“Ricordo d’aver atteso, un giorno, a Dodona vicino all’oracolo il buio della notte. Tutto intorno, monti e colline avevano raggiunto la vibrazione opaca e intensa delle cose vive, pronte ad immergersi nel mistero notturno. Una lunga ondata di commozione interruppe il discorso logico e quanto mai scientifico che avevo iniziato: una sorta di monologo a voce alta nella penombra di Dodona. «Qual era mai la forza che legava la Grande Dea, la Signora del mondo, ai morti abitatori dell’Ade? Perché lo sguardo della dea aveva un lampo fatale, mortale, che il simulacro colossale di Lykosura ha conservato attraverso i millenni? Chi era, in conclusione, la prima regina di Dodona, quella che parlava attraverso l’oracolo? O almeno, chi le stava al fianco, nell’ombra delle caverne infernali?”
(Dodona, il feudo sacro di Zeus, scritto incompiuto di F.Jesi, primi anni Sessanta)
C’è stato un momento, in Europa, in cui l’avanguardia, intesa come rottura con il passato, era fatta di atmosfere sospese e indefinite, di vapore e malinconia, di devozione alla storia e di sentimenti vibranti e dunque, di uno strano miscuglio di singolare e plurale. La culla continentale di questa avanguardia, che si volle chiamare Romanticismo, fu la Prussia degli Hohenzollern, la casata che aveva come motto Nihil sine Deo (nulla senza Dio) e che perse il potere alla fine della prima guerra mondiale, quando evidentemente quello stesso dio li aveva abbandonati.
Fino alla Repubblica di Weimar, volendo trovare un punto preciso nel tempo che abbia un minimo di senso, rimase fortissimo il legame del timorato popolo tedesco con la religione. A quei lavoratori bevitori di birra, Dio teneva compagnia nelle grigie giornate invernali e nelle tiepide estive, scandendo il tempo con le campane, qualche liturgia, le candele dell’avvento. Un dio quotidiano, quello tedesco, nascosto come quello di Cusano, impredicabile come quello di Eckart e forse per questo destinato a radicarsi più profondamente nell’animo dei singoli, attraverso fenditure carsiche difficilissime da sondare, alle quali verrà data espressione compiuta con la Riforma.
Possiamo considerare la relazione con il sacro l’origine, la urquelle, la fonte primigenia del Romanticismo tedesco? Di quella tendenza ad alimentare i sentimenti abissali e covarli, tenerli al caldo come uova fino a quando son pronte per schiudersi, per volare o morire? Possiamo dire che durante il Romanticismo per l’appunto essi spicchino il volo per poi esplodere, e diventare i centri propulsori, i trampolini, i motori delle arti figurative, della poesia, della letteratura e della critica, invertendo e dunque estrovertendo la strada che fino ad allora era rimasta nel silenzio dei singoli cuori? Perché è proprio in quel momento che da sorgente il sentimento si fa cascata, sublime infinitezza, Sturm und Drang. E non a caso si dà ad esso, proiettandolo in un tempo impossibile, che non è futuro e non è passato, svincolandolo dal pensiero religioso che voleva tutto per se’ il desiderio totale, un nome dal suono dolcissimo e dolente: Sehnsucht. Intraducibile, perché nella traduzione qualcosa si perde. Irrisolvibile, costituzionalmente. Raro, imprendibile, e oramai quasi estinto, sotto il peso del ben più spendibile Nostalgie, proiettato nel passato e di gran lunga più certo.
Unicum tra i linguaggi europei, Sehnsucht è il solo vocabolo in grado di descrivere quel preciso stato d’animo che traduce l’infinito bramare, la vertiginosa, dolorosa tensione verso qualcosa che si riesce a vedere o scorgere ma non si conosce davvero; verso qualcosa o qualcuno che dovrà mancarci sempre, per lasciare che viva e brilli come irraggiungibile meta e come alimento erotico. Lo stato d’animo che appartiene naturalmente a chi è solo e volentieri delira, e ai mistici fuorilegge.
Alla lettera, la parola deriva dall’antico termine tedesco sehnen e da sucht, che indicano rispettivamente il desiderio e la ricerca di esso, l’anelito e la dipendenza attiva e malata, sconveniente come l’eroina. Ma gli etimi in questo caso sono piccoli scogli nel grande mare, e chi prova la Sehnsucht non saprà che farsene, conoscendo già tanto bene l’inutile gloria, la fame e la sete irriducibili e intime. Se capace di sostenerla a lungo, di trascinarsi dietro tutto il suo peso rarefatto senza smettere di cercare, chi dipende dal desiderio diventerà santo o poeta o folle, o tutto questo, o filosofo. Chi invece ne farà un’abitudine, una posa da maudit, chi ne farà una semplice tautologia arrotolando il filo di chi lo ha preceduto, prosciugherà la fonte, e finirà nel pozzo cieco e sterile della maniera, aderendo a qualcosa di ben diverso dalla malattia del doloroso bramare.
Dopo essere maturato alla luce delle vertiginose vetrate gotiche, e prima di venire alla luce come cifra preromantica, il dolente sentire era stato disciplinato e depotenziato dalle dottrine illuministe, che poco spazio intendevano lasciare al sentimento. Prendiamo Baumgarten: con la nascita (per così dire ufficiale) dell’Estetica come scienza della sensazione e del bello, nella Prussia del Settecento concedeva uno spazio filosofico preciso all’aisthesis, alla sensazione. Ma dove? All’interno di quello spazio teoretico, la sensazione non era stata connessa al sehnen, a ciò che appartiene alla sfera del sentimento, ma ne era diventata piuttosto l’istitutrice con gli occhiali, che ti sa dire cosa devi trovare bello e perchè, senza troppe chiacchiere circa quello che poco dopo F. Schlegel chiamerà sentimentalscher Stoff in einer phantastischen Form, contenuto sentimentale in forma fantastica.
Con tali premesse, fu fisiologico il successivo affermarsi della Sehnsucht: deflagrò, visse la sua età dell’oro, fugace comme il faut, con la stagione di Novalis e dei primi romantici, dopo la quale però la parola cominciò ad assumere una connotazione via via più negativa, venendo a indicare un atteggiamento puerile, acerbo, da feuilleton, da romanzo di appendice, rimanendo imprecisa e sbilenca, attaccata a quei due scogli di prima senza poter essere afferrata.
Provò a nascondersi ancora, a porre il desiderio del desiderio in una dimensione lontana dalla vita reale, come quella divina, dove per secoli aveva brillato. Provò a rivivere nel passato. Qualcosa però era cambiato:
Du musst glauben, du musst wagen,
Denn die Goetter leihn kein Pfand,
Nur ein Wunder kann dich tragen
In das schoene Wunderland
Devi credere, tu devi provarci
Perchè Dio non ti concede nessun pegno
E soltanto un miracolo ti può condurre
Nella terra delle meraviglie
(Sehnsucht, F. von Schiller)
Una volta dichiarati morti l’Impero e il dio che non concede nessun pegno, che ne è stato della malattia del bramare, che scorreva sottotraccia nella cultura tedesca da secoli, da quando l’Impero fu proclamato heilige, sacro?
Una traiettoria possibile la indica il germanista Furio Jesi, di cui val la pena ripercorrere la storia.
Jesi nacque a Torino, nel 1941. Orfano di guerra in precocissima età, abbandonò la scuola a quindici anni, e non vi fece mai ritorno. In compenso divenne professore ordinario di Storia e letteratura tedesca a Palermo e Genova, dopo anni passati sui testi e sul campo da autodidatta. Tuttavia, una volta divenuto professore per “chiara fama”, Jesi non cambiò il modo di intendere il suo lavoro. Lo si vede dai libri che pubblicò negli ultimi anni della sua vita che spaziano dall’etnologia e l’antropologia (l’antologia La festa, Torino, 1977), all’archeologia (Il linguaggio delle pietre, Milano 1978), alla letteratura tedesca (Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke, Napoli-Messina, 1976), alla sopravvivenza del mito nella cultura moderna (Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea, Torino 1979; Cultura di destra, Milano 1979). Tutto questo insieme di cose, va quasi da se’, fece di lui e un pensatore originale, e un sistematico. Mentre nel vecchio continente l’attualità bruciava, Jesi decise di muoversi anche (perché anche alla stretta attualità si dedicò, e tanto) negli sconfinati territori dell’antropologia e del mito. In un clima da rivoluzione, la rivoluzione decise di farla tornando a studiare i classici, ma da nuove prospettive.
Nell’Italia delle bombe e delle stragi di Stato, del Terrore nero e di quello rosso, e parallelamente teso verso la Germania di Baader und Meinhof, passa i suoi giorni a interrogarsi come leggere il tempo, quello passato che ritorna nel presente, che permane come il cielo di Racine, da lui stesso evocato come Weltbild del mito (la perseverance del mito). E fa nascere così una vera scienza, basata non sul mito stesso, ma sui materiali mitologici, non su quella troppo fragile categoria, buona per qualsivoglia utilizzo, ma su determinati, chirurgici oggetti:
Parlare di scienza del mito significa già sgomberare il terreno da qualche equivoco: oggetto di tale scienza non è il mito, il meno quid che si possa immaginare, ma i materiali mitologici, i racconti intorno a dei, esseri divini, lotte di eroi, discese agli inferi, dunque-sembrerebbe- un quid storicamente e filologicamente verificabile, sul quale una scienza ha facoltà di operare.
Così come la scienza del mito di Jesi si determina attraverso punti precisi, precisi topoi della più antica tradizione letteraria, la Sehnsucht, malgrado la sua indeterminatezza concettuale (o forse proprio per quello), ha bisogno di manifestarsi verso direzioni specifiche, ossessive: Dio, la persona amata, e nelle versioni più contemporanee, un nuovo modello di automobile o le labbra di quella attrice americana. Desiderata che hanno una caratteristica comune, che li riconnette ancora al mito: la loro lontananza, la loro eterna possibilità. Da qui, da questo passaggio cruciale e fondativo della mitologia, deriva la sua più radicale affermazione, e la legittimità della Sehnsucht intesa come mito in senso jesiano: la sua irraggiungibilità.
Dinanzi alla parola mito si pensa naturalmente ai miti degli antichi, agli dei e agli eroi dei Greci e dei Romani, a Giove, a Venere, Ercole, alle loro vicende e alle loro immagini. Cosa ci permette, nell’uso corrente, di adoperare questa parola per indicare sia un’automobile, sia un dio degli antichi? Un denominatore comune ci deve essere. Non si tratta di un’associazione puramente irrazionale. E un denominatore comune c’è. Si chiama attualmente mito, qualcosa di attraente, di bello, ma anche di non vero o di irraggiungibile (…) talvolta addirittura pericoloso.
(Studi su Rilke, Quodlibet 2002)
Jesi, arrivando a codificare i miti della cultura tedesca, partendo dal traduttore di Benjamin, dal Faust di Mann, dall’abisso di Heidegger e più in là ancora, e più profondamente, dall’esoterismo di Rilke, ci offre un modo possibile per dare un secondo senso a questa parola dolce e intensa come l’oppio, nel quale ci si perde. Facendola viaggiare sul piano della storia, essa diventa un simulacro, per usare un’immagine à la Deleuze, che proprio intorno alla sua antropologia del desiderio, della sua idea di uomo inteso come macchina desiderante, costruirà le sue seminali visioni. Desiderio, simulacro, mito: tre idee che ritroviamo nella parola che qui si cerca di prendere in esame, che se potessimo comporre in italiano come si fa col tedesco forse oggi suonerebbe tradotta come miticosimulacrodeldesiderio.
A muoversi nei fragili territori della Sehnsucht, paludosi e brumosi come la Pomerania di Caspar Friedrich, saranno inevitabilmente tanti, nel corso della storia tedesca. Tra i primi a connettere il sentimento della Sehnsucht con i nuovi bisogni dell’uomo dell’era industriale post weimariana, dando ad esso una sistemazione che ancora oggi risuona, fu Ernst Jünger:
L’uomo si è apparentemente liberato, ma in realtà è finito tra gli ingranaggi spietati del dubbio, dove ogni risposta genera un’altra domanda. Il risultato di tutto questo è una profonda insoddisfazione, che si estingue nei piaceri e nei tormenti dello spirito e della materia; e alla quale, alla fine, si rende dolorosamente evidente la perdita di una sicurezza inattaccabile e del saldo riparo in uno spazio senza tempo. Viene così a crearsi un singolare stato di struggimento [Sehnsucht]: una volontà di credere [der Wille zum Glauben] che non può tuttavia ritrovare la fede, né può rimpiazzarla con altro.
(La santa in automobile, in Scritti politici e di guerra, LEG 2005)
L’irraggiungibilità del mito, la sua presenza costante nelle nostre vite attraverso nuove e effimere forme, fa sì che quel sentimento una volta riservato a anime belle e poeti, sia in realtà diventato, in una forma vaga ma pervasiva, l’indefinibile rumore di fondo della storia tedesca, terra incognita secondo la lettura che di Jünger fa Carl Schmitt.
Pare dunque essere questo ciò che ancora oggi, quando ancora è vivo il ricordo della tragedia nazista, riesce forse a mettere in discussione la Sehnsucht: la nozione di tempo lineare e rigorosamente delimitato, di passato presente e futuro verificabili, gestibili, a misura di intelletto. Il soggetto della Innere Emigration, che sente, percepisce, vive, rimane l’unico testimone dei giorni e del mito, senza le pretese di dover far chiarezza, senza alcun romantico ètalage du moi.
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