Disassembling landscape, smontare il paesaggio. Nell’arco di pochi mesi decine di villaggi hanno assistito alla consegna di vaste estensioni di terreno agricolo da sacrificare per fare spazio a enormi parchi eolici, strutture che faranno la fortuna di pochi e che renderanno un pessimo servizio al paesaggio, distruggendo tutte le progettazioni alternative che erano spesso in corso.
Le comunità non vengono interrogate, perché considerate non presentabili, oppure perché, se il progetto eolico è collocato in aree remote, la comunità semplicemente non esiste. Quando tanti anni fa ho cominciato a occuparmi di piccoli paesi, di frazioni che vivevano in contesti arcaici, le prime cose che mi dicevano erano che lì non c’era nulla, che non ci abitava nessuno, e che tutti i servizi, la manutenzione dei luoghi, non erano dunque possibili.
Sembra che più si vada avanti, insomma, e che più gli storici, le guide, gli archeologici, debbano innanzitutto “intrattenere”. I restauratori devono avere un pubblico, e se si vuole si può partecipare agli scavi, pagando. Raccontare le vicende storiche, linguistiche, spirituali, ha più senso che fare le degustazioni di oli o di vino solo se sono pubblicabili su Instagram. Ci siamo abituati a transumanze di turisti, che si spostano da un borgo all’altro per mangiare, bere, continuare a mangiare e tornare a casa sentendosi nutriti dell’esperienza enograstronomica. Fa tutto parte di un racconto legato alla bolla commerciale del cibo, della cucina, della ristorazione, che ha creato mostruosità come i parchi alimentari, spesso sviluppati in territori terremotati e affiancati da parchi giochi con animali lasciati in stabulazione in piccole celle. Dei tour a basso rendimento, in cui il visitatore è un automa, instradato in scaffalature che mostrano il paesaggio rurale come un packaging, una tipicità di facciata raccolta in tre parole chiave: territorio, locale, tradizione. Forse per questo quando al ristorante mi propongono qualcosa “del territorio“, non la prendo. Preferisco le patatine olandesi, congelate, irrorate di raggi gamma, piuttosto che qualcosa del territorio. Siamo la generazione di Chernobyl, sopravvissuta a una sequela di disastri, eppure ancora non abbiamo capito la lezione.
Non dovrebbe esistere l’esperienza a pagamento, almeno non nella maniera in cui è quasi sempre proposta e ragionata oggi. Servirebbe, invece, andare in un luogo con un minimo di informazione, con una conoscenza, anche di base, su ciò che si va a visitare, per essere coinvolti in una dinamica di esplorazione fluida, spontanea. Non pagare, quindi, ma imparare a stare con l’altro, senza la presunzione di sentirti accolti, coscienti di essere ospitati. L’essere turista, in generale e soprattutto in ambito rurale, significa poter rivendicare un rapporto di privilegio, “perché il turista può transitare e soggiornare in zone franche, ignorando, se vuole, convenzioni sociali e culturali, e rispettando l’essenziale degli assetti istituzionali, politici ed economici, nonché dei canoni religiosi e morali. Una complessa costruzione culturale ammette e legittima nell’Occidente contemporaneo che i soggetti assumano la condizione di turista con un unico vincolo: che sia temporanea”, come spiega Annunziata Berrino nel suo Storia del turismo in Italia, (il Mulino, 2011).
Si tratta dello stesso privilegio che rivendicano, per affiliazione o grazia ricevuta, una serie di professionisti del mondo accademico, editoriale, dell’innovazione, che si profilano come referenti di un mondo rurale o marginale senza esserci mai entrati in contatto, se non per mostrare se stessi. Alcuni progetti, bandi, call to action, ricerche, riportano la dicitura “dal basso”, nel senso che i processi attivati vengono creati, messi in atto, dalle comunità, dai gruppi di intenzioni, dalle persone che sul posto stabiliscono nuove dinamiche. In questo senso, gli unici soggetti che possono vantarsi di portare avanti azioni dal basso, sono le associazioni di volontariato, i gruppi civici, la Chiesa, le organizzazioni solidali e umanitarie che nascono spesso dalla spinta di un filantropo, che mette in circolo energia e trascina con sé un primo nucleo di amici, di vicini. Ontologicamente non può nascere nulla “dal basso” in un dipartimento di Università, in un centro ricerche, in un ente o in una qualsiasi struttura istituzionale. Perché la loro posizione è di dominio e dunque hanno, necessariamente, un atteggiamento utilitaristico nel ricettare le buone pratiche, nel raccontarle come un “loro” contributo alla ricerca. Sentono di avere più diritto di altri a partecipare. I rapporti all’interno di questi gruppi istituzionalizzati sono dunque ostativi, autoreferenziali e predatori. Insomma, si scannano. Si capisce così che chi è veramente mosso da un’ansia pura di partecipazione, chi viene realmente “dal basso”, non ha problemi a rinunciare all’anonimato dell’azione, meglio ancora, a immergersi in quell’anonimato, a differenza di un ricercatore universitario, che si sente invece tagliato fuori, o di un professore, insofferente in un format che prevede più autori. Il margine viene usato come luogo del mantenimento del sistema dominante, del privilegio.
Ma un’azione dal basso parla a tutti, in un approccio che non è controllabile, non è sindacabile, e che per questo risulta spaventoso. Non è un malinteso, ma qualcosa di territoriale, che ha a che fare con l’insicurezza del sentirsi esclusi, del non essere citati, del sentirsi marginali.
Certo è più facile relazionare su un progetto o su un patrimonio immateriale non verificabile, in un paese spopolato, raccontarlo come elemento di radicamento, senza che nessuno obietti. Mi chiedo spesso, tra vent’anni, quando faranno il punto nave della situazione delle aree interne negli anni ‘20 del 2000, e leggeranno una serie di articoli capestro su progetti di ripopolamento mai avvenuti, di ritorno nei borghi, di comunicati stampa, di lanci di notizia che hanno risolto ben poco o nulla, che idea si faranno. Capiranno che è stata una grande performance a discapito delle province? Riusciranno a trovare una bibliografia idonea che sappia dare conto dei progetti realizzati? Sarà utile a chi leggerà, ciò che è stato realizzato? Stiamo dando udienza alle istanze di popolazioni che non ci saranno più?
La ricerca sul margine, proprio perché è un argomento sensibile, innanzitutto per chi lo vive, è stata abbondantemente predata, facendo perdere le tracce di chi ha elaborato, mettendo nero su bianco la sofferenza di viverlo. In un articolo a firma Rachele Borghi, geografa, professora alla Sorbona e pornoattivista accademica, in Appunti dai margini al centro (Smagliature digitali. Corpi, Generi e Tecnologie, Agenzia X) si scrive: “Nel suo celebre testo del 1989, bell book affrontava da una prospettiva originale il tema della marginalità. La sua lettura del margine come spazio di resistenza e luogo radicale di possibilità offriva una visione impoterante della marginalità, vista come uno spazio di creazione e non di sottomissione. Questa inversione del punto di vista permetteva di pensare il margine come uno spazio da abitare, in cui trovare il proprio posto, dove stare e non solo come uno spazio di transito nell’attesa di raggiungere il centro. Si tratta di un cambiamento epistemologico cruciale: i margini diventano spazi di creazione, di condivisione, di elaborazione, di epistemologia collettive”.
Gli spazi accademici o istituzionali non offrono la possibilità di un’analisi critica e oppongono forti resistenze alla diffusione di nuove metodologie. Come ricorda, di nuovo, Rachele Borghi: “L’università è uno spazio privilegiato di esercizio del potere istituzionale”.
Non si possono analizzare i paesi, le frazioni, senza considerare le scelte locali, le storie che attraversano le comunità. Non si possono teorizzare ritorni, né integrazioni con nuovi interventi strutturali che siano trasversali e uguali dal Nord al Sud, perché non si è stati in grado di intercettare le problematiche, che sono diverse da paese a paese, anche nell’arco di pochi chilometri.
La sequenza di progetti che vanno sotto il nome di “rigenerazione”, di “ripopolamento” dei borghi, alimentano solo un immaginario di possibilità e di ritorni, purtroppo non verificati. Oppure sono progetti elitari, finanziati da filantropi che a un certo punto potrebbero decidere di defilarsi, mandando tutto a monte da un giorno all’altro. O ancora, e troppo spesso, sono progettazioni che faranno la fortuna di pochi, a discapito di chi ci risiede da sempre, che continuerà invece a pagare il costo di vivere ai margini e la mancanza di infrastrutture, assistendo all’arricchimento personale di chi ha messo in vendita il patrimonio più grande che abbiamo: la comunità.
Anna Rizzo, antropologa, studia ed esplora contesti culturali arcaici, vivendoci. Si occupa della trasformazione economica in aree a forte spopolamento in Europa e di forme residuali di culture rurali.
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