“Lo so che è una cosa irragionevole, che solo un fanatico può essere incapace di perdonare l’accumulo di innocui sottoprodotti creati da una vita di benessere. Matisse (la linea pura, l’acquamarina non temperata) ha paragonato un dipinto a una poltrona, e Dickens faceva ridere la gente. Lo so che il saggio sulla montagna è solo un personaggio da cartone animato. La vita reale si vive nei dettagli, nelle tazze di plastica dei Teletubbies e nei coperchietti di plastica per ritappare le bottiglie che non funzionano mai. Perdiamo cellule morte a miliardi e continuiamo la nostra folle corsa in una nuvola di forfora, riempiamo i buchi con vasetti vuoti di Yoplait, non c’è economia in questa nostra assurda messinscena, né dovrebbe essercene. Ho il sospetto che solo chi vive comodo apprezzi il valore della sofferenza. Ma io voglio una vita corta, aracnoide, fatta di arte e acrobazie, voglio lasciare agli altri il latte cagliato e il siero. Voglio una vita da petardo: uno sfrigolio e bum, tutto finito.” (1)
Teoria 1: Shelley Jackson non è Shirley Jackson
Sono in visita a Roma da una cara amica. Brille di Campari e sconsolate dalla vita, entriamo in una piccola libreria di Trastevere. Nonostante mi sia ripromessa di non comprare libri fino a che non avrò finito quelli che ho già sul comodino ad aspettare, mi avvicino alla ragazza dietro al bancone e le chiedo se non abbiano Shirley Jackson. Lei non mi guarda, non mi sorride, semplicemente batte qualche tasto sulla tastiera e mi dice che no, non ce l’hanno più. Io alzo le spalle e continuo a girare tra gli scaffali. La mia amica si è avvicinata alla porta e so che ha voglia di uscire. Sto per girarmi e raggiungerla quando scorgo una J, eccola, la Jackson, in un’edizione minimum fax con la copertina rosa salmone. Prendo il libro e cammino trionfante verso il bancone, sventolandolo sotto al naso della libraia. L’ho trovata, le dico, con la faccia da telavevodetto. Lei lo guarda, si sistema i capelli dietro alle orecchie, raddrizza la schiena, prende il libro in silenzio, lo sfoglia e dice: “Questa è una perla.” Io gonfio il petto. “Non pensavo ne avessimo ancora in negozio, è un’edizione vecchissima”, aggiunge poi. Io gongolo sfacciatamente, e non riesco a trattenermi dal dirle che “mi sembrava strano che non aveste la Jackson”. Lei a quel punto mi guarda in faccia per la prima volta, scuote leggermente la testa e batte a malincuore il libro in cassa. La mia amica è fuori ad aspettarmi, con l’ombrello aperto a ripararci dalla pioggia. “Be’, che hai preso?”, mi chiede. “Shirley Jackson”, le dico io, “una maestra del gotico americano”. Poi ci infiliamo in una taverna a mangiare carciofi, bere vino acido e parlare di tutt’altro.
Mi dedico finalmente al libro solo in aeroporto. È un’edizione del 2004 e sulla copertina è raffigurata una foto ravvicinata delle pieghe sul palmo di una mano. Si chiama La melancolia del corpo ed è una raccolta di racconti suddivisi in quattro sezioni: Collerici, Melancolici, Flemmatici e Sanguigni. Per prima cosa leggo la biografia dell’autrice sull’aletta posteriore: “Shelley Jackson è nata nelle Filippine (te pensa, non lo sapevo), è cresciuta in California e vive a Brooklyn (in che senso vive? È morta da un pezzo!). È autrice di un ipertesto di culto, The Patchwork Girl, e questo è il suo primo libro”.
Chiudo il libro, alzo lentamente la testa e guardo fisso davanti a me. La prima teoria su Shelley Jackson inizia a formarsi dolorosamente nel mio cervello, colpendomi come una mela in testa, attratta dalla forza di gravità: Shelley Jackson non è Shirley Jackson.
Sul viaggio di ritorno non leggo, ma prego affinché la libraia di Trastevere venga presa da una qualche forma di amnesia che la costringa a dimenticarsi di me per sempre. Quando arrivo a casa, metto Shelley Jackson sul comodino insieme agli altri ad aspettare.
Teoria 2: Shelley Jackson è pazza
Shelley Jackson, però, non è un libro come gli altri. Non se ne sta buona sul comodino a fare finta di non esistere, senza pretendere niente, come i suoi disciplinati consimili. No. Shelley Jackson mi minaccia con lo sguardo, come fanno gli anziani sui mezzi pubblici quando si aspettano che venga loro ceduto il posto, seppellendomi sotto strati di sensi di colpa. Allora io mi arrendo. Apro il libro e leggo “Cuore”, il primo racconto, l’unico a non rientrare nella tassonomia umorale ippocratica.
“Ho dedicato la mia vita all’osservazione dei cuori. Osservare, certo, non è il termine adatto per indicare la pazienza con cui coltivo punti ciechi, il tentativo di capire, attraverso i modi in cui, lo ammetto, non lo capisco, che cos’è il cuore.” (2)
Il racconto consiste di tre paginette scarse, di cui non capisco praticamente niente. Sfoglio velocemente il libro e provo ad andare avanti, passando ai racconti – o agli elementi – Collerici. Inizio “Spermatozoi”:
“Noi ospitiamo i nostri spermatozoi in stalle che abbiamo dipinto a pois e li strigliamo con spazzole morbide e panni di camoscio. Gli facciamo vedere la cannella in modo che possano dare il loro assenso, poi gli conficchiamo l’estremità appuntita nel fianco con un mazzuolo e agganciamo l’altra estremità al secchio.” (3)
Sono più confusa di prima. Ritento la fortuna con la sezione dei Melanconici, scorrendo gli occhi su “Dildo”:
“Il re di Svezia aveva un dildo incantato grazie al quale poteva comandare gli spiriti, creare turbini nell’aria e far tirare un vento costante in qualunque direzione volesse, al punto che, quando c’è un forte o una procella, il volgo usa dire: ‘il re si è messo il dildo incantato’.” (4)
Niente. Chiudo il libro. Isso bandiera bianca. In qualche modo, sento che il libro sta cercando di dirmi qualcosa, ma non capisco cosa, né come, né, soprattutto, perché. È un po’ come parlare con una persona che vive fuori dai parametri della realtà condivisa, che parla per frasi sconnesse, cita fonti inesistenti, spergiura fatti non verificati, eppure sospettare che questa persona abbia capito qualcosa che a me, a noi, sfugge. Però a me, a noi, non piace pensare che certe cose ci possano sfuggire. Per un meccanismo di difesa, o comunque vogliamo chiamarlo, tendiamo a credere che il problema non risieda in noi, ma in loro. Noi siamo i normali, loro sono i pazzi. La seconda teoria prende il sopravvento: semplicemente, Shelley Jackson è pazza. Alda Merini diceva che Di fatto, non esiste pazzia senza giustificazione e ogni gesto che dalla gente comune e sobria viene considerato pazzo coinvolge il mistero di una inaudita sofferenza che non è stata colta dagli uomini.(5) Io, invece, rimetto il libro sul comodino e mi sento in pace con me stessa.
Teoria 3: Shelley Jackson è completamente pazza
Shelley Jackson però continua a fare il suo giochino, quel suo guardarmi beffarda e inquietarmi con la sua presenza. Allora digito il suo nome su Google e viene fuori che il suo progetto più famoso, Skin, è un racconto di duemila parole, ciascuna delle quali tatuata indelebilmente sul corpo di duemila persone diverse.
Era il 2003 quando ha lanciato un appello online – “Become a word!” – e più di diecimila persone da tutto il mondo hanno risposto. Le regole del gioco erano semplici: nessuno poteva decidere che parola farsi tatuare, solo la posizione sul corpo. I partecipanti, una volta prescelti e tatuati, non sarebbero stati portatori o agenti del testo, quanto vere e proprie incarnazioni: sarebbero diventati parole. Anche l’autrice stessa, con il titolo della storia tatuato sul polso, è una parola, ma non una qualunque, lei è Skin, il titolo, la parola regina. Solo le parole hanno ricevuto il testo intero del racconto, a patto però che si impegnassero a non divulgarne mai il contenuto.
Il racconto è smembrato, effimero e viaggia per il mondo. Il racconto è vivo, ma è anche “un’opera d’arte mortale”, nel senso che alla morte di una delle sue parole, o della sua autrice, la storia cambia, si riforma, fino a che non morirà anche l’ultima parola e allora il racconto scomparirà. Shelley si è impegnata formalmente a cercare di partecipare a tutti i funerali delle sue parole. Alcune ammettono di essersi proposte per il progetto solo perché “almeno ci sarà qualcuno al mio funerale”. Altre hanno chiesto all’autrice di poter lasciare in eredità la loro parola ai figli, di modo che non vada perduta. Altre ancora, quando hanno mandato la candidatura, hanno ammesso di essersi proposte per il progetto nella speranza di poter creare una comunità differente. Di fatto, le parole hanno iniziato a creare gruppi online dove si cercano a vicenda, parlano del racconto, e alcune si sono anche incontrate di persona. Ci sono parole che hanno inviato all’autrice delle cartoline di Natale. Un’altra le ha cucito una sciarpa all’uncinetto. A Shelley piace l’idea di poter dire “ho ricevuto una mail rabbiosa da una delle mie parole” o “due delle mie parole si sono sposate!” L’autrice teme anche che possa crearsi una sorta di sistema di caste tra le parole, dove i comuni “e” o “ma” verranno sbeffeggiati dalle parole più raffinate – o magari, spera, gli articoli e le preposizioni si coalizzeranno contro agli aggettivi, creando il partito dei “il” e dei “da”. In ogni caso, dice, “sembra che abbia fondato una strana sorta di famiglia”. Shelley ha preso anche in considerazione l’idea di farsi cremare, quando morirà, così da poter inviare una sua boccetta di ceneri a tutte le parole ancora in vita.
Nel 2011, il Berkeley Art Museum ha organizzato una mostra sul progetto. Per l’occasione, l’autrice ha creato una versione ridotta del racconto, che comprende solo 895 delle parole originali (molte ripetute). Su YouTube c’è un video di questa versione. Una selezione dei commenti sottostanti al video ci permetterà di comprendere i principali stati d’animo che ha causato il progetto. Il primo descrive la delusione di non essere riusciti a parteciparvi: “One of the tragedies of my life is that I didn’t get to be a word…in spite of nagging the author. You guys are lucky!” Il secondo, invece, esterna la gioia di avercela fatta: “I’m so excited to be a part of something so large. I’m always proud to show off my tattoo and tell people why I have a word on my shoulder.” Il terzo, infine, con un dono della sintesi encomiabile, è quello che meglio esprime la sensazione che ho provato anche io guardando il video: “What”. Esatto. Cosa. Poi ho capito: Shelley Jackson non è pazza, Shelley Jackson è completamente pazza.
Teoria 4: Shelley Jackson è punk
Il sito personale di Shelley Jackson si chiama Ineradicable Stain (macchia inestirpabile). L’acronimo del nome è “is”, verbo essere alla terza persona singolare, è. Il sottotitolo recita “disperazione, speranza riluttante, entusiasmo, gioia, disperazione”. L’estetica è quella tipica da pagina web delle librerie di quartiere gestite da vecchi scorbutici che hanno preferito farsi il sito da soli piuttosto che chiedere una mano alla nipote tecnologicamente più abile: interfaccia sconnesse, troppo testo, scritto troppo piccolo. I colori dominanti sono il nero e il rosso. Un’offesa per noi schiavi dell’estetica millennial, abituati alle nuance pastello, al minimalismo e alle scritte sans serif. È un sito ironico, giocoso e scontroso, non ha niente a che vedere con le pagine web autopromozionali che ci si aspetterebbe dalle scrittrici contemporanee. Non c’è una biografia dell’autrice vera e propria, quanto due sezioni, una chiamata “who is is” e l’altra “who is isn’t”. Nella prima si trova, tra le altre cose, una foto che la ritrae con in mano una pistola a cui è attaccata una Barbie, dove la didascalia recita: “Shelley Jackson è fiera di indossare il costume tradizionale delle sue genti”. Nella seconda si trovano invece una serie di indizi su chi non è Shelley Jackson. La sezione dedicata alle sue pubblicazioni (libri, libri illustrati, articoli, racconti e saggi) è sottotitolata “il mio punto dolente”. Il resto dei link rimanda ai suoi svariati progetti: i romanzi in ipertesto reperibili solo su CD-ROM o chiavetta USB; il racconto scritto sulla neve di Brooklyn (il cui finale è ancora aperto, perché la neve si scioglie sempre prima che Shelley finisca di trascriverlo); un gioco gratuito da fare con carta e penna.
Il mio progetto preferito è quello della Biblioteca Interstiziale, una “collezione in circolazione” pensata per coloro i quali non possono visitare la collezione permanente della biblioteca (che peraltro non esiste, o meglio, non come luogo definito e circoscritto). “La collezione in circolazione della Biblioteca Interstiziale trova luogo in nessun luogo preciso. Le sue vaste proprietà sono sparse tra collezioni private, librerie di seconda mano, altre biblioteche, negozi dell’usato, discariche, mansarde, rimesse, alberi cavi, navi affondate, il cassetto inferiore delle scrivanie degli scrittori, l’immaginazione dei non-scrittori, le pagine di altri libri, il futuro possibile e il passato inaccessibile. In un certo senso, questa biblioteca è sempre esistita. Tuttavia, fino ad ora non ha avuto né delle bibliotecarie, né un catalogo, né un nome. La Biblioteca Interstiziale non aspira alla completezza. Difatti, noi supportiamo l’incompleto, il temporaneo, il provvisorio, il circolante e, ovviamente, l’interstiziale. Soprattutto, ci proponiamo di acquisire e catalogare quei libri che sono essi stessi interstiziali: che non ricadono in categorie di argomenti scontate; che sono noti per qualità raramente riconosciute dalle istituzioni tradizionali; che non esistono più, non esistono ancora, o sono del tutto immaginari.”
Il sito della Biblioteca Interstiziale imita fedelmente la struttura dei siti delle istituzioni ufficiali, con una sezione per le FAQ, un glossario, e una storia della biblioteca. È quasi una satira sociale, dove ogni sezione, canzonando il tono ufficiale e accademico, apre un portale di riflessioni filosofiche, esplorazioni del linguaggio e dei suoi significati.
Il confine tra pazzo e punk è molto elastico. Punk è stridore, sarcasmo, rifiuto delle convenzioni sociali esistenti. Punk è antiautoritario, imperfetto, incompleto. Punk è rabbia, esplosione, è Do it yourself. Punk è menefreghismo, arroganza, propulsore di comunità alternative e solidali. Punk è margine, substrato, contaminazione capillare. Punk è strambo, collettivo, materiale. Punk è sperimentazione sul e con il corpo, ne indaga il dolore, ne sconvolge i limiti tra modificazioni e amputazioni.
Fuoriesco dal labirinto del suo sito con un dubbio nuovo: Shelley Jackson, forse, non è pazza. Shelley Jackson, forse, è punk.
Teoria 5: Shelley Jackson è deleuziana
Ma il punk non mi basta, ho bisogno di una teoria che scavi più a fondo. Il punto è che, oltre la superficie, i disparati progetti di Shelley Jackson lasciano intravedere una serie di tematiche ricorrenti: il corpo, le parti, l’identità, l’effimero, la permeabilità. Ci dev’essere un filo conduttore da qualche parte, qualcosa che attraversi e colleghi il tutto. Dato che non riesco a riordinare le idee, provo a buttarle ancora più nel caos, leggendo l’opera di Shelley Jackson attraverso le lenti dei Millepiani di Gilles Deleuze e Félix Guattari, lenti che nel mio caso sono zigrinate, sfuocate e appannate. Avete presente Citare Deleuze per spiegare cose a caso? Ecco, anche io.
Ne La melancolia del corpo, l’autrice stravolge la classificazione anatomica dall’interno: a formare l’organismo, insieme al cuore, i nervi e il sangue, sono anche il cancro, il dildo e il sonno. Costitutivi della persona sono gli elementi che lo incontrano, lo condizionano e ne alterano l’equilibro, anatomici o meno che siano. L’identità si scompone. Imogen, la protagonista del racconto “Uovo”, riflette sulla natura degli esseri umani: “Noi studiamo per diventare cose, impressionati dalla loro costanza. Insomma, possiamo ingoiare una pietra e il giorno dopo ritrovarla in fondo al water, intatta; noi una tale ostinazione ce la sogniamo. Ma non è quella la nostra natura, noi siamo fatti per afflosciarci, sgocciolare, scorrere; attraverso di noi prorompono acque, e siamo pieni di curiosità e passione.”(6)
“Sarai organizzato, sarai un organismo, articolerai il tuo corpo – altrimenti non sarai altro che un depravato. Sarai significante e significato, interprete e interpretato, altrimenti non sarai altro che un deviante.” (7)
In Skin, il corpo del testo è smembrato e tatuato sulle membra di diversi corpi umani, fallaci e mortali. La storia non sopravvive al tempo e allo spazio, non è scripta manent – protetta tra due copertine, ma è caduca ed effimera, spalancata alle differenze che la vita vi imprime. Skin parte dall’assunto del cambiamento, della permeabilità e della collaborazione. Disarticola la tanto agognata eternità del testo letterario e del suo autore.
“Un libro non ha né oggetto né soggetto, è fatto di materie diversamente formate, di date e velocità molto differenti. Non appena si attribuisce il libro a un soggetto, si trascura questo lavoro delle materie e l’esteriorità delle loro relazioni. Si fabbrica un buon Dio per dei movimenti geologici. In un libro, come in ogni cosa, ci sono linee di articolazione o di segmentarietà, strati, territorialità, ma anche linee di fuga, movimenti di deterritorializzazione e di destratificazione.” (8)
Il catalogo della Biblioteca Interstiziale annovera testi mai scritti, che verranno scritti in futuro, mai letti da nessuno. È un catalogo mobile, entità in continua trasformazione, in dialogo con ciò che è morto ma continua a esercitare la propria potenza d’agire, con ciò che ancora non è venuto ma che, in potenza, già è.
“L’Uno si dice in un unico e medesimo senso di tutto il molteplice, l’Essere si dice in un unico e medesimo senso di tutto ciò che differisce. Non parliamo qui dell’unità della sostanza, ma dell’infinità delle modificazioni, che sono le une parti delle altre su questo unico e medesimo piano di vita.” (9)
Nel 2018, Hermione Hoby del New Yorker è andata a casa di Shelley Jackson per un’intervista. Nell’articolo ha descritto la casa dell’autrice come luogo pieno di oggetti assurdi, mostruosi, accozzaglia di manufatti raccattati dai più svariati angoli della città. Mentre le due osservavano l’enorme canguro color pastello che stava sulla porta d’ingresso, Shelley le ha detto che per lei gli oggetti inanimati sono interlocutori potenziali. È come se “stessero cercando di dirci qualcosa, ma, poiché non possono articolarla pienamente, questo qualcosa resta sospeso.” La riflessione sulla comunicazione, o sulla impossibilità di comunicare, ha trascinato l’intervista verso il terreno del linguaggio: per Jackson, il linguaggio è, in senso esteso, una forma di comunicazione con i morti. Ogni volta che parliamo, dice Jackson, “stiamo facendo eco alle parole che le persone prima di noi hanno detto.” Quando leggiamo, comunichiamo costantemente con “gli spiriti delle persone passate. La maggior parte dei miei scrittori preferiti sono morti, il che è un po’ come dire che la maggior parte delle mie persone preferite sono morte. Ma questo non mi ha impedito di tenere ottime conversazioni con loro.”
Così come l’organismo non è la somma ordinata degli organi, così le parole di un racconto non limitano la loro potenza d’agire ai confini del testo, così la morte agisce positivamente sulla vita, sul linguaggio che è l’intelaiatura dell’esistenza umana. Ovunque regna la pluralità, la coesistenza di forze, l’orizzontalità: l’opera di Shelley Jackson è un “un puro piano d’immanenza, di univocità, di composizione, su cui tutto è dato, su cui danzano elementi e materiali non formati che si distinguono solo per la velocità ed entrano in un determinato concatenamento individuato secondo le loro connessioni, i loro rapporti di movimento. Piano fisso della vita, dove tutto si muove, ritarda o precipita.” (10)
Appena ventenne, Jackson si è tatuata una “&” sul braccio, per dichiarare “fedeltà al principio della pluralità – per non essere disposta a permettermi di venire ridotta a un’identità, a un progetto o a una forma d’arte”. (11)Di Shelley Jackson, così come di Deleuze, ci capisco poco, ma quel poco mi basta per convincermi del fatto che sia un genio.
Teoria sesta e conclusiva: Shelley Jackson è un genio
Il mio professore di Storia e Filosofia del liceo diceva che “la Storia è una massa di letame: bisogna infilarci dentro le mani per trovare le perle”. Penso alla libraia di Trastevere che, con La melancolia del corpo tra le mani diceva: “questo è una perla”. Io sento di averci sguazzato, nel letame, e di essere pronta, adesso, a pescarne le perle.
Riprendo La melancolia del corpo dal comodino con timore reverenziale. Comincio dall’inizio, un racconto dietro l’altro, con calma. Tra l’assurdo generale (l’ironia, la non veridicità, gli enunciati incomprensibili) si nascondono passaggi di rara bellezza. Ognuno di questi passaggi, man mano che si procede, getta luce sul senso di tutto il libro, su di una visione del mondo che fornisce nuove prospettive per guardare, comprendere, la vita. Tredici racconti, ognuno dedicato a una parte del corpo. Nessuno di questi elementi corporali assomiglia o ricopre le stesse funzioni secondo cui siamo soliti intenderli. Il catarro è sensuale e donarlo allo Stato è un dovere civico; il cielo ci ama e la pioggia (di latte) è una dimostrazione del suo affetto per noi; la Terra ha le mestruazioni una volta al mese e, prima che il terreno venisse sigillato ermeticamente sotto alle città (nel racconto in particolare si parla di Londra), per ripulire le condutture ci si affidava alle cosiddette raccattasangue, un gruppo di proletarie sboccate e felici che una volta al mese si infilava nelle tombine con un cappotto assorbente per scrostare il tutto.
C’è qualcosa là fuori, o qui dentro, che non è più lo stesso da quando ho incontrato Shelley Jackson. Una membrana si è rotta, ne è fuoriuscito del liquido, mosche e rifiuti ci si sono appiccicati. Quella che prima avrei trattato come sporcizia, la riconosco ora quale materia nuova. In un’intervista con Rosita Nunes per Tattoo Highway, Shelley Jackson disse che, “come tutte le esperienze trasformative, leggere, nella sua forma migliore, nuoce in qualche modo all’involucro nel quale ti muovi. È una violazione, ma di quelle che sopporti volontariamente. Ti apri a ciò, aspettandoti e anche sperando di venirne alterato, senza sapere come”. Per Kafka, uno dei suoi scrittori preferiti, un libro doveva essere un’ascia per il mare ghiacciato dentro di noi. Le due definizioni della lettura non mi paiono poi così distinte. Per l’una e per l’altro, leggere è questione di lasciarsi ferire. Di volerlo, persino. Divorare un libro dietro l’altro nella speranza che il prossimo sia quello che ci prenda finalmente a picconate sullo sterno.
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