È passato molto tempo da quando ho trascritto quest’intervista. C’era un sole troppo caldo per l’inizio di febbraio e c’erano le pietre di un monastero che proiettavano il loro segno sui miei pensieri. Tra la luce e l’ombra tracciate dai secoli c’erano anche dei sottili steli verdi, l’erba rinsecchita d’inizio anno, i primi boccioli del nuovo mondo. Ricordo di avere acceso il registratore solo ad un certo punto della passeggiata. Tante cose erano già state dette nel corso della mattina e molte altre ne avevano tessuto il prologo in un dialogo ricamato dalla presenza tenue della linea telefonica. Spero quindi che Enzo Bona, Magister della comunità online BOTANICA RHAETICA in Valle Camonica, si riconosca almeno un poco in queste parole.
L’idea era quella di riprendere in mano una proposta editoriale che avevo inviato qualche tempo prima: scrivere un reportage frutto di un dialogo con il Enzo il Botanico, tra le altre cose grande esperto di felci. Mi ero letta un paio di suoi libri e, per tracciare un iniziale, sottile ritratto dell’uomo, avevo intriso il pennino in un calamaio di aneddoti e approfondimenti personali. Capivo che dietro c’era molto di più della Botanica. Intuivo che avrei avuto bisogno di dedicare settimane a questo reportage. Di svuotare la mente, di raccogliere appunti fatti di spore e semi volanti. Ed ero ben disposta a farlo. Poi, dopo la passeggiata, ho lasciato che il tempo sedimentasse per me tutte le parole. Le ho trascritte, riannodando il filo della conversazione, prendendo anche nota di dove un argomento avrebbe potuto gettare talee per ulteriori capitoli. E, mentre con pazienza cercavo la chiave per aprire tutti i cassetti delle molte idee, il tempo ha iniziato a girare al contrario.
Invece di durare qualche giorno, la sedimentazione del materiale è andata avanti per un paio di stagioni. Prendevo il Covid, guarivo, ritrovavo amici in guerra, ascoltavo Battiato, approfondivo la pratica della meditazione, recitavo mantra, lavoravo, traslocavo. E, nel mentre, gli appunti di questo reportage diventavano una baruffa di rametti sequestrati alla polvere. Una parentesi vegetale che ogni tanto riaprivo per seminare nuovi spunti che arricchissero il contesto e che poi prontamente richiudevo per mancanza di un punto fermo e del tempo che ci vuole per metterlo. Il tiepido inverno lasciava il posto alla breve primavera, il caldo proiettava il suo dominio sul regno dell’estate e a me restava il dubbio. Quale chiave dare a questa stesura? Come riprendere in mano il malloppo?
Quello di cui stentavo a rendermi conto è che nel frattempo la mia nuova casa diventava più verde. Nuovi vasi, nuove piantine, persino nuove foglie facevano la loro tremula comparsa su piante vecchie, prendendo spazio e restituendo in cambio ossigeno e luce. Non ho mai amato particolarmente il mondo vegetale. Non prima degli ultimi mesi. Credo però che a un certo punto nella vita ci siano nuovi semi che si schiudono e che non sempre questi semi prendono la forma delle parole. Se prima coltivavo lettere e grafemi, ora mi accorgo di compiacermi allo spuntare di una nuova radicetta. Sono anche aumentate le passeggiate nel bosco. Sia chiaro, non attribuisco la responsabilità di questo cambiamento ad una mattinata di febbraio in un monastero cluniacense. Due questioni ora però mi si palesano: quanto quella chiacchierata fosse necessaria per il mio percorso nel verde e come essa ne facesse già parte.
C’è una cosa poi che, più di ogni altra e senza bisogno di riprendere in mano gli appunti, mi risuona nella mente. Le piante si fanno la guerra, ma allo stesso tempo specie anche molto diverse tra loro sanno trovare nuovi equilibri. Equilibri che noi non immaginavamo nemmeno potessero esistere. Non ho il diritto di dare alla Natura un volto pacifista, imbrigliandola in un concetto che, di fatto, per nulla le compete. Più che della pace e della guerra – termini che nel frattempo sono tornati di un’attualità funesta – del mondo vegetale mi stupiscono la forza e gli equilibri. Aspetti senza i quali il nostro mondo, anche quello che ci sembra di conoscere, cesserebbe di esistere. Ma per funzionare, essi hanno bisogno di trovare la giusta collocazione nel tempo e nello spazio, un po’ come noi. E il tempo di questa storia si scioglie nelle radici di San Salvatore.
“Alla fine il Monastero di San Salvatore è per me un oikos”, dice Enzo Bona con una voce quasi sfuggente, come se quest’antica parola fosse per lui sinonimo di “pretesto”. Ora è il Botanico che sfuma nella ricerca personale delle proprie radici. Oikos è un termine a cui è bene approcciarsi con cura, soprattutto per chi, come me, è avaro di conoscenze sul greco antico. Proprio come uno scrigno, tra i significati esso racchiude quello di “casa, abitazione”, a cui si lega il termine “economia” e poi ancora “stanza, camera”, ma anche “tempio”. Guardando con ancora maggiore attenzione tra le fondamenta della parola, troviamo anche il senso del “luogo natio”, quel posto al quale ci lega il filo molto sottile dell’esistenza da viandanti. È quel dove che lasciamo per andare altrove e, allo stesso tempo, il posto al quale il nostro spirito brama fare ritorno per sentirsi nuovamente a casa. Enzo ha delle ottime ragioni per considerare San Salvatore come il suo personalissimo oikos.
Il monastero sorge appena fuori dall’abitato di Capo di Ponte, il suo paese natale, in Valle Camonica. È qui che ha trascorso momenti felici della sua giovinezza, è qui che da anni cura le erbe officinali nel giardino dei semplici. Ed è ancora qui che ha scelto d’incontrarmi per dare un sostrato di terra, pietra e cielo alla sua storia. Nel tempo, mentre era all’estero, queste mura e i campi tutti attorno si trasfiguravano nella sua mente, assumendo le care sembianze del Posto al quale desiderare fare ritorno. Mentre passeggiamo fuori dalla chiesa, le sue parole ne tracciano i confini. Sotto i miei occhi le mura perimetrali si disfano e ridisegnano in un tempio dalle molte stanze, dove ogni spicchio dell’anima di un uomo ha un luogo sicuro in cui tornare. Mi pare di sentire, più che di capire, come il Botanico che mi accompagna sia legato a doppio filo con lo spirito di questo luogo. E così, invece di tuffarci subito in un racconto di piante, prendiamo a viaggiare nella Storia.
C’è tanto Romanico in questo posto. Ma lo stile architettonico è stato levigato dalle piogge dei secoli e delle passioni di chi ha vissuto il luogo. Come sempre quando ci si mette di mezzo il Tempo, la realtà di oggi è profondamente diversa: la chiesa è relativamente piccola, ma c’è stato un mondo in cui attorno al cuore pulsante del culto si estendevano altri edifici. Mura, tetti e ancora mura, fondamenta di accoglienza. L’unica costruzione sopravvissuta è, appunto, la chiesa e noi oggi non ci entriamo. Non importa, ho avuto altre occasioni per visitarla e ogni volta mi si è parata di fronte come un enigma. Il complesso monastico era comunque più ampio, squisito frutto dello stile cluniacense. Il senso che ora trasmette passeggiando attorno all’altura su cui sorge è per me quello restituito da una piccola imbarcazione rimasta incagliata tra gli scogli. Tale è il suo grado di commistione con la roccia sottostante, che nel vederla non si è più capaci di dire se sulla sommità della roccia la chiesa sia stata appoggiata con cura, oppure se… se non sia essa stessa un’escrescenza, ordinata e cristallina che, con estrema compostezza, ne è scaturita.
L’edificio, con i suoi 19 metri per 11, pare risalga al 1110-1120. La storia di questi luoghi, così lontani dai grandi centri del potere, non pullula di documenti. Ma sembra che nel 1120 il territorio di Capo di Ponte, oggi in provincia di Brescia, fosse già un Priorato. Nei secoli, queste mura e la terra tutta attorno vedono poi diversi passaggi di testimone: l’Arcidiaconato di Brescia, l’alienazione dei beni per mano della Repubblica Giacobina Bresciana, l’acquisto da parte della famiglia Rizzi e, infine, l’acquisizione per mano della Fondazione Camunitas. Tanti travasi per una stessa, meravigliosa pianta. E ad ogni travaso, una piccola o grande modifica, dal restauro completo all’aggiunta di orpelli dal piglio esoterico. Un luogo, insomma, che trasuda Storia e storie, molte delle quali probabilmente lasciate incompiute. Passiamo accanto al giardino dei semplici. Alcune piante sonnecchiano sotto l’inverno che si sfalda, altre attendono con ansia di poter riconquistare terreno. La linfa che scorre nelle vene di questa terra è gravida di popoli che si sono succeduti. Capo di Ponte, paese di 2.321 abitanti a un’ottantina di chilometri da Brescia, è patria d’incisioni rupestri. Ma il luogo in sé, visto oggi nel suo involucro di siepi, cipressi e roseti affacciati sulla montagna sacra della Concarena, parla soprattutto la lingua del Romanico. Un luogo che tiene ben tese le due corde dell’anima: quella che vibra al fluire costante della quiete e quella che s’increspa di fronte al mistero dell’Eterno. Il luogo appropriato per parlare di piante e dei loro vizi.
“Le piante sono delle opportuniste, si muovono e si moltiplicano.” Dice Bona puntando lo sguardo sul ligustro, un’arbustiva che lo porta a sottolineare con forza quell’aggettivo: “opportunista”. Saranno forse termini che utilizziamo prettamente per gli essere umani, dato che in fondo il nostro punto di vista è e resta antropocentrico. Tuttavia, così è più semplice da spiegare: “tra le piante ci sono delle guerre.” Nei mesi che seguono il nostro incontro, quella mattina a metà tra nubi e sole all’inizio di febbraio, questa frase mi rimbomba nel cervello fino a scavare le pareti delle caverne in cui avevamo nascosto i nostri incubi peggiori. “Le piante reagiscono tra di loro emettendo delle sostanze. Spesso è un’azione preventiva, come per gli aghi di abete, che di fatto inibiscono la crescita di altre piante.” Nella mia immaginazione, ora anche un bosco di conifere si è popolato di dinamiche belliche come le tattiche di difesa. “I biomi mettono in atto tutti i meccanismi possibili per avere la stabilità. Non si tratta solo di aghi sul terreno, ma anche della quantità di luce che i rami lasciano filtrare. Sembra proprio che il bosco dica: << Io sono un bosco d’abete e voglio fare il bosco d’abete, non venire a rompermi le scatole! >>”.
La similitudine con il comportamento dell’essere umano è spiazzante. Realizzarlo mentre si cammina in un luogo di raccoglimento mistico ha un impatto ancora maggiore. Le piante pensano e agiscono, come gli uomini; ma, a differenza nostra, non ragionano a livello d’individui, bensì d’organismo. E qui spunta il concetto di “bioma”, altro termine dall’etimologia greca che affonda le proprie radici linguistiche nella “vita” stessa. Azzardando un sunto tra le possibili definizioni, il bioma rappresenta l’insieme delle comunità che popolano un ambiente e che, all’interno di quell’ambiente, hanno raggiunto un certo grado di stabilità. Il bioma che troviamo in un bosco di abeti pare quindi essere più determinato, addirittura più agguerrito nel difendersi da eventuali intrusioni di altre specie, rispetto a quanto è in grado di fare un bosco di latifoglie. Anche una faggeta, quindi, lavora per conservare il proprio bioma, ma in qualche modo è come se fosse più tollerante verso la presenza di altre piante. Volendo estremizzare, ma neanche più di tanto, s’innesca una forma tutta particolare di sincretismo che sfocia nel mutuo soccorso tra le specie; o viceversa. La sensazione che raccolgo collezionando le notizie internazionali dei mesi successivi è quella di essermi addormentata in una radura di faggi per risvegliarmi in una fitta abetaia.
Di fatto però, come sottolinea Enzo Bona, tendenzialmente le piante non sono inclini alla sperimentazione. Anzi: nessuna pianta è contenta che le si avvicini un’altra pianta, nemmeno se della stessa specie. “Per crescere e andare in chioma, ogni pianta deve mantenere una distanza ecologica vitale.” Ma anche nel mondo vegetale esistono delle eccezioni e le troviamo in ambiente erbaceo, dove vivono esemplari che riescono a stare volentieri gli uni vicini agli altri. Chi frequenta la montagna sa che dove arriva il mirtillo arriva anche il rododendro; le due specie in qualche modo traggono un vantaggio biochimico dall’altrui presenza e, se non altro, questa convivenza fornisce un riparo dal vento. Volessimo trarne una pillola di Fitosociologia, diremmo che le associazioni tra esseri esistono anche nel mondo vegetale, dove di fatto però le comunità tendono a conservare i propri tratti unici e distintivi. E qui entra in gioco l’uomo.
L’uomo che, da sempre, di questa partita è un giocatore molto astuto, spesso poco consapevole e decisamente votato alla miopia. Per praticità, per economia, per necessità, l’esemplare umano gerarchicamente organizzato in comunità arriva sul suolo e detta legge. Seleziona, estirpa, muta e crea nuove forme – squisitamente artificiali – di paesaggio. Il vigneto si conserva come vigneto perché se arrivano altre specie arriva anche il contadino e le sradica per tempo. Un concetto che applichiamo molto bene anche al campo di grano: luoghi inventati dalla specie umana e che, senza il suo intervento, non riuscirebbero a mantenersi tali. Ma, se in questi casi il corso delle nostre azioni è dettato dalla volontà di coltivare per alimentare, oltre al nostro ego, anche il nostro corpo, che succede quando interveniamo su comunità vegetali autonome? Prendiamo il bosco e pensiamo a quante volte, nel corso dei secoli, ci abbiamo messo mano. Era corretto farlo?
Il punto è che non possiamo definire corretto uno schema mentale – e il comportamento che ne consegue – finché non definiamo anche con cura i parametri secondo i quali intendiamo la correttezza. Sono dei paletti attorno a cui cresce e trionfa il nostro senso di giustizia e, in un certo qual modo, anche il senso di bellezza. Giusto, bello, corretto… il luogo scelto per la chiacchierata di inizio febbraio sembra farsi portavoce di tutti questi termini. Un luogo nei secoli fortemente mutato, rimaneggiato, a più riprese modificato. Lo faremmo ancora o, figli di una consapevolezza diversa, oggi ci “limiteremmo” a tutelarlo? Una carriera (e una vita) che passano dall’Informatica sistemica alla Botanica virando verso l’Etica… Mi rendo sempre meglio conto di due cose: del perché Enzo Bona si meriti l’appellativo affettuoso di Magister e di come le argomentazioni filosofiche per sbocciare abbiano bisogno di essere annaffiate con l’atto del camminare. Passeggiando, chiacchierando, osservando le specie che ci circondano e i segni del passaggio delle stagioni, assimilo livelli sempre maggiori di verde clorofilla. “In questi anni si sono massacrati”, la voce del Magister mi riporta alla terra e ai boschi che la ricoprono “si sono massacrati e stanno andando verso una selezione della specie a lungo termine. È una Guerra Fredda. Guarda là tutti quei nidi di processionaria tra i pini. A noi trasmette disordine, eppure tutte queste cose fanno parte di un dinamismo più ampio.”
Come sottofondo alla nostra chiacchierata peripatetica regna incessante il canto degli uccellini, intervallato dal rumore sordo di una motosega ingolfata. Enzo sente tutto, ma sono altre le voci che ascolta. Restando sintonizzato su frequenze più alte aggiunge con foga: “la tentazione nostra sarebbe quella di togliere la processionaria. Io sono di quelli che dicono: << lascio che la processionaria ci sia >>. Ovviamente finché da lì non passa una strada, magari con dei bambini. Se vedo crescere delle ortiche, va bene strapparle se sono nell’orto, ma fuori da lì perché dovrei?” Il ragionamento non fa una piega. Ciò che invece tendiamo a voler sempre piegare in maniera contorta è il pianeta, sotto la mano pesante del nostro interventismo verso le altre forme di vita. Anche quando queste vivono in biomi tutti loro, dove la processionaria non compie un’azione “cattiva”, perché non rappresenta una minaccia diretta per gli esseri umani. Modificare gli ambienti che ci circondano, anche quelli autonomi, può essere letta come una forma di ingerenza. Lasciare che le specie vegetali e quelle animali interagiscano liberamente consente invece al paesaggio di evolvere.
Appoggio la mano sulle pietre squadrate dell’abside, non più gelate dall’inverno, eternamente riscaldate dal fuoco interno dell’Arte. Anche quella è una forma d’intervento, ancora più estrema quando fortemente dettata da canoni geometrici. “Oltre il 90% della biomassa del pianeta è costituita dal mondo vegetale. Noi invece ci riteniamo centrali in tutti i processi. Crediamo di poter cambiare il destino degli altri viventi e anche dei paesaggi.” È un’affermazione sconsolata, figlia di una coscienza ecologica ancora troppo giovane per permetterle di attecchire e radicarsi nella civiltà umana. Il punto è che, prima d’intervenire, andrebbe capito a fondo il contesto. I luoghi cambiano, anche se noi tendiamo a dare per scontata la versione più recente del mondo che abbiamo conosciuto. La Valle Camonica, dove si trovano Capo di Ponte e il suo monastero, nei secoli ha visto e vissuto cambiamenti paesaggistici sconvolgenti. Boschi andati in fumo per alimentare la sete di metalli da forgiare, l’arrivo della specie esotica del castagno (destinato a mutare la natura stessa dell’alimentazione locale), un’antropizzazione sempre più marcata anche lontano dai grandi centri. In buona parte siamo stati noi stessi vittime e fautori di questi stravolgimenti. Ciò che è certo è che tornare all’originale – ammesso e non concesso di riuscire ad individuare una versione originale in tutto questo processo – risulta oggi non solo praticamente impossibile, ma anche potenzialmente pericoloso.
Le specie esotiche arrivano – portate dai viaggiatori, dal vento quando cambia il clima, dal mondo che ruota attorno ad assi di cui ancora conosciamo troppo poco – s’inseriscono e trovano un loro equilibrio. Sta davvero a noi estirparle? Abbiamo le competenze per farlo? Quanto al diritto di decidere se e come intervenire, siamo certi di detenerlo veramente? La filosofia ci viene in soccorso, supportata da una sana divulgazione scientifica, atta a fare crescere in noi la consapevolezza.
“Come in architettura, non si riesce a mitigare tutto. Non possiamo imporre un modello a tutto e a tutti.” Dovremmo invece fare un passo indietro, studiare profondamente il paesaggio e capire quali aspetti e quali aree mettere sotto tutela per non perdere memoria del passato; di quel passato che reputiamo essere fondamentale per non perdere il filo del discorso e, così facendo, anche noi stessi. Comprendere un luogo, imparare a leggerne le relazioni e le dinamiche interne e, solo a quel punto, valutare se e come intervenire per mantenere lo status quo di un ambiente. “L’importante è che la nostra coscienza ci faccia fare un passo indietro nel senso della comprensione dei fenomeni.”
Con Enzo Bona, con la comunità botanica di cui è l’anima, con la sua vena narrativa che lo porta a partorire fabule storiche, così come con la sua passione per il Cinquecento, o con che cosa il Monastero di San Salvatore rappresenti davvero per la storia della Valle Camonica potremmo intrattenerci per molte altre passeggiate attorno al tempo. Osservando questa volta l’orchidea, il giglio della pace e la violetta africana che popolano il mio centrotavola, penso invece alle ultime frasi registrate quella mattina d’inizio febbraio 2022…
“L’occhio di Madonna (la Veronica persica) viene dalla Persia. È qui da almeno 500 anni perché qualcuno l’ha piantato in giardino. Vive tranquillo con la margherita e con la Bellis perennis, che è una specie autoctona, così come con le violette. Convivono su questo come su molti altri prati, hanno la loro nicchia ecologica compatibile. E io, per motivi antropologici, dovrei strappare la Veronica persica in quanto esotica? No. Lascio piuttosto che le sue discussioni se le faccia con la viola e con la margherita!” Amen, Magister.
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