Qual è la forma delle città dove viviamo? Come si è sviluppata?
Rispondere a queste domande non è solo un esercizio accademico. Osservare un contesto urbano dal punto di vista formale, leggere la complessità delle relazioni tra edifici e tra parti della città significa capire dove siamo e, in ultima analisi, chi siamo.
Per chi conosce la botanica un bosco è molto di più che una successione di foglie e rami, è un libro aperto e ricchissimo di storie. Con la serie Le città visibili, curata da Flavio Villani, vogliamo sfogliare qualche pagina del libro delle città.
Siamo molte cose. Siamo anche quello che vediamo.
Se non vediamo niente, è semplice: non siamo.
Nolli, e Nolli sempre e fortissimamente Nolli.
Cominciai a filarmela solo quando pensai che avesse l’informazione che cercavo.
Lei era bellissima, ma nel nostro ambiente non era l’unica, ne giravano tante come lei e tutte più giovani. Quando cominciai a guardarla, anzi a studiarla, mi accorsi che non era solo bellissima: era perfetta. Senza una sbavatura e accurata in tutti i dettagli. Aver davanti al naso quello schianto mi faceva ribollire il sangue e pur di possederla non so di cosa sarei stato capace, ma ero uno studente e non avevo una lira (sì, c’erano ancora le lire, sarà stato il ’98 o il ’99). Alla fine lei mi diede quello che volevo e ogni volta che entravo nel Dipartimento di Architettura e Urbanistica per l’Ingegneria mi fermavo riconoscente ad ammirarla alla parete, rispettosamente, dal basso verso l’alto. Lei era la Nuova Topografia di Roma.
Fu pubblicata da Giovanni Battista Nolli nel 1748 e anche se non è la prima mappa della città, è la prima fondata su criteri di rappresentazione cartografica moderni.
È un’opera di un’accuratezza eccezionale. Si può confrontare la pianta della basilica di San Pietro del Nolli con una vista satellitare: https://www.romaierioggi.it/google-vs-nolli-san-pietro/
La mappa rappresenta l’area all’interno delle mura aureliane (costruite alla fine III secolo d.C., quando la città superava abbondantemente il milione di abitanti), anche se in realtà la superficie abitata non copriva nemmeno la metà di quella compresa all’interno delle mura. Ma non corriamo troppo e torniamo all’informazione che cercavo, l’ubicazione di una piazza che non esiste più.
Piazza Padella
Fu qui che nel 1914 nacque la madre di mio padre e ci visse fino alla metà degli anni Trenta, quando la piazza e i suoi vicoli furono abbattuti e la famiglia di mia nonna fu sfollata alla borgata di Tor Marancio.
Nella mappa del Nolli piazza Padella è contrassegnata dal numero 663:
Un affresco di Achille Pinelli, realizzato negli anni Trenta del XIX secolo, ci mostra il lato orientale della piazza con la chiesa di san Nicola degli Incoronati (numero 664), anch’essa scomparsa. Dietro il caseggiato, sullo sfondo, c’è il Tevere.
Piazza Padella apparteneva al rione Regola, che si sviluppa intorno a piazza Farnese, sulla riva sinistra del Tevere, all’interno dell’ansa dove per secoli si concentrò la maggior parte della popolazione. Fino al 1870, oltre all’ansa, erano abitati il Vaticano, Trastevere e l’area tra il Colosseo, Santa Maria Maggiore e piazza del Popolo. Il resto erano vigne e ville principesche. Il Foro romano era chiamato campo vaccino, perché ci pascolavano le vacche. La popolazione superava di poco le duecentomila unità (negli stessi anni Napoli sfiorava il mezzo milione di abitanti, mentre Parigi e Londra ne contavano rispettivamente un milione e ottocentomila e tre milioni e duecentomila).
Questa era Roma nel 1866:
Come si vede, la città non è cresciuta rispetto a quella del Nolli di centoventi anni prima. I cambiamenti furono minimi. Per chi non vuole perdere tempo e diottrie a confrontare le mappe, diciamo subito che i due interventi maggiori sono stati la sistemazione di piazza del Popolo e del Pincio (voluta dai francesi all’epoca di Napoleone) e la costruzione di una stazione ferroviaria nelle estreme propaggini nord-orientali dell’abitato.
Il 1870
All’alba del 20 settembre 1870, dopo cinque giorni di attesa durante i quali il generale Cadorna aveva chiesto invano la capitolazione della città, l’artiglieria italiana cominciò a cannoneggiare le mura aureliane, finché non fu aperta una breccia di circa trenta metri all’altezza di Porta Pia. Entrarono per primi i bersaglieri, seguiti dal resto della fanteria. Roma fu occupata e lo Stato Pontificio cessò d’esistere. Anche se non formalmente, perché Pio IX si rinchiuse nel Vaticano e si dichiarò prigioniero dello Stato italiano: un bell’impiccio per il regno d’Italia, perché la cosiddetta Questione romana sarà risolta solo sessant’anni dopo. Vedremo più avanti in dettaglio quello che avvenne nei mesi successivi alla presa di Roma, perché ebbe un’influenza decisiva sullo sviluppo urbano della città fino a oggi.
Il 21 settembre Cadorna istituì una Commissione di Architetti-Ingegneri «per studiare i progetti di ampliazione». Quando la Commissione si riunì per la prima volta, il 30 settembre, alcuni membri che in un primo momento avevano accettato l’incarico, si tirarono indietro, per impiegarsi in società finanziarie appena nate con lo scopo di acquistare terreni edificabili. Non tutti si posero il problema del conflitto d’interessi e ci fu chi continuò tranquillamente a far parte della Commissione e a far incetta di proprietà, come Vittorio Tittoni, su cui torneremo più tardi. Roma non era ancora formalmente italiana (il plebiscito che avrebbe sancito l’annessione al Regno d’Italia si tenne solo il 2 ottobre), né era stata dichiarata capitale (la dichiarazione sarebbe arrivata con la legge 33 del 3 febbraio 1871) e già il Comune era in ritardo sugli speculatori nazionali e internazionali.
A fine ottobre una finanziaria con capitali di banche di Londra, Francoforte e Vienna acquistò dieci ettari vicino alla stazione Termini. Nel 1872 la Compagnia fondiaria italiana possedeva circa novanta ettari tra Esquilino, Porta Maggiore e Prati di Castello, più vari terreni a Porta Pia e Porta Salaria. Erano le stesse banche e finanziarie che avevano già investito a Parigi, Barcellona, Bruxelles e Vienna, città che avevano subito pesanti restyling, e ora cercavano il profitto a Roma. Come la Qatar Investment Authority, che oggi compra terreni a Porta Nuova e a Porta Garibaldi a Milano e a Time Square e sulla Fifth Avenue a New York.
Torniamo alla Commissione di Architetti-Ingegneri. Nell’autunno del 1870 ebbe molto lavoro da sbrigare. Anche se Roma sarebbe stata dichiarata capitale solo a febbraio dell’anno successivo, quale fosse il suo destino lo sapevano anche i regazzini di piazza Padella: re, governo, ministeri e tutti i loro impiegati (con mogli, figli, suocere e domestici) si sarebbero trasferiti in città. Sistemare il re fu facile. Si chiamò un fabbro che con un grimaldello aprì il portone del Quirinale (si sarebbero potute usare le chiavi, ma Pio IX aveva rifiutato di consegnarle). Sistemare gli altri non fu invece così semplice: quando arrivarono, la città era totalmente impreparata ad accoglierli.
Il 10 novembre 1870 la Commissione presentò una relazione sul nuovo assetto urbano. Si individuavano un’area per il polo governativo-amministrativo a est dell’abitato ed equidistante dal Quirinale e dalla stazione Termini e un’area per il polo delle «arti clamorose» (cioè per le attività industriali) a sud, a Testaccio (a debita distanza dal resto della città, per non disturbare la quiete borghese dei nuovi padroni). Si nominava anche la zona di Prati di Castello, direttamente a nord del Vaticano e di Castel Sant’Angelo, che faceva gola a investitori di mezzo mondo, ma sconsigliandone l’urbanizzazione per l’insalubrità dell’aria e i costi elevati di drenaggio e arginamento del Tevere.
La relazione era tutto sommato un buon lavoro, perché concentrava lo sviluppo urbano in una direzione ben precisa, quella opposta al Vaticano, combinando le ragioni dell’urbanistica e della politica.
Nonostante la Commissione l’avesse sconsigliato, alla fine il quartiere di Prati si fece (addirittura i proprietari dei terreni costruirono a loro spese un ponte sul Tevere per collegare Prati al resto della città). Molti altri quartieri sorsero qua e là sui terreni delle ville principesche, dentro le mura aureliane. Cominciò così la crescita a macchia d’olio della città.
Fu in quei due mesi scarsi passati tra la breccia di Porta Pia e la presentazione della relazione che si decise il destino dell’Urbe. Tutto quello che accadde dopo, con poche eccezioni, è la ripetizione dello stesso schema riproposto ogni volta in scala sempre maggiore: il comune avrebbe idee non sempre mediocri, ma le decisioni vengono prese al di fuori delle sedi istituzionali e sotto l’influenza di società, che da finanziarie si sono fatte edili.
A differenza di Roma, per le altre città italiane l’annessione al regno non comportò grandi problemi. Ad esempio Milano andò avanti senza troppe difficoltà, con il solo regolamento edilizio, per quasi trent’anni. Il primo piano regolatore sarà adottato solo nel 1889. Ma era a Roma che si concentravano gli interessi politici e finanziari. Serviva un piano regolatore, Alessandro Viviani (anche lui membro della prima ora della Commissione) però non aveva fretta e a prepararlo ci mise ben tre anni. Il ritardo sugli speculatori diventò così incolmabile e la voce del Comune irrilevante. Il piano regolatore, lo strumento principe dell’urbanistica per la gestione e la pianificazione dello sviluppo di un territorio, finì per diventare il mezzo legale per la ratifica dell’iniziativa privata. E a disonore di noi romani bisogna dire che a guidare la trasformazione dell’Urbe non fu mandato da Torino nessun anodino burocrate, nessuno spietato affarista: il compito di amministrarla fu lasciato ai suoi figli. Come si presero cura della madre, lo vediamo ancora oggi.
Il club delle città-simbolo
Perché fu scelta Roma come capitale del regno? Era davvero la capitale naturale dello stato nazionale italiano? Parrebbe di sì: Roma fu proclamata capitale ben nove anni prima di essere presa.
«Senza Roma capitale d’Italia, l’Italia non si può costituire. In Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali, che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Tutta la storia di Roma, dal tempo dei Cesari ad oggi, è storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città destinata ad essere la capitale di un grande Stato.»
Così proclamò Cavour alla Camera dei Deputati il 25 marzo 1861. Era presente anche Manzoni, nominato da poco senatore a vita e che si sobbarcò il viaggio da Milano a Torino per partecipare alle sedute del Senato solo in due occasioni. La prima volta nel 1861, a settantasei anni, quando Roma fu proclamata capitale; la seconda nel 1864, a settantanove, per votare il trasferimento della capitale a Firenze, che considerava una tappa intermedia prima di raggiungere la meta.
Sia Cavour, sia Manzoni avevano idee chiare su Roma. Peccato che nessuno dei due ci fosse mai stato, né si fosse mai preoccupato di verificare se la città fosse nelle condizioni di diventare capitale. E non erano gli unici. Tutti avevano idee su Roma, senza necessariamente conoscere la città. Perché?
Perché, nel bene e nel male, Roma appartiene al ristrettissimo club delle città-simbolo il cui nome non rappresenta solo l’insieme di abitazioni, monumenti e centri di potere compreso all’interno dei suoi confini, ma evoca immagini e idee universali. Questo riconoscimento non è assolutamente legato al valore geopolitico o economico della città. Prendiamo Atene.
Atene ha vissuto il suo momento di gloria quattro o cinque secoli prima di Cristo e da allora ha campato ai margini della Storia, ma non serve essere grecisti per riconoscerne la posizione chiave nell’avventura magnifica e miserabile del pensiero umano. La non lontana Istanbul, fondata dai rivali megaresi con il nome di Bisanzio, è stata, come Costantinopoli, capitale dell’impero romano d’oriente per mille anni e poi, con il nome attuale, riferimento di quello ottomano per altri cinquecento: eppure, non vanta la stessa posizione di Atene.
Torniamo a Cavour e Manzoni. Per capitale volevano la loro idea di Roma, non la città conquistata da Cadorna.
Anche Firenze sarebbe stata perfetta come capitale, molto più di altre città italiane. I Medici e gli Asburgo-Lorena l’avevano governata tutto sommato bene, era la culla della lingua italiana e patria di artisti, poeti e pensatori immortali. Ma non era Roma.
La nostra è una constatazione. Non c’è orgoglio. La Roma reale dove siamo nati e da cui siamo andati via quindici anni fa, sbattendo la porta, non ha nulla a che vedere con quella immaginaria di Cavour e di Manzoni, con l’idea dell’impero universale, con il centro della Cristianità, con l’arte, la bellezza e la cultura classica. La Roma dove siamo nati è una matrigna indolente e beffarda, è monnezza, zanzare, caccia al parcheggio, pisciate nei vicoli del centro, scippi e disoccupazione.
Anche se poi, incapaci di portare rancore, con la matrigna alla fine ci siamo riconciliati.
Il barone Haussmann
Mentre si aspettava il piano regolatore, Roma era diventata capitale del regno d’Italia e il re si era insediato al Quirinale. Alcuni ministeri furono sistemati provvisoriamente in ex conventi o in edifici già usati dall’amministrazione pontificia (soluzione temporanea che in molti casi dura ancora oggi), gli altri si stabilì di piazzarli su via XX settembre e dintorni. Era più o meno quello che aveva consigliato la Commissione nella sua relazione. Ma la relazione aveva solo valore consultivo. Chi prese la decisione?
Il sindaco? La Giunta comunale?
No e no.
La decisione fu presa da Quintino Sella, che allora era ministro delle finanze.
Beninteso, Sella non era uno sprovveduto, pensava in grande. Invitò addirittura a Roma l’ex prefetto di Parigi, il barone Haussmann, che come Pio IX aveva perso il posto con la caduta di Napoleone III.
Il nome del barone Haussmann è legato alla misura da lui adottata per sanare alla radice il problema delle spaventose condizioni igienico-sanitarie in cui vivevano gli abitanti delle città industrializzate come Parigi: lo sventramento. Nell’urbanistica moderna il principio dello sventramento è il Piano di Parigi del 1853.
Come si vede nella figura, con la creazione di immense piazze collegate tra di loro attraverso lunghi rettifili si coniugavano igiene e pubblica sicurezza (i larghi boulevards erano perfetti anche per le cariche di cavalleria contro eventuali manifestanti). Gli sventramenti haussmanniani furono imponenti, ma diedero a Parigi l’assetto che ha ancora oggi.
Torniamo a Sella. Pensava in grande non solo per Roma, ma anche per le sue tasche. Infatti era in affari con quel Vittorio Tittoni (che abbiamo già incontrato) membro della Commissione di Architetti-Ingegneri e di una società immobiliare che, guarda caso, possedeva molti terreni proprio su via XX settembre e dintorni.
Quando alla fine del 1873 il Comune adottò il primo piano regolatore firmato dall’ingegner Viviani, poteva contenere questo piano qualcos’altro oltre a una ratifica dell’esistente? Poteva. Oltre alla ratifica dell’esistente conteneva anche tanti orrori progettuali.
Ne passeremo in rassegna alcuni.
Premettiamo che la situazione abitativa a Roma, soprattutto all’interno dell’ansa del Tevere, era estremamente difficile. Il popolo viveva in edifici di età rinascimentale, su cui per secoli si erano abbarbicate costruzioni spesso assolutamente insalubri. Il rischio di epidemie era altissimo (tra il 1837 e il 1893 ce ne furono ben sei di colera). Bisognava assolutamente intervenire.
Tra gli orrori del primo piano del Viviani (sì, ne fece un altro dieci anni dopo) vale la pena menzionare almeno il collegamento tra corso Vittorio Emanuele II e una gigantesca piazza a Prati attraverso piazza Navona, trasformata in strada, e il Tevere; e poi il collegamento tra il Pantheon e piazza Borghese, che avrebbe sventrato la zona del Campo Marzio e distrutto piazza della Rotonda (nomignolo con cui i romani chiamavano il Pantheon). Questi furono tra gli orrori che rimasero sulla carta: la gigantesca piazza a Prati non fu fatta (se ne fece una molto più piccola, intitolata a Cavour, alla fine del secolo), piazza Navona fu risparmiata (al posto dell’arteria immaginata dal Viviani fu aperto poco più in là corso Rinascimento, ma solo nel 1936) e furono risparmiati il Campo Marzio e piazza della Rotonda. Ma altri orrori furono realizzati, come Corso Vittorio Emanuele II e il collegamento tra il Colosseo e piazza Venezia, che vide la luce solo nel 1932 con il nome di via dell’Impero (l’attuale via dei Fori imperiali). Nel piano del Viviani è prevista anche la demolizione della Spina di Borgo tra piazza san Pietro e Castel sant’Angelo, realizzata solo nel 1936 (al suo posto fu costruita nel dopoguerra via della Conciliazione: sulla Spina di Borgo torneremo alla fine).
Come già si vede, molti sventramenti furono fatti sotto il fascismo. Tra la preferenza accordata ad attività più urgenti e lucrative (tirar su nuovi quartieri), la cronica scarsità di fondi e le lungaggini e le miserie della politica italiana (la cui tradizione è vivissima ancora oggi), alla fine il piccone non si era dato troppo da fare. Ciò non toglie che Roma fosse stravolta e perdesse quasi tutte le ville e i giardini che sorgevano all’interno delle mura aureliane. Ci guadagnò qualche decennio di sopravvivenza la nostra piazza Padella. Il piano del Viviani la risparmiava, ma il cerchio intorno a lei si stringeva: il basso caseggiato dietro la chiesa di san Nicola degli Incoronati, che si vede nell’acquerello del Pinelli, fu abbattuto per far spazio al Lungotevere.
Il passaggio dalla Roma liberale a quella fascista fu tutto sommato indolore. Indolore per gli interessi dei proprietari di terreni e dei costruttori, vogliamo dire. I piani regolatori finivano nei cassetti e le decisioni erano sempre prese al di fuori delle sedi istituzionali: niente che già non sapessimo. La grande differenza la facevano una catena di comando molto più corta (dal ’26 l’Urbe fu amministrata da un governatore nominato da Mussolini) e l’interesse personale e politico del duce per l’urbanistica romana.
E poi un nuovo concetto era venuto a integrare quello dello sventramento: l’isolamento.
Via dell’Impero
«I monumenti millenari della nostra storia debbono giganteggiare nella necessaria solitudine.»
Così annunciò Mussolini il 31 dicembre 1925 nel discorso per l’insediamento del primo governatore di Roma, Filippo Cremonesi. La strada era segnata.
L’esempio perfetto dell’applicazione del principio dell’isolamento è la sistemazione dell’area compresa tra il Colosseo e piazza Venezia. Quest’area, su cui sorgeva un quartiere rinascimentale con case alte e vicoli stretti, chiamato alessandrino, era finita nel mirino degli urbanisti già alla fine dell’Ottocento, dopo la scelta di costruire il monumento a Vittorio Emanuele II a piazza Venezia come fondale di via del Corso (ovviamente il Vittoriano non era previsto da alcun piano regolatore, ma ormai non ci stupiamo più). Il collegamento tra il Colosseo e piazza Venezia non poteva che passare attraverso il quartiere alessandrino. Il problema era che il quartiere alessandrino si era sviluppato sopra le rovine dei Fori imperiali, il che complicava maledettamente le cose.
Nel corso degli anni furono presentati vari progetti (ci fu anche chi propose un tunnel). Ingegneri e architetti facevano a gara a calcolare al dettaglio i costi degli sventramenti, ma non si affrontava mai direttamente l’aspetto più importante, quello archeologico (con poche eccezioni, come il progetto, avaro di demolizioni, del Direttore generale delle Antichità e Belle arti, Corrado Ricci). A lasciar parlare i tecnici la politica si evitava il disturbo di decidere e si arrivò alla prima guerra mondiale senza aver fatto niente.
Dopo la guerra, con l’importanza politica che Mussolini attribuiva al passato imperiale di Roma, si avviò l’età dell’oro degli archeologi. L’interesse archeologico era la formula magica con cui si otteneva tutto, ma la visione archeologica fascista si riduceva ad ascrivere alla categoria dei «monumenti millenari» le costruzioni anteriori alla caduta dell’impero romano, mentre tutto quello venuto dopo doveva essere spazzato via come polvere da un tappeto. Questa fu la sorte del quartiere alessandrino che, per realizzare il collegamento tra il Colosseo e piazza Venezia e riportare alla luce i Fori imperiali, fu letteralmente raso al suolo.
A questo punto si sarebbe potuto dire: vabbè, ormai la frittata è fatta, ma almeno abbiamo un grande parco archeologico che lèvate proprio. E invece no. Perché con la costruzione di questo benedetto collegamento, cioè una strada larga trenta metri e lunga quasi un chilometro, con graziosi giardinetti ai lati e il solenne nome di via dell’Impero, restarono sottoterra il 97% del Foro di Traiano, il 54% di quello d’Augusto, l’85% di quello di Nerva, il 60% di quello di Cesare e tutto il Foro di Vespasiano. Dei 90.000 m² che costituivano l’area dei Fori imperiali, ne rimasero invisibili 76.500 m²: l’85%. Fu spezzata l’unità storica del Foro romano con i Fori imperiali. Gli unici tre edifici posteriori all’età romana risparmiati dal piccone, la basilica dei santi Cosma e Damiano, la chiesa di san Lorenzo in Miranda e la chiesa dei santi Luca e Martino, se ne stanno adesso nel Foro senza più niente intorno, come i cavoli a merenda.
Vogliamo mettere però la soddisfazione di far sfilare «otto milioni di baionette» con il Colosseo sullo sfondo? Quando nello stesso discorso Mussolini ordinava a Cremonesi: «Entro cinque anni, da Piazza Colonna per un grande varco deve essere visibile la mole del Pantheon», che cosa aveva in mente se non sfondi e scenografie?
Infatti, per evitare che durante una parata di camicie nere con fez, teste di morto e stivaloni lucidi si vedessero le sottane della sora Maria stese al sole, si tirarono su finte facciate lungo via dell’Impero per nascondere i cortili interni avanzati agli sventramenti.
Alla fine del secolo scorso sono ripresi gli scavi. Alcuni anni fa via dei Fori imperiali è stata pedonalizzata e i giardinetti rimossi per riportare alla luce quello che c’è sotto. È stato dibattuto se non fosse il caso di smantellarla del tutto, la via, ma alla fine è stato deciso di lasciarla così com’è. A nostro avviso, la decisione è giusta perché via dei Fori imperiali, nel bene e nel male, è ora un documento storico. Riconoscere questo valore non significa avversare qualsiasi cambiamento, né esprimere un giudizio positivo sul fascismo. Nessuno si augura che torni la dittatura e proprio perché non ritorni e affinché non si ripetano gli stessi errori del fascismo, bisogna conservare il ricordo di via dell’Impero.
Il Danteum
Quando il progetto del Danteum fu presentato a Mussolini da Rino Valdameri, presidente della Società dantesca italiana, e dai due architetti, Giuseppe Terragni e Pietro Lingeri, era il 10 novembre 1938 e l’Italia aveva appena cominciato la rincorsa che l’avrebbe portata all’«ora delle decisioni irrevocabili»: il 5 settembre erano state promulgate le leggi razziali e il 28 ottobre il ministro degli esteri tedesco von Ribbentrop, in visita a Roma, aveva proposto l’alleanza difensiva e offensiva con la Germania (che sarà siglata il 22 maggio dell’anno successivo con il nome di Patto d’acciaio).
Se fosse stato costruito, il Danteum avrebbe riscattato via dell’Impero. Forse avrebbe reso meno inutile lo sventramento del quartiere alessandrino, meno amaro l’isolamento delle chiese nel Foro, dell’Ara Coeli e della piazza michelangiolesca sul Campidoglio e meno pacchiana la stazza dell’Altare della Patria.
O forse sarebbe solo stato l’ennesima tappa lungo il percorso che fanno milioni di turisti ogni anno per scattare un selfie e taggarsi, mentre la guida avrebbe chiamato il Danteum «splendido esempio di architettura fascista».
Terragni, che era l’anima del progetto, lo chiamò «Tempio».
Se fosse stato costruito, sarebbe stato l’unico interlocutore moderno a dialogare senza soggezione con il Colosseo e la basilica di Massenzio.
Le proporzioni del «Tempio» sono basate sulla sezione aurea. Su questa regola non si basano solo le proporzioni dei templi greci, ma anche la forma a spirale delle conchiglie, degli uragani e delle galassie e il numero di petali e infiorescenze dei fiori. Terragni nel Danteum non cerca solo una perfezione formale, ma rappresenta un viaggio all’interno della Divina Commedia, un percorso iniziatico dal basso verso l’alto e dall’oscurità alla luce.
Si comincia dalla Selva Oscura, con cento colonne come le cantiche del poema:
Si passa all’Inferno, in cui il pavimento è risucchiato in un moto a spirale verso il basso:
Le prime lame di luce guidano verso il Purgatorio. La sezione aurea scandisce le aperture nel soffitto:
Al culmine dell’ascesa sono trentatré colonne di vetro che sostengono una travatura anch’essa di vetro: il Paradiso. Il trionfo della Luce:
Da un lato una scalinata riporta in basso su via dei Fori imperiali e dall’altro si trova l’ultima sala, quella dell’Impero:
Spina di Borgo
Nome infelice. Fa pensare a un cuneo fastidioso da estrarre. E alla fine questo è stato il suo destino. Non è stato solo l’ennesimo sventramento. C’erano in gioco questioni più grandi, vecchie di secoli.
Secondo la tradizione, san Pietro fu seppellito sul colle del Vaticano, che allora era fuori Roma. Nel IV secolo sul luogo della sua presunta tomba fu eretta un’imponente basilica a cinque navate. Il centro del potere religioso (e politico) era però la basilica di san Giovanni in Laterano. Fu solo dopo il ritorno del papato a Roma dalla cattività avignonese, nella seconda metà del Trecento, che la basilica di san Pietro cominciò ad acquistare importanza e, siccome era stata trascurata, dalla metà del Quattrocento in poi furono chiamate a restaurarla le archistar dell’epoca. Risale al Bramante l’idea di abbandonare l’impianto paleocristiano e costruire una nuova basilica a pianta a croce greca. La svolta fu però la nomina ad architetto della Fabbrica di san Pietro del settantenne Michelangelo, a metà del Cinquecento. Michelangelo mantenne la croce greca, ma modificò le proporzioni della basilica alla scala colossale che gli era congeniale e progettò una cupola che aveva il diametro di un paio di metri maggiore di quello della cupola del Pantheon e raggiungeva i limiti delle capacità costruttive di allora.
Per farci un’idea dell’aspetto che doveva avere la basilica michelangiolesca prendiamo la veduta di Roma di Antonio Tempesta del 1593:
La pianta a croce greca esalta la centralità e la verticalità del cupolone e la plasticità delle absidi. Come si vede, la chiesa non aveva ancora una facciata e la piazza era molto diversa da come la conosciamo.
Il compito di costruire la facciata fu affidato al Maderno all’inizio del Seicento. Compito che era meno semplice di quello che si potesse immaginare, perché gli fu chiesto anche di allungare la chiesa, cioè di passare da una pianta a croce greca a una a croce latina. La preferenza accordata alla dimensione longitudinale ebbe però la spiacevole conseguenza di allontanare il cupolone dalla vista e di ridimensionare la plasticità delle absidi. Come se non bastasse, per ragioni statiche, non fu possibile tirar su i campanili laterali previsti dal Maderno per alleggerire la facciata. Quindi la basilica si ritrovò con un mazzaroccone di facciata e il cupolone invisibile o quasi.
La sistemazione finale della piazza fu, come sappiamo, opera del Bernini, a metà del Seicento.
Nella veduta di Roma di Giovan Battista Falda del 1667 si vedono l’allungamento del Maderno e la piazza del Bernini nuova di zecca.
Il Bernini lasciò intatte le vie strette e tortuose per creare un effetto improvviso di ampiezza e grandiosità all’ingresso nella piazza. Per i successivi tre secoli la Spina non fu toccata, anche se non mancarono le proposte di abbattimento, da quella di Giorgio Fontana alla fine del Seicento a quella del Valadier all’inizio dell’Ottocento. Non se ne fece niente, anche per il declino economico e politico dello Stato pontificio.
Ma perché ce l’avevano tutti con la Spina? In realtà nessuno ce l’aveva con la Spina. Il problema era di natura prospettica: allontanando il punto di vista dalla chiesa, il mazzaroccone si schiacciava ed emergeva il cupolone.
Come sappiamo, la sua demolizione comparve nel piano del Viviani del 1873. Nemmeno allora se ne fece niente e non per mancanza di risorse, ma perché il problema non era più solo prospettico. C’era la Questione romana e la Spina divenne una zona cuscinetto tra la Roma capitale della Chiesa cattolica e la Roma capitale del regno d’Italia. Il suo destino fu segnato nel 1929 con la risoluzione della Questione romana, cioè con il Concordato tra Santa Sede e il regno d’Italia.
«La sistemazione dei Borghi per l’accesso a S. Pietro risponde a necessità di carattere spirituale, storico, artistico, politico, ma anche a necessità urbanistiche» scrissero Marcello Piacentini e Attilio Spaccarelli. Lo sventramento «spirituale» è l’ennesima prova dell’appartenenza dell’Urbe al club delle città-simbolo: ogni intervento è dovuto ad altissime ragioni storiche, artistiche e politiche e quando va bene è dovuto «anche a necessità urbanistiche». La città è condannata a rappresentare il suo simbolo.
In realtà, la demolizione della Spina non aveva molti sostenitori tra gli attori politici e tecnici romani e nazionali. A spianare la strada al piccone furono le volontà di Pio XI e Mussolini, che durante le trattative per il Concordato avevano trovato un’intesa personale. Ma nemmeno Mussolini riuscì a vincere le inerzie legate alla riluttanza alla demolizione, che partì solo alla fine del 1936 e procedette senza particolare fervore. Il progetto finale fu presentato al duce l’11 maggio 1938 da Piacentini e Spaccarelli.
La nuova strada, via della Conciliazione, sarebbe stata in asse con la piazza e la basilica e avrebbe avuto una larghezza costante di quarantasei metri. A più o meno un terzo della sua lunghezza partendo da san Pietro sarebbero stati costruiti dei propilei, che avrebbero fatto da filtro tra la piazza e via della Conciliazione.
I vantaggi dei propilei erano notevoli: avrebbero esaltato il cupolone e impedito la vista del mazzaroccone a chi andava verso la chiesa, avrebbero rispettato l’unità formale della piazza, avrebbero ridotto le demolizioni e avrebbero eliminato alla radice il problema della relazione sbilanciata tra i due capi di via della Conciliazione, cioè tra piazza san Pietro e piazza Pia. Tra i 23.000 m² racchiusi dal colonnato del Bernini e i 4.000 m² che risultano tra l’argine del Tevere e un lato dei giardini di Castel sant’Angelo. Tra un obelisco egiziano alto più di 25 metri e un semaforo.
Ovviamente i propilei non vennero realizzati.
Come mio nonno ha incontrato mia nonna a Shanghai
A metà degli anni Trenta, preceduta dal sacrificio di tante vittime molto più illustri di lei, venne anche l’ora di piazza Padella. Al suo posto fu costruito il liceo Virgilio, dove ora studiano i rampolli dell’intelligencija di sinistra. La famiglia di mia nonna fu sfollata a Tor Marancio.
In un passo del già citato discorso del 31 dicembre 1925, Mussolini ordinò a Cremonesi di dare «case, scuole, bagni, giardini, campi sportivi al popolo fascista che lavora». E così fu fatto: a Tor Marancia, per esempio, che allora era un’area paludosa e lontana da tutto, fu tirata su una borgata di case rapide, cioè alloggi costruiti in quattro e quattr’otto con materiali scadenti, pavimenti in terra battuta e servizi in comune. Alla famiglia di mia nonna, che era numerosa, furono assegnati due vani, invece che uno, in una casa rapida di via Odescalchi. La borgata, per l’aria malsana e le frequenti alluvioni, era chiamata Shanghai.
Fortunatamente mia nonna a Shanghai non ci rimase a lungo. A un matrimonio conobbe un giovane operaio, un tipo dall’ironia pungente e pelato già a vent’anni. Lei era una morettina esile. Si sposarono nel 1938 e vissero non troppo infelici a piazza dell’Alberone, su via Appia Nuova.
Lì nacquero i miei zii e mio padre.
Più che avere la pretesa di raccontare la storia urbanistica di Roma, abbiamo avuto quella di offrire delle chiavi di lettura per capire la città odierna. Se il lettore volesse farsi una visione più coerente lo rimandiamo ai tre libri che abbiamo consultato per stendere queste brevi note:
Italo Insolera, Roma moderna, Einaudi
Walter Vannelli, Economia dell’architettura in Roma liberale, Kappa
Walter Vannelli, Economia dell’architettura in Roma fascista, Kappa
L’Insolera è un ottimo saggio e si può leggere anche senza essere specialisti. Bisogna fargli un po’ di tara ideologica perché offre una lettura fortemente politicizzata (non dimentichiamo che la prima edizione è del ’62 e allora molte ferite erano ancora aperte).
I due libri del Vannelli invece sono monumentali opere di consultazione che riportano documenti d’epoca e un ricchissimo apparato fotografico e cartografico.
La maggior parte delle considerazioni e dei giudizi sono farina del nostro sacco e facciamo ammenda se al lettore sono sembrati inadeguati. Sono basati su ricordi di lezioni universitarie, passeggiate per il centro di Roma e tanto e tanto amore per questa città.
REDAZIONE
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