Che oggi si faccia fatica a crederci è normale, forse: però è vero che Roma, anni e anni fa, nei sessanta e settanta per intenderci, era considerata, da coloro che facevano parte del mondo musicale e artistico in senso lato, una preziosa e ambitissima meta. Così come Londra, Berlino o New York, Roma è stata capace di attirare personaggi di calibro nazionale e internazionale, i quali si aggiravano per le sue viuzze cercando di afferrare almeno in parte quel fascino artistoide e bohemien che la città rilascia(va). In una recente pubblicazione, Valerio Mattioli è tornato indietro nel tempo cercando di far chiarezza e di dare importanza proprio a questo periodo romano molto movimentato, che è rimasto spesso poco documentato, quando non completamente dimenticato. Nel suo “Superonda. Storia segreta della musica italiana”, un’enciclopedica collezione di eventi, date e nomi, Mattioli ci racconta di come, già dagli anni sessanta e per gran parte dei settanta, per quelle viuzze si incontrasse gente come Ennio Morricone e Alvin Curran. Racconta delle serate al Piper nel quartiere Coppedè. Dei bar dove s’incontrava Anita Pallenberg, attrice, modella, nonché compagna di Keith Richards. Delle infinite feste private. Del Folk Studio in via Garibaldi, a due passi da piazza Trilussa, dove si potevano sentir suonare, tra gli altri, Stefano Rosso, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Rino Gaetano, e persino un giovanissimo quanto probabilmente sconosciutissimo Bob Dylan, alle prese con la sua prima esibizione italiana. Insomma, tutto sembrava dare l’impressione di una città in continuo movimento, di un interminabile flusso di idee, musiche, arte e sbronze che rendevano difficile riuscire a distingue la notte dal giorno.
Più o meno contemporaneamente all’uscita di “Superonda”, sul magazine online DLSO veniva pubblicato un articolo sui locali attualmente più interessanti sparsi un po’ per tutta Roma, dal centro alla periferia. Nell’articolo veniva messo a disposizione anche un itinerario su Google Maps – probabilmente pensato per coloro i quali ancora credono che il G.R.A. sia un enorme bestia feroce a quattro teste, che un po’ è vero – con l’intento di fornire una mappa non esaustiva di tutti quei locali romani, alternativi e lontani dagli occhi dei turisti, dove è possibile recarsi per bere una birra in compagnia mentre si ascolta un po’ di musica dal vivo. Per chi è cresciuto, vive o ‘bazzica’ a Roma, di tanto in tanto, i nomi risuoneranno piuttosto familiari: si comincia dal Quirinetta dietro la fontana di Trevi, passando poi per il Monk a Portonaccio, poi ancora il Pierrot le Fou e il Fanfulla al Pigneto, il Chiringuito a San Paolo, l’Ex Dogana a San Lorenzo, Unplugged in Monti e un altro paio di locali. A fare da cornice è il titolo: “La mezza maratona per entrare nella scena romana”, che suggerisce l’esistenza di una scena, oltretutto “fattibile” e quindi rea di importanti omissioni. Insomma, tutto sembrava dare l’impressione di una città in continuo movimento, un interminabile flusso di…
No, aspetta.
Di locali ne saranno anche emersi di nuovi e differenti negli ultimi anni, ma quello che traspare dall’articolo è che oggi, nonostante la diversificazione di questi spazi, Roma è una città che fatica a dare una parvenza di unità, di coesione e di logica alla sua identità musicale. In modo particolare, fatica a farsi sentire al di là dei suoi spazi anche quando il G.R.A. dorme e le strade sono miracolosamente vuote. Si potrebbero grossolanamente distinguere due scene musicali nella capitale: da una parte abbiamo gli ‘alternativi’, o cosi pare che si divertano a farsi chiamare dalla critica, mentre dall’altra c’è una scena che, almeno sulla carta, si presenta come più sperimentale, eclettica e ‘radicale’, in termini sia culturali sia musicali. Praticamente nella prima categoria ci sono tutti quei gruppi e cantautori che, ammaliati da una certa hipsteria dalla vena internazionale, molto probabilmente indossano un paio di Reebok bianche, calzini di spugna anch’essi rigorosamente bianchi e camicie di seta super abbottonate e dai colori vivaci, suonano chitarrine dai tocchi nostalgici o ci triturano ancora con basi elettroniche rubate a qualche traccia degli Europe o dei Depeche Mode di trenta o ormai quasi -anta anni fa. Per fare qualche nome, nella prima scena potremmo mettere persone come i primissimi i Cani, seguiti da Calcutta e dai TheGiornalisti. Nella seconda invece ci sono quelli che provano a creare qualcosa di ‘originale’ e ‘nuovo’, muovendosi maggiormente nell’underground e giocando con sonorità e simbolismi non propriamente convenzionali: tra gli altri, riferimenti ai film della tradizione Spaghetti Western e alle loro colonne sonore, ai libri di Pasolini e a un passato condiviso estremamente oscuro, essenzialmente folklorico e mediterraneamente caldo. Sto parlando ad esempio della scena che gravita attorno al Fanfulla o al fu Dal Verme, che si sviluppa maggiormente nella zona est della città per intenderci e che include gruppi e artisti come Heroin in Tahiti (in cui suona lo stesso Valerio Mattioli), Mai Mai Mai e un po’ tutto ciò che ruota attorno all’etichetta NO=FI Recordings di Toni Crutone.
La chiusura del Dal Verme, avvenuta definitivamente (o almeno così questa volta pare) un paio di anni fa, torna qui utile per approfondire il discorso sul rapporto tra spazi fisici e scene musicali, lì dove lo spazio fisico rimane ancora la principale, se non l’unica, risorsa per l’articolazione di una scena. Negli ultimi tempi sono infatti molti i locali/associazioni culturali di Roma a essere stati chiusi a causa di restrizioni economiche o decisioni politiche dall’alto estremamente confuse: la conseguenza di queste scelte, se non il maggior rischio, per la città è il non riuscire più a offrire uno spazio dove artisti e pubblico possano costruire e condividere qualcosa che a lungo andare possa essere considerata di valore, d’impatto.
Tenendo a mente le scene romane è importante ricordare come le due siano caratterizzate da canali opposti, in termini di produzione, diffusione e fruibilità. La scena delle Reebok bianche si concretizza e si diffonde maggiormente tramite internet, quindi attraverso l’uso dei social media in generale e di piattaforme musicali quali SoundCloud e YouTube in particolare, e rimane per questo in gran parte associata a una commercializzazione effimera dove il prodotto finale è quasi molto spesso qualcosa simile a una hit estiva. Dall’altro lato la scena sperimentale è invece aiutata (e ciò è molto probabilmente un elemento connaturato) dal fatto che per i suoi componenti e partecipanti oltre ai confini del Pigneto sembra esserci un abisso. Non solo l’architettura, la storia e la cultura del quartiere stesso ma anche i locali e i negozi di dischi – dove poter suonare, ascoltare, comprare o suggerire un disco tramite passaparola – hanno contribuito in maniera decisiva alla nascita e al successivo, continuo sviluppo dell’identità artistica di questa zona. Non vorrei adesso dare l’idea di una considerazione che potrebbe finire in un meme di “Cinquantenni su Facebook” ma, ecco, è probabilmente ancora vero che lo scambio di idee e la fruibilità delle esperienze risultano favoriti maggiormente da un confronto che avviene faccia a faccia anziché da dietro lo schermo di un computer. E dunque, se i locali continuano a essere chiusi dalla questura per le più creative e svariate accuse (ultimamente anche il Calisto, lo storico bar trasteverino, è stato vittima di queste strane decisioni, e con lui il Chiringuito a fine settembre), risulta naturale che la socializzazione tenda indubbiamente a spostarsi con maggiore assiduità proprio dietro quello schermo.
Che sia chiaro, non è sicuramente il principale intento di questo articolo svalutare o minimizzare il ruolo di tutte quelle scene che si concretizzano maggiormente su internet, anche perché non sarebbe onesto dato che molto si è costruito e innovato tramite esso. Piuttosto, ripensando alla Roma di ieri e di oggi, l’articolo intende invece portare il lettore a riflettere su una questione centrale più ampia: se una scena di qualsivoglia natura musicale e artistica ha bisogno di spazi fisici per riuscire a creare un senso di continuità e specialmente di comunità, cosa comporta, a lungo andare per l’identità musicale e per la complessiva vita culturale di un individuo e di una città intera, quando questi spazi sono i primi a venire meno?
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In copertina: Goa Club Roma – House Lesson (screenshot)
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