Le strade che si diramano da Rosenthaler Platz sono un tappeto di passi e voci, ma si mantengono a un livello di decibel tale da non coprire il verso degli uccelli sugli alberi. Questo brusio costante accompagna le passeggiate per negozi, le soste fuori dai locali, le corse verso le fermate dei mezzi di trasporto per andare al lavoro. Si affievolisce in maniera più significativa tanto più ci si avvicina al Volkspark am Weinberg, dove i suoni della natura sono prevalenti, spesso anche nelle giornate estive, quando le persone riempiono i prati. Durante le giornate di forte pioggia il brusio si ammutolisce, c’è poca gente per strada e il rumore dell’acqua che precipita sulle superfici domina lo spazio.
Rosenthaler Platz non è una piazza vera e propria. È più un incrocio, in cui confluiscono Brunnestraße, Weinbergswer, Rosenthaler Straße e Torstraße, che la taglia a metà. Sono vie molto frequentate, dove si assiepano negozi, gallerie d’arte, alberghi, ristoranti, locali notturni: siamo a Mitte, sono strade del centro. Durante gli anni della divisione della città erano strade di Berlino Est. E ai quattro angoli della piazza, le scale che portavano alla U-bahn erano sbarrate. Rosenthaler Platz era entrata in funzione nel 1930 all’interno della linea Gesunbrunnen-Neukölln, poi chiamata linea D e infine U8. Ma il 13 agosto del 1961 divenne una delle Geisterbahnhöfe, stazioni fantasma, come altre fermate della stessa linea e della U6. I treni dell’occidentale BVG (che ancora oggi gestisce il trasporto metropolitano berlinese) non effettuarono più fermate nella zona sovietica. La stazione fu riaperta il 22 dicembre del 1989 e nel mezzanino fu predisposto un punto di controllo dei passaporti, fino al 1° luglio del 1990, in vista dell’unificazione della Germania. Ma prima ancora della storia più recente, lì dove oggi si trova la “piazza”, si ergeva una porta, Rosenthaler Tor, che faceva parte del muro doganale di Berlino e da cui una strada conduceva al villaggio di Rosenthal. Fino al diciannovesimo secolo, questa fu una delle poche porte attraverso cui gli ebrei potevano entrare nella città. Fu demolita in vista dell’espansione territoriale di Berlino, intorno al 1867, insieme al muro doganale.
La prima cosa che colpisce dalla stazione della metropolitana di Rosenthaler Platz è il colore alle pareti e sulle colonne: si va dall’arancione più acceso a quello che sfuma verso la malva, la terra e il giallo, in un puzzle composito di mattonelle che ammorbidisce l’effetto ottico. Il nome della fermata è una scritta bianca su uno sfondo rettangolare nero, che si poggia sulla tonalità dominante e se ne stacca in modo deciso, con il font tipico di tutta la linea, chiaro e originale. La “t” sembra una croce dalla punta svettante, la lettera “l” è una linea secca, gli altri caratteri sono arrotondati ma senza fronzoli. Le fermate della metro di Berlino destano da sempre molto interesse tra i grafici. In particolare, il designer estone Anton Koovit, in viaggio nella capitale tedesca nel 2005, rimase così colpito dal font della linea che va da Wittenau a Hermannstraße che decise di digitalizzarla, dal momento che è applicabile anche ai testi e che a nessuno è venuto in mente prima di lui. Pertanto, i caratteri delle stazioni della U8 sono adesso in vendita, sul suo sito web.
A differenza di altre fermate della metro, non c’è un odore stagnante a Rosenthaler Platz. C’è molta corrente, quello sì: si crea a partire dalle due entrate per lato del livello intermedio e, nei giorni in cui fuori c’è più di una leggera brezza, si trasforma in un tunnel di vento che sembra voler decidere per te anche l’uscita da prendere. Ma, soprattutto, a Rosenthaler Platz, c’è musica. A volte è la voce graffiante di una ragazza riccia con chitarra e microfono a far muovere le note da una parte all’altra delle banchine; altre è un ragazzo che spinge fuori le rime tedesche del suo rap; altre ancora un giovane con l’arpa o un uomo col sax che fa rivivere John Coltrane sotto la superficie della città.
È sabato e piove, una pioggia che non fa rumore e che senti solo sulla faccia. Nessuno ha l’ombrello, siamo tutti con la testa coperta dal cappuccio e continuiamo a camminare tranquilli. Dopo un giro al mercatino di Hackescher Markt imbocco Rosenthaler Straße. Ho il passo veloce, ma rallento davanti al mio Hof preferito: Haus Schwarzenberg, un cortile interno tappezzato di graffiti. Riprendo il passo, dando sguardi fugaci alle vetrine e mi devo fermare di nuovo. Nonostante la pioggia, c’è tanta gente. Mi rassegno all’idea di godermi la passeggiata.
Arrivo alla metro. La banchina che va a Wittenau è quasi vuota, il treno dev’essere passato da poco. Invece, dalla parte di Hermanstraße è affollato. Una donna ha una piantina di fiori bianchi in mano, la ripara con le mani, forse per paura della folla. Molte delle persone in attesa hanno la testa piegata sui loro cellulari e alzano lo sguardo solo per controllare quanto manca: 2 minuti ancora. L’altoparlante irrompe tra le risate e le parole in russo e in spagnolo di due gruppi di persone ai lati della panchina su cui mi sono seduta. Accanto a me si siede un uomo con una giacca arancione, come la stazione. Guarda la grande busta da supermercato che ha con sé e conta in silenzio le bottiglie che ha raccolto per il rimborso del pfand, il vuoto a rendere, che addebita sullo scontrino della spesa l’importo relativo alla plastica e al vetro destinate al riciclo.
Due donne alte, eleganti, indicano un punto verso l’altra uscita. Mi giro anch’io. C’è un ragazzo sui pattini. Si avvicina, disegnando i bordi delle panchine, dei pilastri arancioni, delle macchine per fare i biglietti e anche delle persone che incontra. Si morde il labbro, concentrato. Crea una coreografia, con in sottofondo il rumore delle ruote che girano e scivolano sul pavimento. Il rumore è lo stesso della mano dei mendicanti che cercano bottiglie vuote nella spazzatura e sfiorano la plastica del sacco. Se non chiedono nulla, ti rendi conto della loro vicinanza solo da questo suono e da quello metallico del vetro che sbatte con altro vetro nella borsa da spesa.
Il treno si ferma, c’è il solito scambio tra chi scende e chi sale, tra chi è arrivato a destinazione e chi ci sta andando. Due donne dai capelli grigi attraversano le porte automatiche davanti a me tenendosi la mano, una di loro ha un mazzo di tulipani gialli. La banchina si svuota, l’altra è di nuovo popolata.
Un poliziotto percorre in lunghezza la banchina guardandosi attorno con sguardi rapidi come i suoi passi. Fa rumore quando cammina, con il suo giubbotto antiproiettile e le manette sul fianco destro, la pistola riposta nella fondina. Tutti alzano gli occhi per guardarlo, è più vistoso dei pantaloni di paillettes rosa della ragazza seduta accanto a me.
Mi giro a cercare con lo sguardo un musicista, oggi ho tempo, posso ascoltare un po’ di musica qua sotto. Ma non sento melodie, né riesco a individuare strumenti. Mi alzo per guardare meglio e lo trovo, seduto a terra, appoggiato a una colonna, la pelle nera rugosa e i capelli bianchi coperti da un berretto. Ha le gambe incrociate e lo sguardo basso coperto da occhiali dalle lenti scure, piccole e ovali. Fissa un bicchiere davanti a sé, su cui qualcuno ha fatto scivolare qualche spicciolo. Lo riconosco, è il sassofonista. Eppure, anche avvicinandomi, non riesco a capire dove abbia poggiato lo strumento. Guardo le lenti, guardo il bicchiere. Il suo sguardo è diretto oltre, alla scritta bianca che è comparsa a terra e che il giorno prima non c’era: “Stolen Saxophone. Help” vicino allo schizzo di un cuore. Penso alla rabbia provata e immagino che la soffierebbe col diaframma feroce dentro le note di A Love Supreme, chiudendo con la stessa malinconia che ci metteva John Coltrane. Quando si alza, mi rendo conto che fa meno rumore degli altri. Sembra che il ladro, insieme al jazz, gli abbia rubato anche i passi, la voce. Che lo abbia reso un ombra, che ora sale dal sotterraneo che riempiva di musica verso la superficie calpestata dal rumore degli altri.
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