con un contributo di Mauro Mondello
Escrescenza di una terra esplosa. Ovunque le tracce di lava colata e del momento in cui questa ha perso la forza di avanzare terribile, e si è fermata. Fatta pietra, in forme tormentate, armoniose, sfinite. Dentro l’aria di Lanzarote, gli ultimi istanti di vita lavica si susseguono da una costa all’altra.
Abbonda il nero.
Nero di fuoco spento, di vita assente che attende il momento giusto per mostrarsi. E tu puoi solo accettarlo, perché questo è tutto quello che il tempo di evoluzione ha già permesso.
Decine di vulcani dalle bocche aperte tengono sù l’isola, come galleggianti. Spalancate e pronte al rigurgito. In ogni punto in cui il centro della terra ha creato scompiglio, si mischiano le forme, i colori e le materie. Distese di sabbia e lembi di terra fertile. La polvere, la pietra scura, il rosso, il giallo, la piantagione sporadica e severa modellata dal vento. Superfici crespe, come resti di un guscio pressato dall’interno, spaccato ed espanso in mille pezzi. Ma non c’è solo questo: è difficile immaginare un tempo unico in questo luogo.
Sono finita a Caleta de Famara per caso, resterò qui nove giorni. Prima di partire so già cosa aspettarmi, una lunga spiaggia e un piccolo villaggio, viaggiatori e surfisti. Quando arrivo sul posto però non trovo solo questo, ma anche molto altro, che si tradurrà in sensazioni. Sono nata e cresciuta sul mare, ma forse non c’entra. Per me l’acqua è una sorte di divinità bonaria e maestra, che mi mette al sicuro, ovunque io sia. L’abitazione che ho preso è al piano terra, come molte qui. Dalla strada un gradino alto e strettissimo dà accesso alla terrazza, per salirlo metti il piede in orizzontale e trovi l’equilibrio. Nello stesso spazio vi è incastrato un cancelletto di ferro, sempre aperto su una superficie esterna di una ventina di metri quadri, nell’angolo di fronte la porta d’entrata.
La mattina faccio con calma. La macchinetta del caffè è troppo grande, ma funziona bene. Mi siedo, mentre mi abituo alla luce, e intanto il portatile si accende facendo sempre lo stesso rumore, che qui suona strano. Per un po’ resta socchiuso in un angolo.
Apro la porta di casa e il sole si siede a tavola. Fuori mi poggio sul muretto che affaccia in strada, le onde che sento brontolare dal mio letto ora sono intense. Di tanto in tanto mi sporgo per vederle infrangersi e appagare i sensi.
Mi piace la vita qui, non so se sia l’idea che finirà in fretta o la natura selvaggia, l’inclinazione al minimalismo. Le case tutte uguali, tutte bianche, con le porte azzurro intenso, senza sfarzi, a definire differenze. Sull’uscio persone che provano a proteggersi dal vento, che restano in piedi sulla soglia delle porte, per vedere se fuori accade qualcosa. Nelle case vacanza, messi fuori ad asciugare, i surf e le mute, puliti e pronti per il giorno dopo.
Un amico mi aveva parlato del formaggio di capra come di un prodotto tipico dell’isola. L’ho trovato subito: è praticamente ovunque. Di capre non ne ho viste molte, fino a un certo punto. Poi ne incontro un gregge enorme un giorno, passando in macchina: è grandissimo, mi viene in mente che forse sono tutte lì, tutte proprietà di un unico uomo.
Al chiringuito vicino alla spiaggia bevo un Estrella e parlo con Abel, il tipo che affitta le tavole da surf, e che fa anche tante altre cose. Mi dice che ce ne sono molte anche selvatiche e che ieri ne ha trovate due morte, che vuole prenderne le corna per regalarle alla sua ragazza. Mi domando come si faccia a farlo, ma senza bisogno di chiedere, lui spiega come gli taglierà la testa.
Il Covid e le sue regole hanno raggiunto anche questi resti di terra inzuppati, così i bar e i ristoranti chiudono alle 18 e dalle 22 c’è il coprifuoco. In un certo modo è una regola, questa, che arricchisce il mio tempo qui. Mi piace camminare tra le strade deserte, con qualcuno che appare di tanto in tanto, e si crea un contatto, riesco a scorgere i dettagli. Mi stupisce la quantità di ruggine che lentamente divora le auto, impronta del tempo, sintesi della prepotenza dell’oceano, della salsedine che travolge incessante. Uno scontro senza fine tra acqua e terra.
Oggi, dopo lavoro, prendo la macchina per andare al parco nazionale di Timanfaya. Il primo posto in cui mi fermo non è quello che cercavo, ma il museo che precede il parco. Decido comunque di fare un giro, visto che ci sono: resterò l’unica visitatrice. Seguo il percorso guidato e leggo un po’ di informazioni sui vari stadi e conseguenze delle due principali eruzioni che hanno modellato l’isola, tra il 1720 e il 1736 e poi nel 1824. Scorro velocemente le aree espositive. Si avvicina una donna, lavora qui, e mi chiede se voglio assistere alla simulazione. Mi sembra l’unica cosa eccitante di questo posto. Mi porta sotto il museo, scendiamo le scale e trovo uno spazio di pochi metri quadrati, a terra le sagome di orme di piedi segnano il posto in cui i visitatori dovrebbero posizionarsi: posso scegliere la visuale migliore. La signora mi anticipa quello che accadrà, cosa vedrò, e dà il via al tour. Si abbassano le luci, la voce di un uomo inizia a parlare, descrivendo com’era l’isola e il momento delle eruzioni, parla di come le esplosioni hanno sconvolto la vita qui. Parte un sottofondo di voci terrorizzate che urlano, il garrito di gabbiani come impazziti, una luce rossa inizia a percorrere il calco delle rocce di fronte a me, scivolando lento come lava, un fumo bianco la segue e riempie la stanza. Resto un po’ turbata dallo stile, saluto la signora e vado via. Il tipo all’ingresso mi dice che per raggiungere il parco devo proseguire, troverò l’entrata sulla destra.
Sembra un film di Sergio Leone. Intorno alla distesa di verde spuntato, cresciuto come di nascosto sul fondo nero della terra, si apre una lingua d’asfalto. Arrivando da Arrecife bisogna seguire le indicazioni che portano alla Montaña Blanca e poi, appena dopo la rotonda, svoltare, con decisione e speranza, su una stradina di sterrato bruno, di quelle che ti ci butti dentro e in fondo, se sei dell’umore giusto, speri che ti portino in luogo che non c’è.
Da lontano si vedono dei tavoli di legno scuro, il pavimento cotto, i muri a secco costruiti con la pietra lavica, che di certo qui non manca. Ma è l’odore quello che mi resta forte addosso, persino dopo essermi fatto il bagno, ore più tardi. E’ un odore di lavoro antico, di bestia e di selvaggio, che circonda il casolare e sale dalla polvere che tiriamo sù, via via che l’auto si avvicina allo spiazzo. Ancora, come sempre, mi riempie l’anima la purezza delle origini, quel senso di inizio di tutto con il quale devi fare i conti quando sbatti contro la natura rigida e potente. Siamo venuti a prendere il formaggio di capra, che lo fa una signora burbera e bellissima e ci mette d’entro l’erba provenzale e ha il sapore aggrondato di questa Lanzarote così riccia e stepposa che mi ricorda casa. La sera piove, poco. Apriamo il vino rosso e ce ne stiamo in silenzio, ad ascoltare il silenzio.
Dalla nostra casetta di Ye si vede La Graciosa, e si vedono pure i tuoi occhi.
Oggi non lavoro e mi sveglio presto. Un aereo mi porterà all’inizio di un febbraio a Berlino, nelle prossime ore. Prendo la macchina fotografica e vado in spiaggia. Dicono sia forse la più bella dell’isola, circa cinque chilometri, a seconda dell’altezza del mare e della stagione. Mi piacerebbe vederne la fine.
Non ci ero mai venuta a quest’ora del mattino. Le onde, quando si avvicinano all’epilogo, hanno già detto tanto. Lente, spariscono dentro una lingua di acqua sottile che si espande, e nella sosta di qualche istante, si fa specchio. C’è meno vigore e più beatitudine in questo momento. Il tempo migliore per avvalersi del mare e del vento. La spiaggia è popolata, ma c’è troppo spazio. Siamo un insieme di piccole sagome in lontananza. Percepisco, negli esseri umani che incontro, una sorta di religiosa comunanza con questo luogo, e tutto ciò che lo compone. Sospesi nell’aria, i colori dei keit svirgolano di tanto in tanto. Scatto qualche foto, non parlo, ma non posso fare a meno di sorridere.
Pensavo che in questi giorni non avrei potuto perdermi. E invece mi sono perso. Appoggio i pensieri sulla sabbia impenetrabile del Cochino. “Puoi dirmi dove sono?”. Ma non lo sa nessuno, che posto sia questo e da dove arrivi. Bisogna accettarne l’infinito, ritornare a perdersi, immortalare l’attimo con la semplicità che ha il gusto di pane e olio e pomodoro. Perché le cose devono sempre cambiare? Non voglio rimanere da solo, di nuovo. Mi rassicura accorgermi che la perfezione non è una cosa, un luogo o una persona, ma un momento. E, di tutti, il mio preferito è questo, su un’isola di nome Lanzarote.
REDAZIONE
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