sguardo sul presente, possiamo dire che le condizioni più esplicite di isolamento attuali sono vissute dalle minoranze, siano esse etniche o di genere, che nel sentirsi giudicate vengono punite attraverso una marginalizzazione in gran parte socialmente accettata.
E in queste isole in cui si è costretti a seguire il gioco perverso della tirannia, l’impotenza è lo stato d’animo che predomina chi vive costretto in una separazione senza vie d’uscita, perché a questo stadio non si può fare leva su se stessi, sulla propria volontà o su una connettività sociale che viene, di fatto, a mancare. L’individuo appare quindi denudato della possibilità di realizzarsi in essere umano completo.
Per resistere ai modelli e non farci inghiottire dalle banalità di un pensiero precostituito, bisogna cercare di divorare lo straniamento e l’isolamento, costruendo ogni giorno idee e desideri, senza perdersi in quel fiume veloce che rischia di traghettarci verso un’isola lontana, dove l’unico rumore udibile è il nostro eco.
*Francesca Futura Malanca in arte Futura.
Grazie al percorso di formazione affrontato, posso definirmi una persona riflessiva, con uno spiccato feticismo legato alla ricerca ossessiva del concetto insito in ogni cosa.
In ambito lavorativo, ho esperienze come Illustratrice, Art Director e Graphic Designer all’interno di agenzie milanesi e faccio dell’handmade il mio cavallo di battaglia.
Amo il colore nero, i miti greci, la sacralità e la lentezza.
Proprio da qui partono la maggior parte delle idee.
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