Le mascherine – 口罩
L’aria di Pechino è malsana. L’inquinamento ti si appiccica alla pelle. Lo si vede, letteralmente. È come se ci fosse una nebbiolina perenne, che non puoi evitare. Che tu sia in un parco o nel centro della città, l’odore di bruciato e di smog sono continui. Per me, il momento peggiore della giornata è la mattina.
La prima cosa che mi sento di fare appena sveglia non è controllare i messaggi, sperare che la VPN funzioni o guardare fuori dalla finestra per capire se stia piovendo. No. Come la maggior parte degli occidentali che vivono qui, prendo il telefono e guardo quale sia la qualità dell’aria, l’Air Quality Index (AQI), secondo il mio telefono. In tutto il mese di ottobre, a Pechino, non ho mai visto l’indice verde, dunque non ho mai ricevuto il via libera che mi dicesse: ‘Oggi l’aria è pulita, niente mascherina!’.
I livelli di inquinamento si sono sempre aggirati intorno ai 60 (inquinamento moderato, rischioso per i gruppi sensibili), ma hanno anche raggiunto picchi di 120 (aria molto inquinata, si consiglia di indossare una mascherina). Inoltre, tutti lo sanno, i livelli di inquinamento riportati dalle app e dai telefoni cinesi (come il mio) non sono quelli reali. Basta scaricare una qualsiasi applicazione occidentale e confrontare i dati per rendersene conto. Quindi, ogni giorno, anche quando la qualità dell’aria è solo ‘moderatamente’ inquinata, esco con la mia mascherina nera. Che poi, mi chiedo, queste mascherine servono davvero a qualcosa? I miei amici cinesi hanno opinioni diverse al riguardo e la mia personalissima stima, basata su quanto ho visto camminando per le vie delle principali città cinesi, è che ad indossarle sia comunque una minima parte della popolazione. Di certo non gli anziani, che sono forse il gruppo, insieme ai malati, a cui servirebbero di più. Io, seppur dubbiosa della loro utilità, ne ho comprate alcune, pur sapendo che la maggior parte dei modelli sono usa e getta e di certo non prodotti in materiali facilmente riciclabili. Contribuisco, dunque, all’inquinamento che sto cercando di combattere.
Grande Muraglia – 萬里長城
Il simbolo della Cina per eccellenza è la Grande Muraglia, una lunghissima serie di mura create per proteggere i cinesi dagli attacchi esterni, specialmente dei Mongoli. Dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’umanità, è stata costruita a partire dal 215 a.C. sotto la guida dell’imperatore Qin Shi Huang. Inizialmente realizzata con materiali in legno, si tramutò pian piano, nel corso dei secoli, in quello che vediamo oggi: 8852km di sassi, torrette e trincee. Buona parte della Muraglia è oggi distrutta a causa di fenomeni naturali come l’erosione, provocata dalle tempeste di sabbia a Gansu, o da interventi umani che hanno preferito distruggere il simbolo di una cultura millenaria, per fare posto ad autostrade e ponti. Quello che è rimasto, lo si può visitare in uno dei siti turistici disseminati nella zona di Pechino, arrivandoci in treno o in autobus. Oggi i turisti affaticati cercano di salire gli altissimi gradini per raggiungere una delle torrette e gridano per sentire l’eco della loro voce sulla montagna. Per i cinesi, però, visitare la Muraglia non è solo un modo per connettersi con la loro storia, ma una questione d’onore. In uno dei suoi poemi, Mao scrive: ‘Chi non sale sulla Grande Muraglia non è un vero eroe’ e non è raro ritrovare questa scritta incisa nella Muraglia stessa o in targhe di pietra lasciate in suo onore lungo il tracciato.
wàiguórén – 外国人
Il significato della parola “waiguoren’”è “straniero”, letteralmente. “persona che viene da un paese fuori” (dalla Cina). Non ha una connotazione positiva, né negativa. Si tratta, semplicemente, di un modo di riferirsi verso qualcuno che non è di etnia cinese, taiwanese, coreana o giapponese.
Infatti, se a volte in Europa si sente dire “i cinesi sembrano tutti uguali”, ebbene, è giusto sapere che i cinesi dicono di noi occidentali. Non importa se statunitensi, inglesi, tedeschi, italiani o spagnoli. Distinguere tra di noi, per loro, è difficile. Ricordo un episodio, mentre stavo facendo lezione di mandarino, in cui l’insegnante rimase stupita alla mia frase “preferisco il cibo italiano a quello tedesco”. Per lei, non c’era differenza tra i due, sempre di cibo europeo si trattava. L’esempio classico che chiunque vada in Cina proverà sulla sua pelle, almeno una o due volte, anche in città grandi, è quello di essere fotografati, o addirittura fermati, per fare una foto insieme ad un cinese, che probabilmente la pubblicherà sul suo profilo WeChat (la versione cinese di Facebook, Whatsapp e un’app di pagamenti tutto insieme). A me è capitato moltissime volte: in tanti paesini mi sono state fatte foto dalle finestre da anziane donne che mi gridavano ‘waiguoren’, a Shanghai gruppi di bambini mi ha guardata come fossi un alieno e, mentre stavo visitando un tempio sotto la pioggia, un gruppo di turisti cinesi ha voluto assolutamente immortalarsi con me. L’episodio più insolito l’ho vissuto con il personale di sicurezza della metropolitana. Pensando di aver fatto qualcosa di sbagliato, mi sono fermata ai cenni di un controllore che in realtà voleva solo fare pratica di inglese con me. Dopo avermi chiesto cosa facessi a Pechino, se mi piacesse la Cina e da dove venissi, non è mancata la foto di rito che, di fronte a me, ha immediatamente caricato su WeChat e inviato a metà della sua rubrica. Perché in Cina (e non soltanto in Cina, a dire il vero), se qualcosa non viene pubblicato online, è come se non esistesse.
La Porta della Pace Celeste – 天安门
Non serve essere degli esperti di Cina per sapere che, discutendo con un locale, bisogna assolutamente evitare le tre T (Tienanmen, Taiwan e Tibet). La mia esperienza mi ha insegnato che questo è vero solo parzialmente, e che dei tre argomenti è quello relativo a Tienanmen il più delicato.
La piazza, che è tristemente nota agli occhi degli occidentali per la repressione compiuta il 4 giugno del 1989 ad opera del partito comunista verso gruppi di studenti che protestavano contro il governo, chiedendo una democratizzazione del paese, rappresenta ben altro per buona parte dei cinesi.
Larga 880 metri da nord a sud e 500 da est a ovest, è la sesta piazza pubblica più grande al mondo. Costruita nel 1417, è stata distrutta più volte nel corso dei secoli. Così come la vediamo oggi, è il risultato dei lavori di ristrutturazione compiuti dopo la Rivolta dei Boxer, nel 1899: più di cento anni fa i cittadini si ribellarono all’influenza straniera colonialista e la lotta ebbe come punto di riferimento le tante scuole di kung fu (allora chiamate scuole di pugilato). Per questo, i manifestanti sono stati ricordati, nel tempo, come «boxer».
Per entrare a piazza Tienanmen, i cittadini cinesi devono validare il loro documento di identità in una delle innumerevoli macchine che fotografano il volto, prima passare attraverso un metal detector. Registrarsi, in Cina, è la prassi. Lo si deve fare, ad esempio, anche per prendere un treno, o per visitare qualsiasi attrazione turistica. Eppure, il controllo su piazza Tienanmen mi è sembrato più attento che in altri luoghi. Seppur la narrazione sull’incidente (così il governo si riferisce al massacro del 1989) sia stata quasi interamente riscritta (la versione reale è censurata nei libri di storia cinesi ed è introvabile online, se si è all’interno dei confini della Repubblica Popolare), ciclicamente non mancano episodi di simpatizzanti con il movimento studentesco, o di altri oppositori al regime, che tentano di portare l’attenzione sui fatti del 1989 o su altri soprusi di governo, anche compiendo gesti estremi, come dandosi fuoco nel centro della piazza.
Per la maggior parte dei cinesi Tienanmen resta comunque, prima di ogni cosa, la prova tangibile di quello che la Cina è stata e di ciò che è diventata oggi. Qui la modernità incontra il passato, fungendo da ingresso a quella che era la Città Proibita, simbolo delle dinastie Ming e Qing.
Qui, nel 1949, Mao Tse-tung ha proclamato la nascita della Repubblica Popolare Cinese: le sue spoglie sono conservate nel Mausoleo per lui costruito nel mezzo della Piazza, guardando a quella che era la porta di ingresso degli imperatori nel loro regno privato e che oggi appartiene a tutto il popolo cinese.
Beijing Mutton Hotpot – 北京火锅
Non c’è alcun posto al mondo che abbia una tradizione culinaria come quella cinese (no, nemmeno l’Italia). La cultura gastronomica della Cina, oltre ad essere una parte essenziale della cultura locale, è un conglomerato di sapori e gusti completamente diversi, che si sono mischiati e modificati nel corso dei secoli anche grazie all’arrivo di popolazioni straniere. I periodi di multiculturalità, uniti a quelli di isolazionismo, hanno contributo alla diversificazione della cucina: ciò che è arrivato in Europa è forse l’1% di quello che davvero rappresenta la cucina cinese.
Ciò che viene considerato in Italia come “cibo cinese” è di solito una versione impoverita, adattata al palato occidentale, della cucina cantonese. Ma se provate a cercare degli involtini primavera a Shanghai, oppure a Pechino, sarete costretti, appunto, a dirigervi verso un negozio specializzato in cucina cantonese. Ciò che si mangia davvero a Pechino è particolare tipo di hot pot, il tipico piatto del Sichuan, dove si fanno cuocere sul momento, dentro ad una pentola che bolle di fronte a voi, carne, verdure, pesce, tofu e chissà cos’altro. Nella versione pechinese, la zuppa che bolle in pentola non è speziata o estremamente piccante (come nella sua forma sichuanese più famosa), ma è composta da acqua, accompagnata da qualche spezia non piccante. Al punto di ebollizione, basta far cuocere per qualche minuto la carne che avete scelto, facendo attenzione che le traduzioni in inglese (se ci sono) siano realemente accurate: in tavola potrebbero materializzarsi zampe di gallina, cuori di animali non ben identificati, cervello e altre opinabili leccornie di questo tipo.
A Pechino si consiglia la carne di montone, fresca o congelata. La parte migliore del pasto, in ogni caso, è, a mio modestissimo parere, la salsa di pinoli, olio e sesamo che potete aggiungere a qualsiasi cosa abbiate appena finito di cuocere, e che potete creare voi stessi, come preferite: nella maggior parte dei ristoranti c’è un banco a buffet con tutti gli ingredienti necessari. Se avete la fortuna di essere in compagnia di una persona del posto, alla fine verranno probabilmente verranno ordinati dei noodles, gli spaghetti cinesi, che possono essere a loro volta cotti nella hot pot.
Le Olimpiadi estive del 2008 – 第二十九届夏季奥林匹克运动会
Nei paesi europei ospitare le Olimpiadi è molte volte considerato più un danno, che un guadagno. Le grandi opere sono viste con sospetto, specialmente in Italia. Ma i sentimenti erano ben diversi in Cina quando, nel 2001, il Comitato Olimpico decise di affidarle l’organizzazione delle Olimpiadi del 2008.
Il Governo preparò per l’occasione degli opuscoli che vennero distribuiti a poliziotti, volontari e lavoratori del Comitato Olimpico, con frasi ed espressioni utili in inglese ed altre lingue. Inoltre, il governo lanciò una massiccia campagna volta ad incitare i cinesi ad aiutare gli stranieri in difficoltà.
In televisione, la Cina veniva celebrata come una grande nazione, degna di organizzare un evento di portata mondiale. La maggior parte delle gare si svolsero a Pechino, che per l’occasione costruì una serie di infrastrutture che, già all’epoca, avevano ben poco da invidiare a quelle occidentali.
Uno dei simboli è lo Stadio Nazionale, conosciuto anche come The Bird’s Nest (il nido di uccello). Si tratta dell’edificio in acciaio più grande al mondo, con una conformazione strutturale molto particolare (a nido di uccello, appunto): può ospitare fino ad 80.000 persone sui suoi spalti.
A pochi passi di distanza, si apre una foresta di circa sei chilometri quadrati, che include persino un lago e una montagna artificiali. I segni del tempo non si percepiscono, su questi immensi edifici, che sembrano essere stati costruiti appena pochi giorni fa e che rendono la zona olimpica di Pechino un punto di aggregazione per persone di tutte le età. Uno dei miei luoghi preferiti a Pechino.
789 Art District – 798艺术区
La zona 789, conosciuta anche come Dashanzi Art District (DAD), si trova a nord-est di Pechino. È un complesso di fabbriche che sono state riqualificate e che oggi ospitano gallerie d’arte, caffè hipster e ristoranti alternativi. Storicamente questa zona era occupata da un complesso di industrie lanciate negli anni ‘50 grazie ad una cooperazione con l’Unione Sovietica. Mancando in Cina alcune componenti elettroniche moderne, essenziali per il funzionamento degli stabilimenti, un gruppo di scienziati ed ingegneri cinesi fu mandato per la prima volta nella Germania dell’Est e nel 1952 prese l’avvio il più grande progetto di collaborazione tra DDR e Cina, informalmente conosciuto come Project #157. Per questo motivo, camminare tra le vecchie fabbriche del distretto 789 può sembrare, per certi versi, come passeggiare nel bel mezzo di Berlino Est. Fra artisti, creativi e cinesi vestiti all’ultima moda, spiccano gli edifici in perfetto stile Bauhaus. La costruzione del complesso di circa 500.000 metri quadri di zona lavoro, più 370.000 di spazi adibiti a dormitori, oltre ad avere un costo molto alto, causò una serie di malintesi e di incomprensioni tra russi, tedeschi e cinesi. La produzione iniziò nel 1957 e continuò fino al 1995. Fu allora che l’Accademia Centrale delle Belle Arti di Pechino, alla ricerca di una nuova sede, decise di spostarsi nelle fabbriche in disuso. I primi anni di produzioni artistiche, passati al riparo dagli interventi del governo, furono floridi e attirarono creativi da tutto il mondo. Oggi il distretto 789 deve combattere la gentrificazione e affitti troppo alti: gli artisti sono obbligati a convivere con le orde di più interessati a una foto iconica, che all’arte.
Il Palazzo d’Estate (頤和園)
Circa quindici chilometri ad ovest del centro di Pechino, si trova il Palazzo d’Estate, quella che è sicuramente la mia “attrazione turistica” preferita della capitale cinese. Si chiama yiheyuan (頤和園) che significa, letteralmente, giardino dell’armonia educata. Dei suoi 70.000 metri quadrati di estensione, il 75% è occupato da acqua, il resto da giardini e palazzi. I turisti si accalcano all’entrata, a pochi passi dalla stazione Beigongmen, per acquistare il biglietto di soli 30 yuan, che offre l’ingresso alla maggior parte del complesso. A trasformarlo in quello che è oggi fu l’imperatore Qianlong, che nel 1750 ampliò l’Antico Palazzo già esistente, includendo la costruzione di un piccolo stagno in un lago artificiale, con un’area di 2.20 chilometri quadrati. Si tratta del Lago Kunming, creato a somiglianza del famoso lago di Hangzhou (città situata a meno di 200 chilometri da Shanghai e capitale della Cina nel decimo secolo, durante la dinastia Qian). Oggi, a solcare le acque del lago, sono i pedalò e le barche in stile gondola, piene di turisti cinesi che fanno foto, oltre che al lago e alle performance di danzatori in abiti tradizionali, agli stranieri. Fino a prima della rivoluzione, invece, era prerogativa degli imperatori e della famiglia reale rinfrescarsi nel lago durante le estati molto calde di Pechino. Nonostante gli attacchi, prima con l’invasione anglo-francese del 1860 e poi durante la rivolta dei Boxer del 1899, il Palazzo riuscì a limitare i danni e fu ricostruito, divenendo una delle prime attrazioni turistiche della Cina post-imperiale, a disposizione del pubblico già nel 1924.
Cinema propaganda
Nel 2017 le autorità cinesi hanno stabilito che al cinema, prima dell’inizio dello spettacolo, debbano passare alcuni video che promuovano i valori socialisti della Cina. Si tratta di brevi filmati che celebrano i traguardi raggiunti dalla nazione sotto la guida del presidente Xi Jinping, oppure di video di attori che leggono frasi celebri tratte da poemi di antichi scrittori o di Mao. In realtà non è molto diverso da quanto si legge su un qualsiasi cartello promozionale o sui tabelloni affissi sopra i cantieri. Non è raro, infatti, trovarsi di fronte a frasi del tipo ‘Ama il tuo paese’, ‘Lotta per il tuo paese’, ‘Non dimenticare il tuo paese’, e ancora ‘Fa’ qualcosa per il tuo paese!’. Al cinema, l’impatto su un occidentale è semplicemente maggiore perché, se per strada può non recepire i messaggi, per via della barriera linguistica, sul grande schermo la faccia sorridente di Jackie Chan, accompagnata da una musica trionfale e da solenne tono di voce, lascia poco spazio ai fraintendimenti, anche se non si capisce una sola parola di cinese.
Così, tra la pubblicità di un prodotto americano, gelato, pop-corn, caramelle e altre mirabilie importate, il presidente Xi Jinping ci ricorda di quanto la Cina stia diventando potente e invita i connazionali a lavorare per rendere il paese great again.
Il film sta per iniziare. Un film americano, mostrato in lingua originale.
Great Leap Brewing#12 – 大跃啤酒#12
A pochi passi dalla stazione della metro di Sanlitun si trova il primo pub di Pechino, diventato ormai un’istituzione per gli espatriati di tutto il mondo in suolo cinese. Ad aprirlo furono i coniugi Carl Setzer e Liu Fang nel 2008, introducendo la cultura della birra artigianale nella capitale della Repubblica Popolare. A dire il vero Great Leap Brewing#12 è il secondo pub aperto dalla coppia, ma ad oggi di gran lunga il più popolare. Su tre piani, quasi insignificante se visto da fuori, dentro ricorda una birreria bavarese, ma con un tocco hipster. I tavolini sono disposti uno di fianco all’altro, a pochi centimetri di distanza tra loro, tanto che basta prestare attenzione per origliare una conversazione, molto spesso in inglese, dei vicini. Il vociare si alza con il passare delle ore. Mentre il mio caro amico cinese Letian mi spiega perché si offenderebbe se qualcuno gli dicesse che la Cina è un paese dittatoriale, mentre invece lo si dovrebbe considerare, semplicemente, uno stato autoritario, ho la fortuna di provare una delle cucine fusion più buone della mia vita. Si parte con gli arachidi piccanti, un panino con la tempura e due vassoi con tre birre da ‘assaggiare’. Il cameriere ci spiega come le birre pechinesi non abbiano più nulla da invidiare a quelle europee. In effetti anche le birre, come la cucina, sembrano aver abbracciato la cultura fusion. Partiamo con la Banana Wheat, una birra in stile Hefeweizen, prodotta interamente con grano e malto d’orzo. Poi passiamo all’Iron Buddha Blonde, una blonde ale infusa con foglie di tè della provincia di Fujian. Si chiude con quella che Letian ha definito la birra più cheeky della Cina: Excuse Me While I Kiss This Guy. Interamente prodotta dalla distilleria di Great Leap Brewing, sulla bottiglia si trova un’illustrazione che richiama il celebre graffito berlinese di Dmitri Vrubel dove Brezhnev e Honecker si scambiano un bacio fraterno. Al posto loro però, Great Leap ci ha messo Trump e Putin.
Perché ‘anche noi cinesi sappiamo avere senso dell’umorismo’.
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